Contributo Conferenza d'Organizzazione 2015

Federazione di Civitavecchia

Aggiungere punto B.3) Fuori dai diktat della Troika e dai vincoli euromonetaristi. Fuori dalla Nato.

Nel contesto attuale concepire una linea politica nazionale senza inserirla nel contesto sovranazionale è rischioso e velleitario. Sul terreno internazionale la linea di demarcazione per la ricostruzione di una linea di classe per i comunisti e per tutta la sinistra di alternativa, necessariamente non può che passare per un ruolo di collegamento sul terreno di resistenza all’imposizione delle linee guida del capitale finanziario e agli interventi neo-imperialisti nello scacchiere internazionale.
Il ruolo del nostro paese e delle maggiori potenze europee nei conflitti alle porte del Mediterraneo (vedi venti di guerra in Libia e Siria) e ai confini orientali (vedi annessione alla UE dell’Ucraina con l’imposizione di un governo filo-nazista e con le ingerenze della NATO che alimentano il conflitto contro la popolazione russa e la Russia stessa) ci impongono di considerare la guerra come possibilità concreta di sbocco della crisi economica e della competizione globale.
Compito dei comunisti è delle comuniste è in primis quello di contrastare il ruolo imperialista o filo-imperialista delle classi dominanti in casa propria e non solo quello altrui. Infatti, se le maggiori potenze capitaliste scontrano i propri interessi e competono in concorrenza per il controllo dei mercati e della manodopera a livello internazionale, ritrovano poi una certa sintonia quando si tratta di colpire le classi subalterne all’interno dei propri paesi e quando si tratta di colpire le resistenze dei popoli e paesi in lotta contro la loro arroganza e le loro ingerenze.
Questo vuol dire, nel nostro specifico, che il terreno di confronto internaionale per i comunisti è quello di come creare un movimento di massa che metta in discussione il ruolo economico-militare e l’assetto monetarista delle politiche italiane ed Europee. Vanno messi apertamente in discussione i vincoli imposti dalla UE e dalla BCE (Fiscal Compact, Trattati di Maastricht e di Lisbona), le riforme strutturali imposte dal FMI e va rilancioato un movimento per la pace e contro la guerra, per l’uscita dalle alleanze militari imperialiste (ritiro delle truppe, fuori dalla Nato e fuori le basi ecc…) legando queste rivendicazioni agli effetti sociali della crisi e ai costi che devono pagare le classi subalterne.
Difficile pensare a una semplice “democratizzazione” per via parlamentare di istituzioni quali l’Unione Europea che dimostra ormai la sua natura di mera integrazione monetaria tra le potenze capitaliste dell’area, funzionale solo agli interessi dei maggiori gruppi monopolisti. Un’idea di Europa dei padroni e delle banche (che tra l’altro non coincide nemmeno con l’Europa geografica), basata sul potere reale di organismi antidemocratici non eletti necessari per tentare di limitare la concorrenza interna (a favore dei paesi più forti, come la Germania) ed essere competitivi nei confronti delle altre potenze mondiali. Sostanzialmente un’alleanza traballante tra imperialismi e sub-imperialismi per i quali una vera fusione sovra-statuale risulta oggi “impossibile”, perché non possono unirsi del tutto politicamente, per lo meno senza l’imposizione di un dominio incontrastato delle potenze più forti, ma anche “reazionaria”, perché le uniche due cose su cui riescono a trovare sintonia è nell’attacco alle masse salariate al proprio interno e nel sostegno alle politiche di ingerenza e guerrafondaie verso l’esterno.
Quindi parlare seriamente di Europa dei popoli e dei lavoratori significa prospettare nuove relazioni internazionali solidali e integrate con altre aree geopolitiche e rompere il tabù della messa in discussione dei vincoli e dei Trattati della UE (visto che “democratizzarli” è impossibile) e dell’euro stessa. Ovviamente il dibattito “euro-sì/euro-no” rischia di essere fuorviante se non si comprende che le classi dominanti finchè sono al potere faranno sempre pagare i costi delle loro crisi alle classi subalterne, in qualsiasi condizione statuale e monetaria si trovassero.
Serve da subito un programma di lotta per la difesa dei salari e delle pensioni attraverso la reintroduzione di un sistema di indicizzazione delle retribuzioni che neutralizzi gli effetti della svalutazione; la nazionalizzazione delle banche e dei principali settori industriali strategici; la riduzione generalizzata degli orari di lavoro senza la quale è velleitario pensare che si possa venire a capo della disoccupazione; l’introduzione di una tassa strutturale sui grandi patrimoni dentro un sistema fiscale che restituisca progressività all’imposizione tributaria; l’assunzione di misure cogenti contro le delocalizzazioni di impresa e la reintegrazione dei diritti del lavoro espropriati dalla crociata antioperaia oggi in corso; la ridefinizione delle regole della finanza e degli scambi commerciali a protezione del lavoro.
Tutte queste misure implicano certo rapporti di forza che oggi sono molto lontani dalla realtà. Ma questa è una proposta che parla chiaro all’esercito dei proletari e alle forze intellettuali sane di questo paese e indica una strada che nessuna destra e nessun riformismo possono fare propria o soltanto immaginare. E’ una proposta che può avere in sé la forza di rilanciare le lotte e dare il senso di una mobilitazione nazionale, ma non nazionalista, solidale, ma non corporativa, europeista, ma non prigioniera dei dogmi del monetarismo liberista.
Il problema è ribaltare i rapporti di forza e costruire un’alternativa visto che non è possibile sperare nella semplice democratizzazione dell’Unione Europea (tema che può essere anche “agitato” in qualche occasione, ma che sappiamo illusorio e pericoloso). Il Parlamento europeo (all’interno del quale bisogna essere e in cui va sempre condotta una battaglia di denuncia politica delle politiche capitalise), infatti, è uno strumento di facciata non decisionale ed il potere reale è nelle mani di organismi non eletti come le Commissioni e la BCE. Ancor di più vale questo discorso nei confronti delle alleanze militari imperialiste come la NATO o la UEO e la PESD.

Aggiungere punto C.3): La contraddizione Capitale-Lavoro oggi. Relazioni coi movimenti e sindacalismo di classe.

Nel contesto sopra descritto le mobilitazioni contro il governo Renzi della seconda metà del 2014, hanno visto crescere la conflittualità sociale nel paese, attraverso un rinnovato protagonismo di lavoratori e precari, sempre più vessati dagli effetti della crisi e dalle politiche neoliberiste, che erodono salari e diritti.
Il leit motiv su cui sembra intenzionato a muoversi Confindustria, sostenuta a livello legislativo dal governo Renzi, è quello del ricatto basato sulla disoccupazione di massa, soprattutto a livello giovanile, per isitituzionalizzare lavoro schiavistico e sottopagato. E’ in questa ottica che il modello Farinetti di Eataly e quello dell’Expo hanno imposto nell’agenda parlamentare il lavoro “volontario” (leggi gratuito) e la precarietà permanente del DL Poletti o della Youth Garantee.
Il Jobs act, il decreto “Sblocca Italia” e “La buona scuola” rappresentano quindi tre dei pilastri con cui il governo Renzi e le classi dominanti intendono smantellare definitivamente le tutele dei lavoratori ed ogni residuo dell’impianto costituzionale su cui poggia ancora il nostro paese, precarizzando completamente i rapporti di lavoro, introducendo queste nuove forme di sfruttamento e di ricattabilità dei lavoratori, privatizzando e svendendo ai mercati ed agli interessi finanziari istruzione, sanità, servizi pubblici locali. Una gigantesca opera di schiacciamento del salario sociale complessivo a disposizione dei lavoratori salariati.
I comunisti pertanto devono sostenere le mobilitazioni attuali, non soltanto in un’ottica solidaristica, ma con una proposta strategica che ruoti attorno all’idea, dopo decenni di aumento della produttività a tutto vantaggio del capitale, di una riduzione generalizzata dell’orario lavorativo a parità di salario (e di condizioni) e della ripubblicizzazione dei settori strategici, a partire da quelli in crisi o che delocalizzano (vedi acciaierie di Terni, trasporto pubblico con l’Irisbus, ecc...). Bisogna cercare di connettere queste battaglie al tema del controllo pubblico sull’economia e sulle risorse. Questione riproposta con differenti formulazioni dal dibattito sui “Beni Comuni” che si è acceso con la vittoria al Referendum per l’Acqua Pubblica e con la resistenza del movimento NO TAV, con la richiesta sempre più diffusa di una partecipazione attiva dei “cittadini” nelle decisioni strategiche. Per non essere alla coda dell’inevitabile carattere interclassista di alcuni di questi temi, occorrerebbe declinare questa richiesta di “partecipazione attiva” in un movimento per il controllo pubblico e collettivo (ossia, “popolare”) sul quanto e come spendere il denaro pubblico, come e a quale scopo utilizzare le risorse pubbliche, come e per cosa produrre.
L’attacco che il governo Renzi sta conducendo contro il mondo del lavoro, infatti, non può essere affrontato all’interno degli steccati delle singole vertenze ma, è necessaria quella ricomposizione di classe che permetta di superare la frammentazione e l’atomizzazione dei lavoratori, di cui il capitale si serve per renderli più deboli e ricattabili. Questo può essere fatto quindi cercando il difficile connubio tra dimensione di massa e prospettiva politica delle lotte.
Da questo punto di vista, rilanciare il tema di una reale rappresentanza dei lavoratori e della democrazia nei luoghi di lavoro è fondamentale. Da qui, infatti, è possibile cominciare a ritrovare un senso di solidarietà tra i lavoratori, che con coscienza superi gli argomenti corporativi del padronato, che da un lato generano egoismi tra lavorativi e dall’altro intendono legare lavoratori e padroni in un impossibile patto tra produttori.
All’interno di questo quadro, emerge con forza la necessità che i comunisti svolgano, all’interno del sindacato un ruolo di avanguardia, spingendo verso una radicalizzazione ed una generalizzazione del conflitto. Per farlo occorre dare seguito a quanto approvato nell’ultimo congresso del PRC, lavorando per far funzionare le cellule comuniste già presenti nei luoghi di lavoro e per crearne di nuove e rilanciando luoghi di confronto politico tra tutte le compagne ed i compagni attivi nei luoghi di lavoro come la “conferenza dei lavoratori comunisti”. Al tempo stesso, però, è evidente che le stesse cellule comuniste non potrebbero avere un ruolo di avanguardia senza una chiara linea e un indirizzo sindacale del partito e senza una coerente proposta di fase.
La mobilitazione dei movimenti per lo sciopero sociale, col dialogo sia con gli scioperi dei sindacati di base che con la vertenza della FIOM, lo sciopero generale di dicembre che ha mostrato come la CGIL abbia ancora una forte capacità di mobilitare i lavoratori, rappresentano dei segnali di notevole importanza.
Di fronte a questi segnali il PRC ed i comunisti tutti non possono semplicemente seguire gli eventi, accontentandosi di una presenza puramente testimoniale nelle vertenze, rincorrendo, di volta in volta, le emergenze. Occorre mobilitare tutti i nostri quadri operai e sindacali, le RSU, i circoli e le cellule sui luoghi di lavoro, i compagni impegnati nelle vertenze, affinché facciano da pungolo alle rispettive strutture sindacali nella direzione di imprimere alla piattaforma dello sciopero generale della Cgil elementi di conflitto rispetto alle politiche del governo ed allo stesso esecutivo. Fare in modo che la piattaforma dello sciopero generale vada oltre le modeste proposte avanzate dalla Cgil con la manifestazione del 25 ottobre è nostro compito. Un’unità delle lotte contrapposta all’unità delle burocrazie che sappia produrre coordinamenti di RSU-RSA e rappresentanze precarie, comitati di lotta unitari e campagne di resistenza sui luoghi di lavoro trasversali alle sigle sindacali conflittuali. Una piattaforma di lotta contro le politiche padronali che ricomponga le aspirazioni e gli interessi immediati di tutto il lavoro flessibile e la generazione precaria, i moderni settori salariati altrimenti frammentate e deboli di fronte all’aggressività padronale.
D’altra parte per essere realmente “anticapitalista”, oltre che “antiliberista”, una coalizione della sinistra di alternativa deve definirsi strettamente, pur con una necessaria duttilità tattica, attorno alla centralità di un punto di vista di classe (su lavoro, salario, diritti e welfare) “indisponibile” alle compatibilità capitalistiche tanto politiche che sindacali (quindi fissando punti discriminanti e non trattabili con qualsiasi ipotesi di governo e in qualsiasi accordo con Confindustria). Una battaglia che sul piano sindacale si snoda contro ogni patto sociale neo-corporativo tra vertici dei sindacati confederali e padronato (come gli accordi del 28 giugno 2011 e o il Testo Unico sulla Rappresentanza) e che faccia il paio con quella sul terreno politico e istituzionale contro il presidenzialismo e la blindatura della democrazia da parte dei governi filo-BCE.

Nella parte generale, al capitolo B.2 “il cambio di passo”, emendare il titolo, togliendo le parole “...il risultato della nostra linea politica e...” e sostituire i commi 4 e 5, da “In questo senso...” a “...partiti comunisti della nostra epoca.” con:

“In questo senso, anche in Italia come in Grecia si può aprire uno spazio per la costruzione di un ampio schieramento sociale e politico anticapitalista e antiliberista che rompa con le politiche di austerity e coi governi che le sostengono, in connessione con le posizioni del GUE-NGL e della SE nel Parlamento Europeo, favorendo la più ampia partecipazione dal basso ma valorizzando e non mettendo cancellando il ruolo dei soggetti organizzati esistenti. Si può così proseguire l’impegno del PRC nel promuovere un processo di aggregazione, democratico e partecipato, della sinistra di alternativa e delle forze antiliberiste del nostro paese come descritto nel dispositivo finale dell’ultimo Congresso, un processo reale da costruire e radicare nei conflitti sociali sulla base di piattaforme e programmi comuni e che si connoti per una chiara alternatività al PD fuori dall’orizzonte del centrosinistra a tutti i livelli, nazionali e locali, in cui questo si connota come puntello delle politiche di austerity e dei Patti di Stabilità che fanno da corollario alle attuali controriforme del mondo del lavoro, cancellazione del welfare e manomissione della democraia a variabile funzionale agli interessi del capitale finanziario nostrano ed europeo.
Non la forma organizzativa scelta, ma la rottura della subalternità con le politiche di UE-BCE-FMI e coi partiti di governo del PSE (oggi alleato quasi ovunque col PPE in nome della Troika) è il vero tratto comune che in Europa hanno le sinistre nel GUE come Izquierda Unida, PCP, Syriza, Front de Gauche, Die Linke, ma anche le esperienze in America Latina di molti partiti comunisti e forze anticapitaliste che si sono collocate dentro alleanze o fronti più ampi, non solo di carattere elettorale.
In Italia il nostro contributo può essere determinante per riaggregare una coalizione della sinistra ed un blocco sociale di alternativa alla gestione capitalistica della crisi, anche se siamo consapevoli che questo processo è ancora fragile e contraddittorio, deve ancora chiarire definitivamente l’abbandono dalle “terre di mezzo” rispetto al rapporto col centrosinistra e rispetto all’illusione di democratizzare le istituzioni del capitale finanziario europeo, è troppo indeterminato nell’individuare i settori sociali di riferimento ed è ancora alla ricerca di una sua forma politica stabile, come testimoniato dalla stessa Assemblea di Bologna dell'Altra Europa dello scorso gennaio. E’ importante quindi lasciare aperta la partita dell'aggregazione a sinistra, rafforzandola nella costruzione dell’opposizione al governo Renzi e alle politiche della UE e della BCE, evitando strette organizzative altamente problematiche e premature: essere protagonisti della situazione in evoluzione nelle relazioni a sinistra nel loro complesso, preparandosi dunque ad interlocuzioni più organiche, in un polo unitario, con tutti coloro che non intendono aggregarsi al carro del Partito Democratico e gettando basi programmatiche solide in vista di un possibile coalizione della sinistra alternativa alle prossime elezioni politiche.
Per essere all’altezza di questa sfida per l’unità della sinistra alternativa, bisogna infatti definire
quale aggregazione è utile e per fare cosa, sena ondeggiare da una posizione all’altra. Occorre imparare dagli errori degli ultimi anni: l’unica garanzia che non si ripetano esperienze fallimentari, progetti subalterni e scorciatoie politiciste o elettoralistiche è che, oltre al nuovo contesto sopra descritto, il nostro partito abbia ben chiari i suoi compiti: costruire una forte coalizione della sinistra di alternativa e rafforzare Rifondazione in quanto partito comunista. Una polo unitario ma esplicitamente alternativo e opposto alle politiche del PD e del governo Renzi nel quale i comunisti organizzati possono e devono trovare il loro naturale spazio politico, mantenendo la loro autonomia di analisi e di elaborazione politica ispirate ai principi del marxismo.
Contestualmente a ciò, è fondamentale dedicare tutti gli sforzi al consolidamento del Partito e dei circoli, difendendo la loro autonomia, provando altresì a rilanciare una ricomposizione delle comuniste e dei comunisti, che veda la stessa Rifondazione Comunista quale forza trainante di questo processo, così da metterci in grado di far valere il nostro punto di vista nel più largo ambito delle sinistre di alternativa.
In tal senso diventa fondamentale ricominciare a lavorare su temi nazionali quali Lavoro, Democrazia e Beni Comuni che siano l'asse portante dell'identità politica del partito e siano ben presenti al centro delle piattaforme di sinistra. Tali temi devono essere affrontati concretamente sui territori e nei luoghi di lavoro, individuando le battaglie prioritarie e tutte le alleanze utili a sostenerle. Non pensiamo che tutto questo lavoro politico possa essere delegato alla costruzione di una soggettività indistinta, non crediamo alla distinzione fittizia, e antipolitica, tra Partiti “vecchi” e una presunta “società civile” nuova. Tutto quello che lotta e si organizza è di per sé “società politica” e all’interno di questo ampio movimento noi dobbiamo essere visibilmente i primi promotori di un modello di società più equo e più giusto, alternativo a quella attuale. Perchè l’unica uscita a sinistra dalla crisi del capitalismo, è l’uscita dal capitalismo stesso. Verso il socialismo nel XX° secolo.
Per rafforzare una sinistra non subalterna che prefiguri un’alternativa al duopolio dei partiti del PSE e del PPE, c’è bisogno in Italia di una forte visibilità del PRC nella società attraverso il proprio programma e le proprie strutture di base. Unità della sinistra alternativa e autonomia del PRC non sono in contraddizione, sono i compiti dei partiti comunisti della nostra epoca.”


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