Partito
della Rifondazione Comunista
X Congresso
EMENDAMENTI NOBILE-MORO (I, II, III)
I. I comunisti tra passato e presente [sostitutivo del cap. 1]
L’obiettivo di questo congresso del Partito della Rifondazione
comunista è la definizione di una prospettiva socialista valida per il
XXI secolo. A questo scopo è necessario definire un progetto adeguato
alla fase in corso, che richiede una analisi della nuova fase storica
del capitalismo e un chiarimento sul passato del movimento comunista
italiano e internazionale. Il movimento comunista nasce dalla rottura
con la socialdemocrazia sulla guerra e sull’imperialismo e si consolida
con la Rivoluzione d’Ottobre. La Rivoluzione d’Ottobre, di cui
quest’anno ricorre il centenario, rappresenta il primo tentativo di
successo, nella storia umana, di rovesciare la classe dominante per
fondare il potere politico sulle classi subalterne. L’Urss rappresenta
il vero primo stato operaio della Storia, se si eccettua la Comune di
Parigi, esperienza durata qualche mese e limitata alla sola capitale
francese. L’esistenza dell’Urss è stata decisiva per la vittoria contro
il nazifascismo, per la decolonizzazione, per la realizzazione di
rapporti di forza favorevoli alla classe operaia e salariata nell’Europa
occidentale, che hanno contribuito alla realizzazione del welfare state.
L’Urss, soprattutto, ha frenato l’imperialismo ed è stato fattore di
mantenimento della pace per quasi mezzo secolo. Viceversa, il crollo
dell’Urss ha contribuito al drastico peggioramento dei rapporti di forza
tra classe lavoratrice e capitale in Europa occidentale, portando al
peggioramento delle condizioni dei lavoratori, e tra imperialismo e
Paesi periferici, portando a un aumento delle guerre e a una
destabilizzazione internazionale sempre più grave.
Certamente la
storia dell’Urss e dei suoi gruppi dirigenti è stata caratterizzata da
gravi errori soggettivi che, insieme alla incessante lotta condotta dal
capitale contro di essa, ne hanno determinato il crollo. L’esperienza
sovietica va letta oggettivamente, anche nei momenti più dolorosi, come
fenomeno storico-sociale, secondo il metodo della scienza sociale
marxista. L’Urss ha rappresentato un gigantesco esperimento di
costruzione concreta di rapporti di produzione socialisti. Tale
esperimento è avvenuto in un contesto di relativa arretratezza dei
rapporti di produzione capitalistici, di isolamento economico e di
continua aggressione politico-militare internazionale e, da ultimo ma
non per importanza, in assenza sia di riferimenti storici precedenti sia
di una teoria matura del socialismo. Sono anche queste le ragioni per
cui l’Urss non è riuscita a superare lo stato emergenziale in cui nasce.
Il rapporto tra classe, partito e stato ne risulta influenzato
negativamente, indebolendo la partecipazione delle masse e, di
conseguenza, anche l’esecuzione del piano economico, troppo condizionato
da alcuni settori industriali. Non c’è, però, dubbio che i rapporti di
produzione vigenti in Urss, per quanto rimasti a un livello immaturo,
siano stati di tipo socialista. Il loro mancato sviluppo e l’espansione
globale dei rapporti di produzione capitalistici sono la base materiale
e oggettiva su cui matura il crollo, innescato da fattori più immediati
e soggettivi.
Oggi, noi siamo nella condizione, proprio grazie
all’analisi dell’economia e dello Stato nell’Urss, di definire una
adeguata e migliore proposta socialista per il futuro. A questo
proposito, proponiamo di organizzare, in occasione del centenario, un
percorso di iniziative di studio e di dibattito sulla Rivoluzione
d’Ottobre e sull’Urss. Bisogna superare vecchie divisioni che
rappresentano il passato e che ci precludono la piena comprensione dei
veri punti critici della storia sovietica. Abbiamo bisogno di un nuovo
approccio al socialismo, che, però, non si basi sulla negazione o sulla
rimozione, che getta via anche il bambino insieme all’acqua sporca,
bensì sull’elaborazione critica di quello che è, comunque, il nostro
passato.
Firmatari:
Domenico Moro
Fabio Nobile
Fulvio
Scalia
Mauro Azzolini
II. Insufficienza della sola redistribuzione e nuovo intervento
pubblico [sostitutivo del cap. 2]
Una proposta di socialismo deve essere adeguata alla realtà.
Pertanto, si deve basare, oltre che sull’elaborazione critica del
passato, sulla comprensione di che cosa oggi è il capitalismo, passato,
a cavallo degli anni ’90, dalla forma monopolistica di stato a quella di
capitalismo globalizzato. Nella presente fase storica di accumulazione
capitalistica la questione non è soltanto quella della redistribuzione
equa della ricchezza prodotta, classico tema della politica
socialdemocratica, e della redistribuzione del lavoro (riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario), storico cavallo di battaglia
del movimento operaio. Questi due temi, così come il tema della
inclusione dei migranti nella società europea, non possono prescindere
dall’affrontare il tema della produzione della ricchezza e quindi dei
rapporti di produzione e del rapporto sta Stato e economia, che
diventano la priorità per i comunisti e il tema centrale di lotta
politica.
La crisi attuale è di natura e profondità diversa da quelle
che si sono verificate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale,
determinando una crisi della globalizzazione stessa. Si tratta di una
crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di
un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di
produzione) senza precedenti, e irrisolvibile nell’ambito dell’attuale
quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce
distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative. Brevemente,
ciò che caratterizza oggi il modo di produzione capitalistico, nei suoi
punti centrali, è la separazione tra accumulazione (produzione di
profitto) e crescita economica. In sostanza la crescita economica, e in
particolare del Pil, non è più condizione necessaria alla tenuta del
saggio e della massa dei profitti. I profitti sono realizzati mediante
esportazioni di capitale all’estero e mediante la riduzione, a livello
globale, dei costi sia di quelli relativi al personale sia di quelli
relativi agli investimenti fissi, che, pregiudicando l’innovazione,
hanno e avranno sempre di più un impatto negativo sullo sviluppo futuro
del nostro Paese. Il crollo degli investimenti fissi è stato senza
precedenti in Europa e la performance dell’Italia, peggiore anche
rispetto al resto d’Europa, è ricollegabile alla ancora maggiore
contrazione degli investimenti.
Il modo di produzione capitalistico,
a differenza di quanto accadde in Europa occidentale e in Giappone dopo
la Seconda guerra mondiale, non è più fattore di sviluppo, per quanto
ineguale e squilibrato, delle forze produttive sociali e
dell’occupazione. Oggi, il capitalismo, nella maggior parte dei Paesi
cosiddetti a “capitalismo avanzato”, è fattore di distruzione delle
forze produttive. Nei Paesi dell’Europa occidentale si assiste alla
deindustrializzazione e alla delocalizzazione in Paesi periferici delle
attività produttive, il nostro Paese, in particolare, ha perso tra il 20
e il 25% della capacità produttiva manifatturiera. La contrazione della
base produttiva ha determinato la contrazione drastica del Pil che, dopo
nove anni, non ha raggiunto ancora i livelli precedenti allo scoppio
della crisi. La contrazione del Pil ha, a sua volta, condotto alla
riduzione della base imponibile e all’aumento del debito, che è
calcolato in percentuale sul Pil, e soprattutto ha determinato la
contrazione assoluta dell’occupazione. Oggi, in quasi tutta L’Europa non
si riesce a produrre posti di lavoro sufficienti a rispondere alla
domanda occupazionale dei giovani e, aspetto decisivo, per la prima
volta da molto tempo si è ridotto il numero degli occupati assoluti
(15-64 anni), scesi tra 2008 e 2015 di 726mila unità in Italia e di
quasi 4 milioni nella Ue. Quindi, il problema principale che ci si pone,
come comunisti, è la lotta contro la disoccupazione di massa e i suoi
naturali compagni, la sottoccupazione, il precariato e i salari di
sussistenza o persino al di sotto della sussistenza.
A questo scopo,
non basta la redistribuzione della ricchezza, come poteva essere nel
periodo d’oro della crescita capitalistica, i “trenta gloriosi”. Né
possiamo cavarcela semplicemente dicendo che “i soldi ci sono”, perché
la semplice redistribuzione, in una situazione di contrazione delle basi
produttive, non solo non basta, ma non coglie la radice del problema che
sta nella crisi dei rapporti di produzione su cui si basa il capitale.
Tanto meno, come fanno altri, si può ricondurre tutto alla corruzione e
ai costi e all’inefficienza della politica. Né si può risolvere il
problema della mancanza di reddito con formule come il salario di
cittadinanza, che, in questa situazione, rappresenterebbe la
redistribuzione della povertà tra gli occupati e i disoccupati e un
fattore di passivizzazione piuttosto che di partecipazione al lavoro e
alla vita e al conflitto sociale.
L’obiettivo decisivo è, invece, la
costruzione di nuovi posti di lavoro, soprattutto di buoni posti di
lavoro, a tempo pieno e in settori non “poveri” sul piano del valore
aggiunto prodotto e del contenuto tecnologico, cioè nell’industria e nel
terziario avanzato. Ma, per farlo, vanno ricostruite le basi della
produzione e della crescita. Il che richiede, a sua volta, la ripresa
degli investimenti fissi. La crescita del Pil e gli investimenti non
deve, però, essere confusa con la riedizione del vecchio produttivismo,
basato sulla crescita indiscriminata, del resto impraticabile in una
fase di decrescita imposta dal capitale. La crescita che ci interessa
una crescita che incrementi l’utilità sociale della produzione e
minimizzi sprechi e rifiuti, riciclando materiali e risparmiando
energia, terra e risorse minerarie. La crescita del Pil non
necessariamente deve derivare dalla crescita della quantità di merci
prodotte e dall’aumento di consumi privati superflui, bensì dalla
crescita dei consumi collettivi e dalla ripresa dello sviluppo della
forza produttiva sociale del lavoro, che permetta, fra l’altro, la
riduzione dell’orario di lavoro.
Del resto, la crescita del Pil può
derivare proprio dal lavoro di messa in sicurezza del territorio da
frane e inondazioni e dal riadeguamento del vecchio patrimonio abitativo
a criteri antisismici e da un nuovo programma di edilizia popolare.
Inoltre, la crescita può derivare non solo dall’incremento delle
infrastrutture stradali, ferroviarie e aeroportuali, ormai inadeguate e
spesso in stato di abbandono, ma soprattutto dalla loro manutenzione,
riparazione, ammodernamento e riadeguamento alle nuove necessità.
Infine, la crescita non può prescindere dallo sviluppo della
manifattura, fondamentale per la bilancia dei pagamenti e spina dorsale
di qualsiasi economia. Sviluppo della manifattura vuol dire sia
ammodernamento tecnologico, anche dal punto di vista della sicurezza del
lavoro, della prevenzione dell’inquinamento e della gestione dei
rifiuti, dei settori maturi (siderurgia, mezzi di trasporto,
agroalimentare, ecc.) che mantengono una loro importanza strategica per
il Paese, sia sviluppo dei nuovi settori ad alta tecnologia e ad alto
valore aggiunto in cui la presenza dell’Italia va rafforzata
(biotecnologie e farmaceutica, nuovi materiali, aeronautica e droni
civili, energie alternative, ecc.).
La crescita della produzione
richiede, però, un livello tale di investimenti che il privato non è
intenzionato a fare perché la caduta del saggio di profitto e i processi
di internazionalizzazione lo spingono alla razionalizzazione della base
produttiva in Italia e a dirigere gli investimenti all’estero o in
attività di carattere monopolistico, come le utilities. Solo lo Stato
può fare gli investimenti che sono necessari alla ripresa economica e
dell’occupazione. Quindi, c’è bisogno del ritorno dello Stato
nell’economia, non solo nelle necessarie vesti di regolatore,
controllore e prestatore di ultima istanza, ma soprattutto come soggetto
attivo, cioè nella veste di stato imprenditore. Tale aspetto contempla
anche le ripubblicizzazioni di imprese e banche e le reinternalizzazioni
di servizi pubblici locali a fronte del completo fallimento del mercato
come dimostra la vicenda della siderurgia nella manifattura.
Tutto
ciò comporta la definizione di una politica economico-industriale che, a
differenza del classico riformismo socialdemocratico, assuma un
carattere radicale e di rottura con gli equilibri economici e politici
del capitalismo globalizzato. Ciò, in primo luogo, perché, oggi tale
riformismo entra automaticamente in rotta di collisione con i meccanismi
dell’accumulazione del capitale globalizzato, implicando l’inversione
della tendenza neoliberista in atto negli ultimi trent’anni. E, in
secondo luogo, a differenza dell’intervento statale odierno (funzionale
al rialzo del saggio di profitto e indirizzato soltanto alla
socializzazione delle perdite), contiene in sé i germi, la
prefigurazione della trasformazione dei rapporti di produzione in senso
socialista.
Da quanto abbiamo detto si impone, quindi, la messa al
centro del programma dei comunisti della progressiva eliminazione del
mercato autoregolato mediante l’introduzione di elementi di
pianificazione della produzione e di controllo sui capitali, e
l’allargamento del perimetro della produzione pubblica di beni e
servizi. A questo scopo va ripresa l’esperienza di intervento statale
post-bellica, soprattutto quella avvenuta negli anni ’60 e ’70, basata
sulla Programmazione economica e le Partecipazioni statali, in cui gli
investimenti pubblici non erano subordinati alla sola efficienza
economica ma erano diretti a scopi di sviluppo generale del Paese e di
convergenza tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Tale ripresa va,
però, svolta in modo critico, individuando i forti limiti che impedirono
la realizzazione di una effettiva programmazione, sostituendola con la
contrattazione degli investimenti tra lobby politiche nazionali e
locali, da una parte, e il management di singole imprese statali,
dall’altra. La perdita da parte dello Stato proprietario del
coordinamento e del controllo sulle attività delle imprese e delle
banche di cui era azionista, e l’esclusione del Parlamento dalla
supervisione delle attività economiche pubbliche finirono per condurre
alla crisi del sistema delle Partecipazioni statali, che, pur potendo
essere risolta e malgrado i successi economici di molte imprese statali,
fu utilizzato per smantellare il settore pubblico e svenderlo al
capitale privato e per trasformarne le imprese ancora a controllo
pubblico in imprese orientate a criteri pienamente privatistici.
L’attività di investimento pubblico e il rinnovato intervento dello
stato imprenditore vanno rivolti con particolare attenzione al
Mezzogiorno, che negli ultimi anni ha pagato in modo particolarmente
pesante le scelte di delocalizzazione delle multinazionali italiane, e
il cui divario con il Nord del Paese è ritornato ai massimi storici dopo
essere calato ai minimi proprio nel momento in cui l’intervento pubblico
è stato massimo nel corso degli anni ’70. Sono proprio la creazione di
lavoro e lo sviluppo di imprese pubbliche, al posto
dell’assistenzialismo e della distribuzione, a consentire di combattere
efficacemente la borghesia mafiosa.
Inoltre, va aggiunto che la
contrazione della base produttiva domestica e la crisi della
globalizzazione accentuano, conseguentemente alle tendenze economiche
espansive, la tendenza imperialista e alla guerra dei Paesi europei.
Quindi, anche la lotta contro l’imperialismo e la tendenza alla guerra
risulta tanto più efficace quanto più è condotta sul piano materiale,
cioè contrastando la tendenza alla contrazione della base produttiva
domestica e la tendenza al crollo della domanda interna mediante un
rinnovato intervento statale e lo scardinamento dell’austerity imposta
dall’Europa.
Infine, va tenuto in conto che la proposta di un
rinnovato intervento dello Stato pone anche la questione della natura
non neutrale dello Stato, della sua forma e del rapporto che i comunisti
devono avere con esso. Infatti, lo Stato non può più essere inteso come
la stanza dei bottoni in cui entrare e da cui poi magicamente modificare
la realtà. Lo Stato è una macchina burocratica organizzata per la difesa
dei rapporti di produzione capitalistici, che, nel migliore dei casi,
può realizzare una mediazione momentanea favorevole alle forze
antagoniste al capitale. Dunque, non è possibile mettere in discussione
i rapporti di produzione e introdurre programmazione economica e
elementi di pianificazione senza porsi nella prospettiva di condizionare
prima, e poi in prospettiva, trasformare internamente lo Stato stesso,
mediante una pressione dall’esterno, cioè da parte del movimento di
lotta complessivo. Anche le vicende della Grecia di Tsipras ci
dimostrano che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale
a conquistare il potere effettivo.
Firmatari:
Domenico Moro
Fabio Nobile
Fulvio Scalia
Mauro Azzolini
Dino Greco
III. Il partito della rifondazione comunista e la proposta
politica: non formule astratte ma una coalizione di forze sulla base di
contenuti precisi [sostitutivo del cap. 6, con l’eccezione del paragrafo
6.6 sul sindacato su cui convergiamo con Tesi C di Dino Greco su
sindacato]
È necessario provare a costruire una proposta politica coerente con
il quadro economico e sociale e che sia all’altezza della sfida in
Italia ed in Europa. La vittoria del NO al Referendum costituzionale se
rappresenta una battuta d’arresto pesante di Renzi ed il segnale che le
élites fanno fatica ad esercitare con continuità la loro egemonia anche
nel nostro Paese, allo stesso tempo palesa un vuoto di alternativa che
rischia di essere riempita di nuovo dall’establishment.
Il dato del
voto al NO è significativo in questo senso. Una quota rilevante di
coloro che si astengono al voto da anni in occasioni come questa fanno
sentire la loro voce come era già successo con il Referendum in difesa
dell’acqua pubblica. L’80% dei giovani, il Sud, i settori più in
difficoltà nel nostro Paese hanno dato un segnale chiaro. Ma l’assenza
di un progetto politico alternativo credibile rischia di far rifluire
questa spinta con il rischio che venga derubricata ad un episodio come
purtroppo è stato ad oggi per il Referendum sull’acqua pubblica.
Il
Movimento5stelle manifesta con la vicenda di Roma tutta la sua debolezza
ed incertezza nel praticare un progetto oggettivamente fumoso con al
cuore la questione della lotta alla “casta”. Un aspetto questo cruciale
per capire i limiti insuperabili di questo movimento. Tali limiti hanno
fino ad oggi rappresentato la sua forza. Lo hanno messo al centro del
superamento del berlusconismo con una capacità onnivora in grado di
pescare consensi in tutti gli strati sociali e conseguentemente in tutte
le aree politiche. L’indicare “la casta” quale nemico principale da
contrastare ha al fondo il principio che con l’eliminazione del ceto
politico contingente è possibile sic et simpliciter il cambiamento. Un
concetto, questo, molto funzionale alle classi dominanti quale strumento
di superamento delle continue crisi di egemonia a cui sono sottoposte in
questa fase. Questo principio mette in secondo piano i nodi strutturali
dello scontro. E non è un caso che la Giunta romana sia impelagata da
quando si è insediata attorno a questioni “morali”. Al tramonto della
prima repubblica un fenomeno simile fu rappresentato dall’Idv di Di
Pietro. Come si ricorderà in una notte quel partito si è dissolto. Non è
dato conoscere la forza che saprà esprimere il Movimento5stelle nei
prossimi tempi, in particolare alle prossime elezioni politiche, quello
che si può dire per certo è che strategicamente rappresenta un ostacolo
alla ricostruzione di un’opzione politica a sinistra. Il
Movimento5stelle sul terreno della casta riesce ad attrarre, come sua
base di massa, anche settori proletari ma resta ideologicamente
espressione di quella parte di borghesia che non regge la competizione
della parte vincente del Capitale più internazionalizzato. Il nemico
principale per il Movimento5stelle è, come abbiamo detto, la casta. Per
Salvini gli immigrati. Poi ci sono i banchieri, i faccendieri ed altro.
Ma in politica gli accenti sono fondamentali e sono le campagne contro
“i nemici principali” che determinano la forza di massa di questi
movimenti.
In Italia il Partito che si è posto a garanzia della
attuazione delle politiche imposte dalla UE e dell’euro è il PD. Il PD,
prima con Veltroni e Bersani e poi con il “partito della nazione” di
Renzi, ha adeguato sé stesso alle esigenze del capitale transnazionale,
oggi sempre più sganciate dalle esigenze di crescita nazionali. La
sconfitta di Renzi, e l’immediato insediamento di Gentiloni, sostenuto
da tutto il PD, non hanno modificato l’asse strategico su cui oggi si
basa il PD e di cui l’europeismo e l’euro sono i principi-cardine
fondamentali. Il Pd nella fase della lunga campagna referendaria ha
cercato di interpretare, ovviamente per ragioni di consenso, le
contraddizioni e la crisi della globalizzazione accentuando la critica
all’austerità ma nella sostanza continuando ad essere il perno a difesa
della UE e dell’Euro in Italia. Forza Italia prova a dare un senso alla
propria esistenza con la sconfitta di Renzi, ma lo spazio politico di
garante della stabilità è ancora in mano al PD e lo spazio politico a
destra è in mano a Salvini. E’ chiaro che questo è frutto della
polarizzazione sociale a cui corrisponde una radicalizzazione anche a
destra. E questo non è un fenomeno solo italiano. La crisi economica ha
di fatto portato al superamento del bipolarismo nei paesi Europei
principali e alla nascita di terze e quarte forze che esprimono in forme
diverse la scomposizione del blocco sociale su cui si basava la
stabilità politica della fase precedente. Tale crisi del bipolarismo non
ha portato ad un'automatica ripresa delle forze politiche di classe. Una
parte della crisi della sinistra di questo scorcio d'inizio secolo
deriva dalla non sufficiente comprensione prima del processo di
unificazione europea e successivamente della natura dell’euro e della
sua centralità nell’attacco neoliberista. La vicenda greca evidenzia,
infatti, non solo l'irriformabilità dell'Eurozona e l'assoluta
impermeabilità di questa alla sovranità popolare, ma anche i limiti
politici d'impostazione generale della sinistra europea, che non è stata
in grado di reagire alle imposizioni della UE ma soltanto di registrare
quanto accaduto. Dopo la "normalizzazione" della Grecia non è un caso
abbiano ripreso peso le forze populista di destra.
La sinistra che si
colloca al di fuori del PSE, in primo luogo il Partito della Sinistra
Europea, evidentemente non ha una strategia sufficiente che colleghi
l'azione nei singoli stati nazionali sulla base di un piano generale in
particolare in relazione al posizionamento sull'Eurozona. Eppure ora
tale dibattito sta comunque attraversando i comunisti e la stessa
Sinistra in Europa. Le stesse posizioni delle singole forze politiche
che compongono la Sinistra Europea stanno evolvendo o quantomeno
aggiornandosi sulla base di quanto sta avvenendo nel vecchio continente,
basti pensare a tutto il confronto di posizioni che c'è' stato sul
cosiddetto "piano b" che ha coinvolto anche personalità che potremmo
definire della sinistra socialdemocratica. Tale dialettica soggettiva
deve approdare con più forza anche in Italia per ridare vigore ad una
battaglia di cambiamento. Con l’obiettivo di arrivare a stabilire
obiettivi generali comuni a livello continentale, occorrerebbe
costituire una assise ampia della sinistra politica e sociale in Europa.
Uno spazio che comprenda i partiti comunisti, il Partito della Sinistra
Europea, le realtà sociali e rappresentative dei diversi Paesi Europei.
Una specie di Foro de Sau Paulo europeo, ovviamente tenendo ben conto
delle differenti storie e differenze tra la realtà europea e quella
d’oltreoceano.
Dunque, a sinistra esiste un vuoto di strategia e
proposta preoccupante. In Italia il Referendum apre sicuramente degli
spazi, ma senza una chiarezza d’impostazione si possono chiudere
nuovamente con grande rapidità. La battaglia referendaria ha visto al
nostro fianco i padri fondatori del Partito Democratico, paladini del
maggioritario e dell’introduzione del pareggio di bilancio, coloro che,
come Bersani, sono stati i sostenitori principali del governo di Mario
Monti, di fatto all’epoca il commissario della Bce e della Commissione
europea. Costoro non possono essere interlocutori né di Rifondazione
Comunista né di una vera sinistra che intenda ricostruire sé stessa.
Ogni cedimento su questo piano riduce ogni margine di credibilità
odierna e futura, oltre a riproporre scenari politicisti logori e
inservibili. E’ necessario impostare il ragionamento in modo molto
chiaro. In primo luogo, la Costituzione, peraltro depotenziata
dall’art.81 (obbligo di pareggio di bilancio), è, nella sua versione
originale, incompatibile con i trattati e l’intera architettura della
moneta unica. In secondo luogo, la Costituzione e lo stesso meccanismo
di governo parlamentare sono stati bypassati, negli ultimi anni, grazie
all’integrazione economica e valutaria europea. Di conseguenza non
esiste alcuna possibilità di applicare la Costituzione all’interno dei
vincoli imposti e delle dinamiche innescate dall’Euro.
Solo se
portata nella direzione di una lotta contro l’euro la potenzialità
espressa nel referendum può trasformarsi in una battaglia
politico-strategica che ridia forza ad un una idea di cambiamento
complessivo dell’ordine economico, sociale e politico. Ciò che serve,
quindi, a sinistra è una proposta di rottura, senza tentennamenti o
alchimie tatticiste che fino ad oggi hanno portato all’immobilismo e
alla quasi dissoluzione - nella percezione di massa - di un’ipotesi
organicamente e chiaramente alternativa. Il tema è dunque la piattaforma
politica e solo con questa possono definirsi i “confini”, alla nostra
destra e alla nostra sinistra. E’ da una piattaforma politica chiara,
aperta ma determinata che si può riscontrare un percorso efficace. Senza
tale chiarezza è possibile che si costituiscano aggregazioni anche
larghe ma con una caratterizzazione politicista che ne minerebbe in
partenza ogni credibilità. Non è un caso che la stessa Sinistra Europea
e i partiti che la compongono sono attraversati da questo dibattito. Un
dibattito che, laddove non è risolto, costituisce un ostacolo allo
sviluppo dell’iniziativa politica.
Per il Partito della Rifondazione
Comunista sotto il profilo strategico il socialismo deve tornare ad
essere un obiettivo dichiarato e non una suggestione culturale a cui
richiamarsi. Il terreno della rappresentanza, unica bussola che
purtroppo ha orientato la sinistra nelle scelte politiche degli ultimi
venti anni, deve essere concepito come una parte dell’azione politica.
Non può certamente essere il tutto, ma d’altra parte non si può pensare
di delegarlo ad altri sic et simpliciter. In Europa anche le esperienze
più unitarie a sinistra, in cui siano presenti i comunisti, vedono un
perno: il partito comunista. Queste stesse esperienze altresì
dimostrano, nel bene o nel male, che non è di per sé la forma a
determinare la bontà di un progetto, bensì i contenuti della proposta
politica a cui la forma è dialetticamente conseguente. Ciò che deve
essere chiaro è il mantenimento di un ruolo politico complessivo dei
comunisti, perché indispensabile alla costruzione di una strategia di
cambiamento e trasformazione. Il partito comunista, dunque, deve rimane
il soggetto agente e organizzato della politica. Esso non può essere
ridotto a mero strumento della rappresentanza, né tantomeno deve essere
relegato a luogo di mera riflessione ideologica, delegando ad altri
soggetti organizzati il ruolo della politica. Il partito è sintesi di
tutto ciò e in questa direzione va costruito: il partito è quindi
sintesi di tattica e strategia.
In questo senso il Partito della
Rifondazione Comunista pratica contestualmente l’obiettivo di rilanciare
la formazione di un Partito comunista adeguato al XXI secolo e allo
stesso tempo di costruire le condizioni per realizzare una coalizione a
sinistra in grado di sostenere lo scontro politico nel Paese ed essere
riferimento largo dei percorsi di unificazione delle lotte parziali.
Tale coalizione deve tenersi assieme e delimitare il suo perimetro a
partire da proposte chiare e condivise. Non è sufficiente un mero
richiamo “morale” all’unità della sinistra, è necessario un confronto
pubblico sui contenuti e sul posizionamento politico, scegliendo i
vincoli politici e programmatici che tengano assieme la coalizione. Tale
proposta va rivolta ai soggetti politici concretamente esistenti, ai
movimenti, alle realtà sociali e alle personalità che sono a sinistra
del Pd, senza preclusioni settarie, ma a patto che condividano i
contenuti per noi discriminanti e ineludibili.
Tali contenuti sono
sintetizzati nei punti seguenti:
1) L’alternatività al Partito
Democratico e la indisponibilità a qualsiasi forma di alleanza o
desistenza elettorale con questo partito.
2) La rottura dell’unione
monetaria europea, incompatibile con la Costituzione nata dalla
Resistenza, e la ricostituzione e allargamento della sovranità
democratica e popolare, mediante la riconduzione sotto il controllo
degli stati nazionali dei gangli vitali della vita economica dei singoli
paesi.
3) Il superamento delle politiche esclusivamente
redistributive e la costruzione di una critica materiale ai rapporti di
produzione capitalistici, mediante politiche massicce di investimento
statale e l’allargamento del perimetro dell’attività produttiva e
bancaria pubblica (ripubblicizzazioni) allo scopo di creare posti di
lavoro e di introdurre elementi di programmazione economica.
4)
Il rifiuto italiano alla partecipazione alle missioni militari della
NATO, vero braccio armato degli interessi transnazionali euro-atlantici.
L’esistenza stessa della NATO ha perso qualsiasi giustificazione e va
sostituita con alleanze internazionali, adeguate alla nuova fase storica
e funzionali a un ruolo di stabilizzazione e pacificazione
internazionale dell’Italia. Tale approccio è indispensabile per
affrontare in maniera razionale le diverse questioni aperte nello
scenario mondiale. La stessa questione del terrorismo internazionale va,
infatti, inserita nella dinamica complessa dello scontro tra potenze
mondiali e regionali, accanto alla disastrosa politica d’integrazione
dei migranti che i Paesi d’approdo hanno e stanno mettendo in campo.
5) Rispondere alla contraddizione tra flussi migratori e
impoverimento complessivo delle popolazioni residenti mediante la
rottura dei vincoli di bilancio statali che impediscono di costruire
risposte in termini di welfare e soprattutto di creare occasioni di
lavoro per indigeni e migranti.
Tale approccio richiede uno
sforzo di riorganizzazione e di profonde trasformazioni del modo di
essere del Partito. E’ necessario prendere atto dell’indebolimento
numerico e del peso “sociale” del partito. Così come è necessario
prendere atto dell’assenza di un pensiero forte condiviso. A partire da
queste semplici constatazioni il PRC deve impegnarsi a costruire un
percorso di autoformazione ed una politica di reinsediamento sociale e
sindacale, che può avvenire solo se, in quanto Partito, agisce e orienta
con continuità i propri iscritti e militanti. Se si connette la proposta
politica con l’azione concreta. Se la presenza nelle lotte parziali
diviene lievito e concretizzazione della necessità di unificazione
attorno agli obiettivi generali che il partito si dà. Se lo stesso
lavoro di aggregazione che i compagni praticano, ad esempio sul terreno
del mutualismo, rientra all’interno di un progetto generale. Se non si
riesce a fare tutto ciò, il partito rimane una somma e non una sintesi
delle sue articolazioni organizzative, determinando un’assoluta
impercettibilità del senso della sua azione. Solo con la definizione di
un profilo chiaro, di un’organizzazione adeguata alle attuali forze e
costruita attorno alle sue potenzialità, e di una capacità di orientare
ad un unitaria dialettica tra teoria, dibattito politico e prassi è
possibile aprire il partito in maniera efficace a percorsi politici
funzionali a rimettere all’ordine del giorno la questione della
trasformazione politica e sociale in Italia ed Europa.
Firmatari:
Fabio Nobile
Domenico Moro
Fulvio Scalia
Mauro Azzolini