Comitato Politico Nazionale
25 - 26 ottobre 2003

Relazione introduttiva di Fausto Bertinotti

Per una alternativa di governo
per una sinistra di alternativa

Care compagne, cari compagni, il nostro Comitato politico nazionale è chiamato a trarre un primo bilancio provvisorio sulla proposta politica che abbiamo avanzato che è una proposta aperta e in progress. E' una proposta di movimento che vuole muoversi in tutte le sfere dell'agire politico per connetterle tra loro. E' una proposta che contiene un'ambizione di delineare un'idea generale, quella di contribuire alla ricostruzione della società civile. Si tratta di un'impresa che ha il suo epicentro in Italia, ma sarebbe inconcepibile se non la collocassimo dentro i processi che si determinano in Europa e nel mondo. Si tratta di una proposta che abbiamo costruito sulla base della possibilità di un discorso nuovo sulla società italiana. Questa possibilità ci viene offerta dalla rottura della tregua sociale degli anni Ottanta e Novanta determinata dalla crescita dei movimenti e contemporaneamente dalla crisi degli assetti neoliberisti e delle destre. In questo modo abbiamo aperto un dibattito che è diventato esso stesso una modalità funzionale alla medesima proposta. In questo dibattito vi è un ruolo importante del partito, ma il dibattito deve essere aperto, non possiamo separarlo dalla discussione più generale che avviene nel paese e nelle sinistre. Una tappa importante di questa discussione la abbiamo condotta nel corso delle feste di settembre, siano quelle di Liberazione, dell'Unità, dell'Ulivo. La stessa manifestazione nazionale del 28 settembre, che è stata ridimensionata in vista di quelle del 4 ottobre, che si è svolta in condizioni quasi impossibili, ha, malgrado tutto, visto una partecipazione che sottolinea la forte tensione nel nostro partito. Il dibattito aperto in direzione nazionale è poi proseguito in oltre 80 comitati federali e regionali. - La riunione dei segretari di federazione ha visto una grande partecipazione e un grande impegno. A questi appuntamenti per così dire interni, si sono sommati il nostro impegno e la nostra partecipazione alle manifestazioni del 4 ottobre a Roma, alla marcia Perugia-Assisi, allo sciopero generale, che ha avuto un grande successo sia nelle astensioni dal lavoro che nelle presenze alle manifestazioni.

La domanda che sale dal paese

Abbiamo così ottenuto un primo successo politico che deriva da un'intuizione che è stata confermata dalla realtà. Abbiamo cioè raccolto una domanda forte che proveniva da tutti i popoli della sinistra. Questa domanda è basata sulla consapevolezza diffusa, necessitata dalla crisi delle destre, di una cacciata anticipata del governo Berlusconi. Non ci siamo limitati a registrare questa domanda, ma abbiamo cercato di spostare il suo asse, nel senso di una qualificazione sociale della medesima. Abbiamo cercato di connettere, riuscendovi, la questione democratica alla questione sociale, in ciò facilitati da una ripresa dell'iniziativa del sindacato. Nel corso di questa azione, abbiamo anche registrato l'opposizione da parte della minoranza congressuale nel nostro partito, a causa di una diversa opzione strategica. Abbiamo anche registrato delle resistenze e delle critiche interne sia al partito che al movimento. Si tratta di critiche "da sinistra" che vanno prese sul serio, non solo in osservanza dell'antico detto, per cui non dobbiamo avere «nessun nemico a sinistra», ma perché la nostra linea ha possibilità di successo solo se mobilita sia coloro che ne sono convinti e sia coloro che ne sono critici.

La scelta è necessaria

Tra di noi credo che abbiamo un punto comune di analisi. Il clima nel paese è cambiato favorevolmente, ed è difficile non vedere che abbiamo concorso a questo risultato con la nostra azione e con la nostra proposta politica. Ora il Cpn è chiamato a compiere liberamente una scelta. Naturalmente la direzione nazionale si è già espressa e così abbiamo fatto anche pubblicamente. Con la velocità indotta dai tempi della comunicazione politica una direzione politica responsabile è chiamata ad assumere decisioni in «tempo reale». Ma questo non toglie il fatto che il Cpn, se lo ritiene, possa cambiare tutte le decisioni e gli orientamenti. Credo che siamo chiamati ad una scelta fra tre alternative: la prima, buttare a mare la linea adottata e imboccare altre strade; la seconda, assumere il senso generale della scelta compiuta, ma correggerne molti aspetti; la terza, sviluppare la linea che abbiamo adottato, fornendole l'appoggio più convinto, più diffuso, più partecipato. Propongo di scegliere con grande nettezza e determinazione la terza. Naturalmente va osservato il massimo rispetto per ogni dissenso e differenziazione. Ma questo sarebbe appunto tradito, se non operassimo una scelta netta. Dobbiamo aggregare forze dentro e soprattutto fuori di noi e questo si può fare solo con una piena convinzione ed una grande creatività. Insomma vi propongo una scelta di movimento e a tutto campo.

Le ragioni della nostra proposta

Da cosa nasce questa nostra scelta? Per rispondere a questa domanda dobbiamo guardare alla profonda crisi che si manifesta nel processo di globalizzazione capitalistica mondiale e alle sue ricadute sull'Italia. Possiamo così individuare due grandi causali della nostra proposta. La prima riguarda la moltiplicazione e l'evidenziazione delle contraddizioni interne alla globalizzazione capitalistica. La guerra è riassuntiva di un tempo, di un ciclo intero sociale, economico, culturale, politico. Mai come in questa occasione il nesso stabilito da Jean Jaurès tra il capitalismo e guerra appare attuale. La seconda, consiste nel fatto che la crisi italiana non contempla solamente un pesante declino economico ed industriale, ma coinvolge l'intero assetto della società e delle classi dominanti, producendo confusione e perdita di senso, e, se posso usare questo termine, una infelicità diffusa. Voglio cioè dire che si spezza in Europa e nel nostro paese un sistema di riferimenti culturali e di sicurezze che rende difficile per tutti prevedere il proprio futuro. La crisi latente del governo Berlusconi rappresenta la crisi più radicale dell'impianto delle tesi liberiste. Si frantuma la coesione sociale e fallisce l'ipotesi di sviluppo economico.

I caratteri della nostra proposta

In che cosa consiste allora la nostra proposta politica? In sostanza consiste nell'idea di un'uscita da sinistra di questa crisi. Essa si fonda sulla connessione di tre elementi che la costituiscono e sull'accelerazione dei loro tempi di realizzazione. Mi riferisco in primo luogo allo sviluppo, al radicamento, all'espansione del movimento per rafforzare la sua efficacia di incidenza sui processi reali. In secondo luogo alla costruzione di una sinistra di alternativa in Italia e in Europa, finora assai rallentata o addirittura impedita, e che invece potrebbe dispiegarsi grazie all'accumulo delle lotte contro la guerra e il liberismo. In terzo luogo alla radicalizzazione dell'opposizione del governo Berlusconi, alla sua qualificazione sociale, alla consapevolezza della necessità dell'anticipazione della sua caduta. Su questa base prende corpo la possibilità di costruire un'alternativa programmatica al governo e nello stesso tempo quest'ultima dà sostanza all'opposizione attuale. Tutto questo motiva il cambio di passo della nostra iniziativa politica. Che cosa rende realizzabile questa nostra proposta? L'apertura di relazione, la caduta di muri e ostacoli, la nostra apertura mentale che ci consentono, se le realizziamo di muoverci in mare aperto, nel quale anche il movimento nel suo complesso può crescere. Facciamo quindi i conti con le principali obiezioni che emergono nel dibattito interno ed esterno alla nostra proposta politica.

Le principali obiezioni alla nostra proposta

Dal punto di vista generale si possono riassumere in due grandi aspetti. Il primo riguarda il nesso che deve intercorrere tra la nostra proposta in Italia e il quadro europeo e mondiale. In sostanza la domanda è come possiamo attuare una convergenza con la sinistra moderata, quando esistono delle forti pulsioni che vanno nel senso di politiche moderate. In altre parole, quali sono realmente le nostre possibilità di conquistare una egemonia? Per rispondere a questo quesito dobbiamo guardare alle dinamiche dei movimenti. Naturalmente penso che il problema sia molto grande, ma ci può aiutare l'analisi su quanto è successo a Cancun. La sconfitta delle forze della globalizzazione, la messa sotto scacco delle forze dominanti nel mondo è stata principalmente dovuta all'iniziativa del movimento mondiale. Contemporaneamente si aprono grandi sfide, come in America Latina, ove è chiara la rinascita della sinistra. L'esperienza di Lula in Brasile non solo non oscura ma aiuta lo sviluppo dei movimenti. La vicenda boliviana sarebbe incomprensibile senza quel clima generale che grazie ai movimenti ha, almeno per ora, impedito una reazione condotta dall'esterno. In altre occasioni una vicenda, come è appunto quella boliviana dell'utilizzo e del controllo del gas, si sarebbe risolta negativamente. Sotto i nostri occhi si evidenziano nuove conquiste politico-culturali, dovute ad iniziative di movimento pur in presenza di esperienze di governo progressive. Ad esempio in Brasile la Cut ha dato vita a diversi scioperi; mentre in Sudafrica il Cosatu non aliena la sua autonomia pur di fronte ad un governo "amico". Si devono contestare le scelte di Lula sugli Ogm, ma non si può non vedere l'impegno che persino una parte del suo governo assume nel contrastare queste stesse scelte. In Europa eravamo di fronte ad una desertificazione del dibattito. In pochi mesi, grazie alle scelte del movimento di porre a tema la vicenda europea, è cresciuta l'opposizione ad un progetto di Costituzione che appare l'inveramento del neoliberismo. E infatti parte della sinistra francese e inglese ne prendono coscienza. Quindi, pur restando come segno prevalente l'egemonia della sinistra moderata, anche in Europa processi positivi avanzano. L'idea stessa della costruzione di una soggettività politica alternativa alla sinistra socialdemocratica, ha conosciuto nuovi avanzamenti. Stiamo costituendo un primo nucleo della sinistra alternativa in Europa che si qualifica nella lotta contro la guerra e il neoliberismo. In sostanza la possibilità di lavorare per fare prevalere nel campo delle sinistre un'egemonia delle forze alternative rispetto a quelle moderate, è più possibile di ieri anche se resta certamente difficile.

Il rapporto fra la questione del governo e i movimenti

La seconda questione riguarda il rapporto tra la prospettiva di governo e il movimento. Si tratta di un problema reale che si è posto e si pone drammaticamente anche in situazioni dove i governi, almeno in partenza, sono nettamente schierati a sinistra. Questo problema va affrontato su entrambi i lati, quello del rapporto tra governo e società, e quello dell'autonomia dei movimenti, che non può essere delegato a questi ultimi. Più che della composizione del governo, il problema da discutere riguarda appunto il rapporto tra il governo, la società, i movimenti. Questo stesso problema lo troviamo anche sul terreno locale, dove le cose si presentano un po' più semplici, ma non troppo. Dobbiamo quindi aprire una discussione strategica sul ruolo dei governi nella nostra società. In questo senso registriamo anche dei passi in avanti fatti nel movimento. Considero di questo tipo, ad esempio, l'autonomizzazione rispetto al centrosinistra fatta da grandi organizzazioni sociali e di massa, come la Fiom, la Cgil, l'Arci. Senza la battaglia referendaria sull'estensione dell'art. 18 non saremmo certamente arrivati a questo punto. Ed è un livello assai avanzato, basta pensare, ad esempio, alla richiesta sostenuta dalla Fiom sull'introduzione di un voto sui contratti e sugli accordi, che rappresenterebbe un passo in avanti enorme per la democrazia per i lavoratori. Non vi è qui solo un valore sindacale, ma viene posto un problema assai più rilevante, che è quello dell'autonomia sindacale come punto strategico e come concezione generale della democrazia e della società. Questa è una riflessione necessaria, che noi mancammo durante l'esperienza del governo Prodi, sia per la debolezza dei movimenti allora in atto, sia per carenze soggettive. Bisognerebbe risalire agli anni Sessanta per trovare una discussione di questo genere e di questo livello. Oggi diverse esperienze su scala mondiale, da quelle zapatiste a quelle del bilancio partecipativo indicano questa trama. Certamente è troppo approssimativa la coppia governo leggero-movimento pesante, ma ha il pregio di porre il problema, cioè qual è il luogo strategico per operare il cambiamento? Io penso che sia la società civile e il movimento. L'asse della nostra riflessione è quindi quella di una nuova questione democratica. Un'esperienza buona di governo non nasce e non si mantiene senza una democrazia allargata e arricchita. D'altro canto anche la riflessione sullo sviluppo del movimento impatta con quella di una sua pratica democratica.

Il ruolo del partito nel movimento

Vi sono poi altre più specifiche obiezioni che voglio analizzare. La prima obiezione è che la nostra proposta politica depotenzierebbe il ruolo del partito nel movimento. E' forse la risposta più facile da dare, poiché i fatti stessi smentiscono questa obiezione. Da Riva del Garda fino al prossimo appuntamento di Parigi, siamo stati partecipi come prima e più di prima, non solo fisicamente, ma politicamente. Molti di noi sono legati all'appuntamento della manifestazione d'autunno come tradizionale riposizionamento dell'iniziativa del partito. Ho spesso sostenuto e lo sostengo ancora che anche la ritualità ha un suo ruolo, utile per stabilire la continuità dell'iniziativa di un partito, pur caratterizzandone di volta in volta l'obiettivo. Malgrado questa convinzione questa volta abbiamo rinunciato alla tradizionale scadenza per valorizzare l'appuntamento del movimento del 4 ottobre, pur nutrendo dubbi sulla modalità della sua organizzazione e persino tacendoli per fare valere un carattere unitario delle iniziative. Abbiamo contribuito a costruire la riuscita l'iniziativa della marcia Perugia-Assisi del 12 ottobre, dove rischiavamo di essere stretti in una tenaglia tra coloro che ci denunciavano contigui ai violenti e coloro che ci consideravano come portatori di inefficaci testimonianze. Siamo stati e siamo dentro al conflitto sociale, dalle questioni del lavoro a quello delle pensioni. Abbiamo quindi lavorato per potenziare il movimento, coniugando questo sforzo con una riflessione sul movimento. Ne è esempio il documento dei Giovani comunisti, che condivido ed a cui ho voluto contribuire con un'ulteriore riflessione. Abbiamo quindi ribadito la centralità strategica del nostro impegno nel movimento.

Il movimento non è minorenne

La seconda obiezione è che questa nostra proposta creerebbe una separazione tra la sfera della politica e quella dell'iniziativa del movimento. In base a questo modo di pensare noi offriremmo una sorta di sbocco politico al movimento, dal di fuori di esso. Per supportare questa critica viene sostenuto che noi giudicheremmo il movimento in preda ad una sconfitta. La nozione di "sbocco politico" è fuorviante e noi lo abbiamo sempre rifiutato. Non abbiamo mai concepito i movimenti come minorenni e la politica come adulta, cui i primi avrebbero dovuto prima o poi affidarsi. Invece noi pensiamo, e abbiamo non da oggi pensato, che la politica conosce una crisi profonda e che quindi una politica della trasformazione passa attraverso una ricostruzione del rapporto tra l'agire politico e il movimento. Per questa ragione consideriamo fondamentale la dialettica interna al movimento. Le sue sconfitte, che pure ci sono come è naturale, non costituiscono la fine di un ciclo, a differenza di quelle degli anni Ottanta, ma la manifestazione di un difetto di maturità per attuare un cambiamento che pure è fortemente voluto. Dobbiamo insistere sul carattere nuovo del movimento. Proprio per questo abbiamo detto che siamo di fronte al primo movimento dopo il Novecento. L'insistenza non è né banale né casuale. In questo modo vogliamo sottolineare più che la continuità la rottura di una tradizione. Quando quindi parliamo di sconfitte, mettiamo anche e soprattutto in luce il fatto che esse possono portare a una maturazione che prelude ad un avanzamento. Continuiamo a pensarla come il New York Times, che scriveva che l'unica altra potenza diversa dagli States era il movimento mondiale per la pace. Quando parlammo di sconfitta subita nel referendum sull'articolo 18, abbiamo contemporaneamente colto tutto il valore di avere messo a tema un argomento da troppo tempo dimenticato come il lavoro e i diritti nel lavoro, il che rappresentava un investimento per nuovi avanzamenti. Non abbiamo quindi pensato che sconfitto il referendum lo si dovesse archiviare per passare oltre, al contrario abbiamo colto tutte le enormi potenzialità positive che stavano sotto questa sconfitta. In sostanza pensiamo che le scelte del governo non sono intangibili, che si può vincere sulle pensioni, come si sarebbe potuto vincere sull'art. 18, che quindi è possibile costruire una potenza democratica radicata socialmente in grado di ottenere delle concrete vittorie.

La crisi del centrosinistra

Un'altra obiezione che ci viene rivolta è che questo centrosinistra sarebbe incompatibile con la nostra proposta di alternativa. Qui ravviso un errore analitico di fondo che produce una lente deformante della realtà e della prospettiva. Qui non si tratta di differenze tra noi di valutazione sulle singole posizioni emerse nel centrosinistra. Quando ad esempio Fassino e Rutelli pensano, dopo la decisione dell'Onu, di mantenere e inviare truppe italiane in Iraq, occultano la realtà dell'occupazione militare in quel paese e il confine tra la guerra e la pace e quindi introducono un elemento grave. Quando sulle pensioni pensano di trattare con il governo, configurano un carattere necessitato di un intervento riduttivo sul sistema pensionistico. Quando parlano di modernità della flessibilità annacquano o spengono l'opposizione alla legge 30. Dobbiamo essere molto critici verso queste posizioni. Infatti esse non vanno interpretate come estemporanee o tattiche. In realtà dietro ad esse vi è un humus politico-culturale che noi dobbiamo contrastare. In primo luogo si pensa che governo e governabilità siano la stessa cosa e che la governabilità si realizzerebbe al centro. In secondo luogo vi è l'idea di intercettare pulsioni neocentriste alimentate da parti importanti dei poteri forti italiani che però essi non riescono ad organizzare in un coerente modello politico e quindi, per ora, a realizzare. Naturalmente le conseguenze di questo modo di pensare sono gravissime, perché indeboliscono e dequalificano socialmente l'opposizione. Credo che sia proprio un errore di fondo considerare il centrosinistra come una realtà politica autonoma ed unitaria. Il centrosinistra non c'è più. Capisco che l'affermazione può sembrare lapidaria, ma ne sono convinto e la spiego. Confrontiamo infatti con la realtà. Il centrosinistra, così come lo abbiamo conosciuto, era una complessa entità materiale, politica, culturale, di schieramento. Quel centrosinistra ha pensato in una certa sua fase di demolire ogni altra forza, come ad esempio Rifondazione comunista, per costruire un sistema di alternanza pura. Oggi la composizione materiale del centrosinistra si è scomposta. Non c'è più quel rapporto stretto tra centrosinistra e organizzazioni sindacali confederali, quando ad esempio arrivavano sotto la nostra sede i pullman da Brescia per dirci che non dovevamo rompere con il governo. La Cgil oggi si smarca, la Fiom è protagonista di una nuova stagione di lotta e di pensiero, l'Arci si connette al movimento. Avevamo parlato, e giustamente, di esistenza di un "pensiero unico". Comprendo che vi sono sempre state delle remore rispetto a questa definizione che però considero nella sua essenza esatta. Dove trovavamo un intellettuale capace di aprire una riflessione critica sulle politiche liberiste, sulle privatizzazioni, sullo stato dei salari? Oggi, invece, anche muovendo da culture borghesi, avanzano processi che rompono quegli argini. E' difficile leggere qualcosa di meglio di quello che ha scritto, ad esempio, Luciano Gallino sul declino industriale del nostro paese o sulla questione delle pensioni. Mario Pirani, ancora un altro esempio, scrive sul valore significativo e necessario del carattere pubblico del sistema sanitario e di quello scolastico. In un campo più ravvicinato al mondo politico, Alberto Asor Rosa e Alfredo Reichlin conducono un'analisi della crisi del quadro italiano che, al di là delle differenze che ci separano sulle terapie, sta al di fuori della cultura del centrosinistra, e che li porta a dire che non basta battere semplicemente Berlusconi. Su tutte le questioni importanti il centrosinistra si divide, dalla questione della guerra, a quella delle leggi sul mercato del lavoro o sulle pensioni. Ma soprattutto una parte del centrosinistra converge totalmente con le posizioni della sinistra d'alternativa e dei movimenti.

Come portare avanti la nostra proposta

Per questo io credo che la nostra proposta politica sia oggi decisiva. Dobbiamo interrogarci giustamente su come portarla avanti. Perché sono così contrario ad una pratica contrattuale, che pure per storia individuale e cultura mi è così congeniale? Perché quest'ultima non terrebbe conto della modificazione culturale, materiale e politica del centrosinistra che ha portato a un suo scardinamento. Sono contrario ad un'affermazione puntiforme di singoli aspetti programmatici, proprio perché dobbiamo cambiare l'asse, l'orientamento generale. Oggi lo possiamo fare perché siamo di fronte a una crescita dei movimenti, ad una crisi delle destre, ad un mutamento di composizione materiale del centrosinistra. Oggi è quindi possibile un'aggregazione programmatica. Domandiamoci infatti perché al Senato si è dato vita ad un raggruppamento nominato "Samarcanda", perché alla Camera si è costituito un forum per l'alternativa dei parlamentari; non semplicemente per svolgere efficacemente l'opposizione, ma per affermare punti programmatici comuni. Domandiamoci perché la questione oggi dell'Iraq che è un nuovo banco più avanzato di prova. Domandiamoci perché andiamo a un convengo l'8 novembre in cui si determina uno schieramento a partire dall'iniziativa di alcuni sindacalisti che vuole definire un insieme di obiettivi programmatici utili nel confronto con il centrosinistra. La risposta a queste domande è che sono maturate nuove possibilità e nuove coscienze che noi dobbiamo cogliere con molto coraggio e molta determinazione. Nel contempo nello schieramento moderato della sinistra si evidenziano nuove pesanti contraddizioni. Fassino dice certamente cose sbagliate, ma a Perugia quando si è chiesto la modificazione della Costituzione europea introducendovi il ripudio della guerra, anche lui ha posto la sua firma e così ha fatto anche Pezzotta. Naturalmente può contraddire questa scelta, ma questo è un suo punto di debolezza e non di forza.
Il sistema maggioritario è certamente una gabbia e noi abbiamo lavorato e continuiamo a farlo per imporre riforme del sistema elettorale in senso proporzionale. Ma la differenza rispetto al passato è che mentre prima questo sistema era usato come un ricatto esclusivamente contro di noi, anche sul terreno locale, si pensi alle campagne sul "voto utile", ora diventa un vincolo reciproco. In altre parole l'unità delle forze d'opposizione era prima usata come una clava contro Rifondazione comunista, oggi è biunivoca.

Il nostro rapporto con un nuovo governo

Un'altra obiezione riguarderebbe l'incompatibilità tra la nostra presenza in un governo situato in un'area forte del capitalismo globalizzato. Io non penso affatto che senza una presenza nel governo non ci sarebbe possibilità per una nostra politica. Governo e opposizione sono infatti variabili dipendenti di una politica di trasformazione. Penso allora che bisogna collocare questo tema entro un'analisi della fase della società. A me pare che matura un'idea di riforma della società sia dal basso che dall'alto. Penso che bisogna riorganizzare anche dall'alto una nuova politica che risponda alla crisi della società. Abbiamo prima accennato alla crisi di orientamento delle classi dirigenti. E' un argomento complesso, che qui non possiamo trattare per intero, tuttavia qualche cenno va dato. Il declino industriale, la crisi delle partecipazioni statali, la fine della ricerca strategica non sono elementi occasionali. In realtà si è pensato di generalizzare a tutto il paese il modello del Nord-est. Quest'idea si è rivelata disastrosa, nel senso che non è stato in grado di reggere la competitività di oggi. Le forze dominanti non riescono a controllare la mobilità dei capitali, così come quelle delle persone. La tragedia dei migranti, di cui abbiamo avuto drammatici e recenti episodi, esprime crudamente questa realtà. Le classi dirigenti avevano pensato di cooptare nella globalizzazione parti consistenti delle classi subalterne e delle forze politiche che le rappresentavano. La famosa frase di Gianni Agnelli che in sostanza diceva che la sinistra avrebbe fatto meglio ciò che la destra desiderava fare, esprimeva questo disegno di integrazione. Questa politica è in piena crisi. Neppure le pulsioni, che pure appaiono in settori dirigenti, di sostituire un Berlusconi sempre più impresentabile con soluzioni neocentriste, trova un'aggregazione sufficiente per affermarle concretamente. Se vogliamo qualche esempio dello sbandamento delle classi dirigenti, basta guardare ai proclami di dazi contro le importazioni cinesi, al tentativo di forzare o uscire dal patto di stabilità di Maastricht, di parlare di una ripresa di investimenti pubblici, salvo poi non fare nulla per il pregiudizio ideologico contro il sistema pubblico.

Un cambiamento dal basso e dall'alto

Naturalmente non scompaiono gli avversari, ma viene meno il cemento per consolidare un disegno di integrazione. Ovviamente non pensiamo affatto ad una riedizione del patto dei produttori, né a distinguere tra i buoni e i cattivi dello schieramento avversario. Pensiamo invece alla scomposizione del loro blocco sociale per invertire le tendenze negative che sono state introdotte nella società. Per ottenere questo risultato dobbiamo riaprire un processo culturale nel quale i movimenti sono il sale ma nel quale essi stessi hanno bisogno di nuovi interlocutori politici. Vi è la necessità di creare un nuovo spazio pubblico, di nuovi interventi pubblici nell'economia e nella società. E' un'impresa difficile, ma non impossibile. E' possibile riuscirvi non solo dal basso, ma anche progettando modifiche dall'alto. Da questo insieme di motivazioni nasce la nostra proposta. Non dal carattere di destra del governo che era già noto, non dal problema di uno "sbocco politico" del movimento, ma dalla crisi delle destre e del loro blocco sociale di riferimento. Questa crisi le spinge a compiere danni irreversibili nel sistema sociale e istituzionale ed è quindi necessario in tempi politici prevedibili porsi il problema della loro cacciata.

I nuovi pericoli per la democrazia e la società

Dunque la crisi del governo è evidente, come la frattura del suo blocco sociale di riferimento. Le uscite su Mussolini, sui magistrati pazzi, come i proclami del più triviale anticomunismo, sono serviti come una supplenza temporanea a questa caduta di credibilità. Ora il governo sembra orientarsi verso un «riformismo di destra», sul modello che va da Raffarin a, purtroppo, Schroeder, in continuità con l'asse Giscard-Amato in merito di Costituzione europea. Ma queste ipotesi non è in grado di spezzare il conflitto sociale né di risolvere la competizione in atto. Infatti le classi dirigenti europee non sanno come fare fronte alla politica americana di svalutandone del dollaro e alla crescita di competitività delle merci cinesi. Il "riformismo di destra" vuole rallentare la chiusura di questa tenaglia, senza riuscire ad venirne fuori. L'unica via d'uscita che riescono ad ipotizzare è quella di rendere il conflitto sociale ed i movimenti impotenti, cercando di fare prevalere in essi istanze neocorporative. Questa via d'uscita non è impossibile. Ad esempio nel Nord d'Italia si pensa di unire l'odio verso gli immigrati, cioè verso l'altro da sé, a forme di protezionismo economico. Non dobbiamo affatto sottovalutare queste risorse negative. Anche da qui traiamo la convinzione della necessità di un'accelerazione della caduta del governo. Così avviene anche su scala mondiale, dove il binomio guerra e terrorismo provocano un massacro di politica e di umanità.

Lo schema generale della proposta

Perciò dobbiamo avanzare uno schema generale nel confronto politico, cioè uno schema di un'altra politica economica e sociale, aprendo su questo un confronto nella società civile. Accenno qui almeno quattro elementi costitutivi di questo schema: il primo, la valorizzazione di ciò che è rimasto dello stato sociale e del potere contrattuale delle lavoratrici e dei lavoratori in Italia e in Europa, dei quali la questione delle pensioni ha oggi un valore paradigmatico; il secondo, il soddisfacimento di bisogni collettivi quale "vincolo interno " (come avrebbe detto Claudio Napoleoni) al sistema; mi riferisco alla questione dei salari, dei diritti, degli orari, dello stato sociale, della formazione, dei luoghi di socialità, dei fattori della democrazia quali elementi costitutivi della proposta di un'altra politica economica, di un nuovo compromesso dinamico; il terzo, la ricostruzione di uno spazio pubblico, cioè di una nuova idea di economia mista, nella quale la funzione di quella pubblica sia fondamentale; il quarto, l'affermazione di un'idea dello sviluppo non solo quantitativa ma essenzialmente qualitativa per rompere con il paradigma del Pil bisogna riaffrontare i grandi temi del rapporto tra nord e sud del mondo, quelli della tutela dell'ambiente e della sua valorizzazione, quello di un nuovo rapporto tra vita e lavoro. Proprio su quest'ultimo punto si gioca la possibilità di aprire un discorso nuovo sulle pensioni in un'epoca post-fordista, che sia capace di parlare ai giovani e quindi di non lasciar fuori dalla contesa tanta parte delle soggettività critiche.

Il nostro piano di lavoro

In parallelo bisogna condurre grandi campagne politiche. Dobbiamo domandarci, al fine di realizzarle nel modo migliore, quanti sono gli obiettivi concreti che raggiungiamo, intendo proprio dire quanti volantini abbiamo fatto e distribuito sulle pensioni, quanti per lo sciopero generale, quanti presidi e quanti dibattiti abbiamo fatto per boicottare la legge 30, e tanto altro ancora. Dobbiamo replicare ai processi di frantumazione, alla perdita di senso, all'individualismo indotti dalle politiche neoliberiste e dalla crisi di coesione sociale che esse comportano. Nel mondo della cultura e della produzione artistica vi sono tanti segnali positivi. Sono tornati a fiorire cento fiori. Emergono nuovi punti di riflessione critica (dalla Biennale di Venezia, a nuovi Film, a produzioni letterarie fatte anche su supporti non tradizionali). Vi è nella nostra cultura una ripresa di criticità.Dobbiamo raccogliere questa sfida e tornare a vincere. Forse quest'ultima è una formula abusata, ma oggi esprime un bisogno profondo.

Torniamo a ragionare del movimento

Per riuscire a farlo dobbiamo sempre ragionare sul movimento. Non dobbiamo produrre rotture né stabilire ruoli di guida. Ma dobbiamo ragionare. Infatti vi è un rischio di autoreferenzialità nel movimento. Posso dire, infatti, che la scelta del 4 ottobre di sfilare nel deserto dell'Eur deve provocare una necessaria riflessione? Posso dire che come guardiamo ai limiti nostri possiamo guardare anche i limiti al di fuori di noi? Posso chiedere che il discrimine tra violenza e non violenza avvenga non in base a un contrapposizione ideologizzante, ma nella ricerca di esaltare la radicalità degli obiettivi di movimento? Possiamo riflettere sull'incapacità dei movimenti di giungere a uno sciopero a livello europeo sulla guerra o sulle pensioni, almeno finora? Possiamo condurre serenamente una riflessione sulle pratiche di lotta, dall'occupazione delle case al boicottaggio della legge 30, in un quadro di nonviolenza, che permetta anche ai più deboli, o ai portatori di handicap, di parteciparvi? Si tratta di una discussione vera da condurre internamente ed esternamente. Ma noi dobbiamo chiedere che si esca da una sorta di supplenza elitaria per costruire veramente la democrazia nel movimento, per determinare le forme concrete della partecipazione democratica del e nel movimento. Nella manifestazione del 4 ottobre questi problemi si sono rivelati in tutta la loro importanza e urgenza. So bene che la scelta di due manifestazioni derivava principalmente dall'ambiguità della piattaforma sindacale. Ma come non vedere quel giorno nelle piazze di Roma l'esistenza di due proletariati? Da una parte quello per così dire tradizionale, dall'altra le nuove figure di flessibili, precari e disoccupati? Il nostro compito è la ricomposizione unitaria di questo fronte sociale, anche se non necessariamente e immediatamente delle sue culture. Da qui deriva la possibilità di ampliare e di radicare il movimento.

Accelerare la costruzione della sinistra d'alternativa

Contemporaneamente dobbiamo accelerare la costruzione di una sinistra d'alternativa. Stiamo conducendo delle prime esperienze. Possiamo guardare ad esse in modo critico, sottostimandole, con un atteggiamento sostanzialmente aristocratico. Ma sbaglieremmo a fare così. Se pensiamo a "Samarcanda" al forum dei parlamentari della Camera, al convegno dell'8 novembre, di cui ho già parlato, dobbiamo farlo con l'intenzione di ricavare dal poco il tanto. Quello che dobbiamo assolutamente bandire è l'idea di un semplice assemblaggio di ceti politici che tradirebbe in radice la nostra ispirazione. I seminari e i gruppi di lavoro originati dal confronto tra le forze di opposizione devono diventare trame per percorsi in cui soggetti molteplici, diversi e attivi contribuiscono alla costruzione di un'alternativa programmatica e di un'elaborazione utile alla costruzione di una sinistra alternativa. E questo deve essere fatto con una più larga partecipazione e più intenso coinvolgimento. Abbiamo condotto dei passi in avanti a livello europeo, si pensi alla recente riunione di Parigi. Ci proponiamo di compiere presto un atto costituente per dare vita a un primo nucleo della sinistra alternativa europea. Sento bisogno di una grande accelerazione in questo lavoro. Siamo sull'orlo di una crisi di civiltà. Vi è una dinamica negativa nel rapporto tra guerra e terrorismo che può portare alla barbarie. Mi ha molto compito, e la condivido, la riflessione di Alì Rashid su un imbarbarimento presente anche nel campo palestinese ed indotto dalla violenza del regime israeliano di Sharon. La Palestina è infatti un microcosmo, un laboratorio di questa terribile degenerazione indotta dalla coppia guerra-terrorismo. Per questo abbiamo bisogno di risvegliare l'altra possibile Europa per porre fine a questa e ad altre guerre distruttive. Il tema della guerra, in questo senso, continua ad essere il tema centrale. La rinascita della politica avviene negando il ricorso alla guerra. Il movimento dei movimenti può far rinascere la politica proprio perché assume interamente l'opzione pacifista. Noi dobbiamo fornire una pregnanza politica a questa aspirazione. Sono in gioco noi e il nostro futuro, per questo dobbiamo essere esigenti. Dobbiamo essere consapevoli che siamo decisivi per impedire un crollo di civiltà. Proseguiremo la discussione anche oltre questa riunione del Cpn. Ma non vogliamo farlo in modo chiuso. Dobbiamo aprire un circuito con i movimenti, con le lotte, con il lavoro quotidiano. Da questa riunione non mi aspetto solo un pronunciamento sulla scelta ma anche un piano di lavoro in cui si comprenda bene cosa ciascuno di noi fa ogni giorno

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