SINTESI CONCLUSIONI FAUSTO BERTINOTTI

Care compagne e cari compagni, abbiamo riscontrato in questa nostra discussione un ampio consenso che, oltre che essere di linea politica, è di umore, di atteggiamento. Il risultato del voto ha avuto un’interpretazione sostanzialmente univoca e questa dà il timbro alla nostra iniziativa politica. Anche chi dissente dalla linea politica generale considera importante il risultato raggiunto. Tutte queste energie vanno utilizzate per un nuovo balzo in avanti, per una impetuosa e progressiva apertura verso la società e i movimenti. Si è verificato un largo consenso sui cinque punti proposti della prossima iniziativa politica del nostro partito.

In particolare sottolineo l’accordo sulla necessità di aprire una costituente programmatica che abbia al centro l’analisi del capitalismo italiano, europeo, mondiale. Da questa analisi possiamo capire meglio chi siamo e dove andiamo. Infatti per noi la definizione di una piattaforma per l’opposizione al governo delle destre non è affatto la conferma che ieri avevamo ragione, ma deriva da una conoscenza della nuova realtà.

Da questo punto di vista la questione salariale è una leva potente per sollevare la questione sociale, così il tema della nuova scala mobile, così quello delle pensioni, del salario sociale per i disoccupati, del salario minimo intercategoriale. Tutte queste questioni ci parlano del mondo del lavoro, delle vecchie e delle nuove figure, della necessità di ricomporre il mondo del lavoro dipendente.

Il terreno dell’opposizione non è di per sé salvifico. Al contrario ci propone una sfida tutta da giocare, quella del rapporto tra rivendicazione e programma generale e proposta di società. Questa sfida avviene in condizioni nuove. Vediamole.

Una costituente delle sinistre

La ricomposizione a unità dello schieramento della borghesia imprenditoriale attorno ad una piattaforma assolutamente e marcatamente liberista, colloca quest’ultima su una posizione addirittura estremistica. Questo pone problemi persino allo schieramento di centrodestra, il quale accarezza l’idea di raggiungere intese compromissorie e consociative che evitino scontri troppo acuti e permettano maggiore stabilità. In questo modo, invece, la Confindustria propone addirittura uno strappo con la tradizionale cultura di governo delle classi dirigenti. Proprio per queste ragioni non possiamo ragionare come se fossimo nel 1994. Allora, ad esempio, la questione della scala mobile era un elemento simbolico forte che oggi non può essere più riproposto automaticamente in una situazione di destrutturazione del mondo del lavoro dipendente. La sinistra plurale dunque, non è la somma delle forze esistenti. Al contrario essa, per costituirsi, richiede un processo contemporaneo di scomposizione e di ricomposizione.

Per questo motivo se dovessi dire, ed è difficile farlo, qual è l’elemento saliente dei cinque che ho proposto nella relazione iniziale come fondamento della nostra iniziativa politica, direi che esso è quello che parla di una costituente dei movimenti. Anche in questo caso non si tratta di una somma, quanto di un processo di allargamento per contaminazione. In sostanza si tratta di dare vita a livello mondiale, europeo e italiano di una nuovo movimento radicalmente riformatore. Si tratta di rafforzare un nuovo movimento operaio, in relazione con i movimenti contestatori dell’assetto capitalistico della società, capace di produrre una nuova idea di governo dell’Italia e dell’Europa, in stretta connessione con l’idea di un superamento del capitalismo. In questo senso non siamo di fronte ad un processo politico di tipo classico.

Un Congresso lungo e aperto

Dobbiamo, perciò, investire in una grande operazione politica e culturale. Questa è l’essenza del Congresso che dovremo fare e, per questo, si tratterà di un congresso vero. Fin qui abbiamo realizzato l’obiettivo della sopravvivenza del partito, ora dobbiamo porci il tema di una tappa nel processo della rifondazione. Per questo abbiamo bisogno di un congresso lungo e aperto, cioè capace di coinvolgere l’intero partito e ciò che sta al di fuori di esso. Un congresso che di fatto si apre nella stagione autunnale per concludersi nella primavera prossima. Dobbiamo promuovere, cioè, una grande assise di discussione teorica, politica, di sperimentazione. Si tratta di un processo impegnativo, al quale chiamiamo anche forze esterne che siano interessate al nostro progetto. Proponiamo ad esse uno spazio di consultazione aperto e costante. Insomma vogliamo promuovere così un congresso di riforma del partito. Per questo serviranno più riunioni del nostro comitato politico nazionale per preparare il congresso. In queste riunione mi auguro che si voglia e si possa superare il rituale delle mozioni contrapposte, per permetterci di navigare in mare aperto, per muoverci più liberamente sul terreno della ricerca e della riforma del nostro modo di essere. Vi sono stati qui molti accenni e significativi sul tema dell’organizzazione. Di questo dovremo parlare a fondo. La storia del movimento operaio del secolo trascorso ha registrato la vittoria del modello tedesco su quello francese, questo derivava dall’esistenza dello stato nazione e dal fatto che quella soluzione per il movimento operaio rappresentava il massimo accumulo possibile di forza. Ma oggi non è più così. Quello che allora era apertura ora è solo chiusura. Non ci basta quindi una semplice opera di manutenzione delle nostre strutture, ci serve uno scatto innovativo, che non sia frenato da ossequi allo stato sacrale dell’organizzazione partito del tutto fuori luogo.

Globalizzazione e movimenti

Ho cominciato questa riunione del Cpn con qualche dubbio e perplessità, come sull’analisi della fase. Debbo invece con soddisfazione registrare un ampio accordo su questo. Sono molti gli interventi che hanno registrato su questo tema, in particolare sul nesso tra globalizzazione e disgelo nei movimenti. Non comprendo quindi un’impostazione analitica che torni al confronto fra il 1996 e il 2001. Il voto del 2001 è naturalmente più a sinistra del precedente. Dopo il ‘96 abbiamo subito una scissione e una vera e propria crisi nelle elezioni europee. Il ’96 era in un altro ciclo politico. Lì valeva ancora l’eredità di una grande storia, quella della sinistra. Per questo poteva essere concepito e possibile il patto di desistenza, proprio perché in fondo si pensava ancora in termini di storia unitaria della sinistra. Oggi siamo di fronte ad un mutamento politico rilevante. La globalizzazione non mostra più un’irresistibile ascesa: rimane una realtà fortissima, ma emergono elementi di profonda instabilità nella situazione politica e sociale, la stessa crisi economica torna ad essere un elemento costante nel suo processo evolutivo, e tutto questo porta ad una acutizzazione delle contraddizioni.

Sull’altro versante assistiamo al disgelo dei movimenti. Non commettiamo alcun peccato di faciloneria o di ottimismo: siamo effettivamente di fronte ad una rottura della tregua sociale, alla costruzione durevole di nuove soggettività sia sul terreno più tradizionale della lotta di classe sia su quello più innovativo, da Seattle in poi. Questo carattere innovativo è paradossalmente più evidente negli Usa che in Europa. Questo deriva dalla crisi del sindacato europeo, interno ad una politica consociativa. Ma questo propone a noi un problema e un grande terreno di iniziativa, a noi e alla sinistra di alternativa: quello di lavorare per unire la vecchia dimensione rinnovata del movimento operaio con le nuove esperienze di lotta. Dobbiamo quindi analizzare il vecchio e il nuovo proletariato e questo è uno dei terreni fondamentali per la sinistra di alternativa.

Dov’é il partito socialdemocratico?

Questo stesso ragionamento ci introduce ad un argomento qui sollevato, quello della socialdemocrazia. Innanzitutto dobbiamo domandarci: cos’è la socialdemocrazia? Comincio con il sostenere che in Italia, nel dopoguerra, non c’è mai stata una socialdemocrazia. Esisteva fino alla scissione di Livorno, poi ci fu il ventennio fascista, successivamente se ne sono perse le tracce. Non si può parlare di socialdemocrazia nel caso di Saragat, non fosse altro perché al suo partito mancava una dimensione di massa. Non lo era il Psi che polemizzava apertamente con Bad Godesberg e con Guy Mollet. Non lo fu il craxismo che si mosse rivisitando Proudhon e non Bernstein. Non fu socialdemocratico certamente il Pci, a meno che non si voglia intendere un’altra questione e cioè che se i riformisti, in Italia, non fecero le riforme e i rivoluzionari non fecero la rivoluzione, certamente l’azione di questi ultimi fu l’elemento determinante delle poche riforme che sono state fatte. Ma neppure la destra comunista, degli Amendola o dei Bufalini, può essere considerata socialdemocratica; la separava da quella prospettiva il legame con l’Unione sovietica e il campo socialista e l’iscrizione della politica moderata che proponevano all’interno di una prospettiva di superamento del capitalismo. Persino Occhetto, quando fece la svolta della Bolognina, escluse l’ipotesi della trasformazione del Pci in un partito socialdemocratico.

In Europa abbiamo certamente conosciuto due grandi esperienze socialdemocratiche, quella del mondo anglosassone e quella dei paesi dell’estremo nord dell’Europa. Le loro idee sono fondate sul riconoscimento dell’esistenza e della positività del conflitto di classe, e quindi su una nuova idea dello stato sociale, diversa da quella bismarkiana, che si poneva contro le società postrivoluzionarie, che ammetteva dunque uno sviluppo del capitalismo nel quale però il peso e il ruolo della classe operaia e delle classi lavoratrici era sensibilmente accresciuto.

Se guardiamo al nuovo Labour di Blair e di Giddens constiamo proprio una rottura radicale con questa tradizione socialdemocratica e un ritorno alla tradizione liberale. Dal canto suo l’ex socialdemocrazia tedesca di Schroeder definisce la sua stessa opzione come neocentrista. Questo corso europeo produce un’ulteriore pressione sull’involuzione dei Ds italiani, che non a caso definiscono se stessi in sede congressuale come sinistra liberale. Anche i fautori della politica più moderata, e quindi inclini alla più blanda socialdemocrazia, come ad esempio Napoleone Colaianni o Emanuele Macaluso riconoscono che siamo di fronte ad una creatura di natura del tutto diversa. Né si può credere che l’esistenza della socialdemocrazia sia di per sé indispensabile allo sviluppo del conflitto di classe. Infatti il sindacato americano degli anni trenta era fortissimo e assai radicale ma il suo referente politico non apparteneva certo alla tradizione socialdemocratica.

In conclusione non dico che non ci possa essere un nuovo futuro per la socialdemocrazia, dico però che essa attualmente non esiste. Credo che la ragione di questo sia di carattere strutturale. Il punto di vista socialdemocratico subisce un doppio piazzamento, quello derivante dal processo di globalizzazione e dal crollo dei paesi dell’est europeo. In questo senso noi ci troviamo in una condizione migliore: il proletariato di cui noi parliamo ci parla di questo tempo, il proletariato di cui parlano i socialdemocratici non dice nulla della condizione attuale. La globalizzazione, infatti, spiazza ogni concezione economicistica e sociologica della figura del proletario, poiché essa mette in primo piano la questione dell’alienazione. Per questa via si riscopre e si ripropone la critica radicale al capitalismo, attuando così quella grande intuizione di Walter Benjamin nel suo giudizio sull’estrema attualità del pensiero marxiano.

In ogni caso noi non possiamo pensare a noi stessi come l’ala estrema di un movimento di sinistra liberale. Sia che lo si concepisca in chiave massimalista o radicale questo ruolo è perdente, anzi non esiste. Comunque la definizione di ognuno non può essere data dagli altri. Chi si definisce socialdemocratico ha il dovere di dimostrarlo.

Un soggetto politico di alternativa

Noi vogliamo costruire uno schieramento di sinistra alternativa nella direzione di una sinistra plurale. A chi vogliamo parlare? A tutte le forze anticapitaliste, anche a quelle per cultura e tradizione non marxiane, anche a quelle che ragionano e operano in un ottica del tutto diversa da quella della priorità del partito. Tutte queste forze possono concorrere con noi per creare una forza politica, un soggetto politico di alternativa. Questo è il motore che può attivare la sinistra plurale. Quest’ultima non è una citazione francese, se non altro perché lì la situazione e la geografia delle forze è molto diversa. Costruire la sinistra plurale da noi vuole dire lavorare per la costruzione di un programma comune con la sinistra anche non anticapitalista per avanzare una nuova proposta di governo della società. Questo richiede una relazione positiva con i movimenti e le proposte che fuoriescono dal liberismo. Questo comporta una interlocuzione con il cattolicesimo sociale, con il pensiero ambientalista, con quello laico-democratico-repubblicano.

Noi ci rivolgiamo a queste forze in forma aperta: nulla è precluso se la barra resta quella della costituente dei movimenti. La ragione di questo è profonda e risiede nella nostra analisi sulla società: appare chiaro che la democrazia non può essere difesa entro i vecchi ambiti, visto che essa è scossa da una crisi dall’alto e dal basso che abbiamo già analizzato. Il problema si risolve quindi con un positivo rapporto tra democrazia diretta e democrazia delegata. In questo senso è preziosa l’esperienza e la riflessione di Porto Alegre. Quella esperienza in realtà ci parla dell’Europa e dell’Italia, di una nuova stagione nella quale la democrazia diretta e i suoi istituti acquistino un ruolo nuovo e più rilevante.