OTTOBRE
1998. DALLA SCISSIONE DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA AL PROBLEMA
PIÙ GENERALE DELLA RIFONDAZIONE DEL COMUNISMO
- prime osservazioni su una testarda e continuamente riproposta illusione
-
1. Il 9 ottobre
1998, momento della verità per il partito della Rifondazione Comunista.
2. Armando Cossutta, il cossuttismo e l'invincibile tradizione staliniano-togliattiana
del comunismo italiano.
3. Fausto Bertinotti, il bertinottismo e la tenace tradizione del massimalismo
governativo del socialismo italiano.
4. L'eterna illusione dei rifondatori del vero comunismo puro, proletario
e rivoluzionario.
5. Il primo blocco del marxismo-comunismo: la teoria economica errata
di riferimento.
6. Il secondo blocco del marxismo-comunismo: la teoria politica impotente
di riferimento.
7. Il terzo blocco del marxismo-comunismo: la teoria filosofica nichilistica
di riferimento.
8. Il capitalismo oggi e l'immutabile diritto delle classi, dei popoli,
delle nazioni e degli individui oppressi a lottare contro di esso.
Nota critica e bibliografica.
Il 9 ottobre 1998, giorno della caduta in parlamento del governo Prodi,
è una data abbastanza importante nella recente storia politica italiana.
I dati strategici del passaggio dalla prima alla seconda repubblica probabilmente
non cambiano, e resta la necessità di un rafforzamento dell'esecutivo
rispetto al legislativo, per un maggiore coordinamento del potere politico
rispetto alle oligarchie finanziarie transnazionali ed il cosiddetto governo
mondiale dell'economia. I dati tattici di questo passaggio invece cambiano
certamente, avendo mostrato una debolezza politica irrimediabile della
coalizione dell'Ulivo. Riteniamo che questa sia un'ottima cosa. Una conseguenza
secondaria di questa crisi è stata la scissione del partito della Rifondazione
Comunista fra Cossutta e Bertinotti ed i rispettivi seguaci. Ho detto
volutamente conseguenza e non causa, perché in realtà la crisi dell'Ulivo
non è stata causata (se non congiunturalmente) dal cosiddetto estremismo
di Bertinotti, ma al contrario questo estremismo è stato il riflesso di
un più generale fallimento dell'Ulivo nell'assicurare un soddisfacente
governo del paese. Bertinotti ha causato la fine dell'Ulivo (in questa
fase, almeno) quanto l'attentato di Sarajevo ha causato la prima guerra
mondiale imperialistica. Bisogna invertire i dati per capirci qualcosa.
Tuttavia, la pittoresca scissione di Rifondazione, ricca di risvolti tragicomici
e grotteschi, è interessante in sé, ma è anche l'occasione per aprire
un discorso più generale e più serio sul comunismo politico del prossimo
futuro, e sui progetti per ricostruirne uno finalmente funzionante. L'occasione
è troppo ghiotta per farsela scappare. Dal momento che ritengo il vero
comunismo finalmente funzionante l'equivalente della pietra filosofale
di alchimistica memoria, vorrei dire brevemente il perché di questa scandalosa
ed empia conclusione in otto brevi paragrafi. Seguirà una concisa nota
di tipo critico e bibliografico. Buona lettura.
1.
Il 9 ottobre 1998, momento della verità per il partito della Rifondazione
Comunista.
Il partito della Rifondazione Comunista fu fondato nel gennaio 1991 da
un gruppo di anziani dirigenti del vecchio PCI con il preciso intento
che non potesse in nessun modo accadere un evento come quello del 9 ottobre
1998. È molto importante capire questo incipit, questo inizio, perché
esso illumina tutta la storia di questa formazione politica. È inoltre
la seconda volta che un gruppo parlamentare (deputati e senatori) del
PRC spacca il partito, vìola le regole democratiche minime di convivenza
e le procedure legali di funzionamento di una qualsiasi comunità, da una
bocciofila ad un gruppo sportivo, oppone un gruppo parlamentare oligarchico
ed autoreferenziale ad organismi regolarmente eletti. Una prima volta
per opera del togliattiano Lucio Magri e dei suoi manutengoli nel 1995,
per salvare il governo Dini. Una seconda volta per opera del togliattiano
Armando Cossutta e dei suoi manutengoli nel 1998, per salvare il governo
Prodi. Questa coazione a ripetere verticistica, antidemocratica e manipolatoria
non è stata casuale, perché è iscritta nel DNA politico originario di
questa organizzazione. È degno di nota che questa sfacciata violazione
delle regole democratiche minime, per cui ogni gruppo parlamentare dipende
dagli organismi di partito liberamente eletti nei congressi, è stata entrambe
le volte accompagnata da un osceno e piagnone circo mediatico di nani,
ballerini, ballerine, attori, cantanti, tuttologi ed altri pagliacci dell'oligarchia,
al grido: "Bertinotti è pazzo, è pazzo, è pazzo, fermatelo, fermatelo!
Aiuto, arrivano i fascisti, arriva Berlusca, arrivano le masse del gratta
e vinci e dei giochi a premio, arriva Er Pecora, arriva la fine della
cultura e del buon gusto!".
Questa sceneggiata balzachiana, ripetutasi ad intervalli di un anno, con
mobilitazione del popolo dei fax, della gente che lavora, dei vecchi partigiani,
degli operai con le mani callose e degli attori RAI lottizzati con barcate
di miliardi, vera e propria corte dei miracoli della videocrazia contemporanea,
deve essere spiegata. E per farlo bisogna risalire ai princìpi, come direbbe
il filosofo Vico, cioè a come è nata Rifondazione Comunista. È necessario,
per cominciare, non saltare tre passaggi fondamentali: lo scioglimento
occhettiano in tempo reale dell'elefante PCI in simultanea con il crollo
del socialismo reale; l'orgasmo confusionario tribale ed identitario provocato
dall'apprendista stregone S. Pietro Ingrao nell'anno successivo; infine,
il coperchio organizzativo dato dall'alto all'adunata plebea identitaria
già verificatasi precedentemente, per impedire che questa confusa adunata
plebea identitaria potesse essere politicamente ed elettoralmente egemonizzata
da mostruosi estremisti incontrollabili, sia a livello di attivo militante
che a livello di bacino elettorale. Ma procediamo con ordine.
In primo luogo, tutto inizia quando crolla il muro di Berlino, il campo
socialista europeo si scioglie come uno sformato andato a male, Gorbaciov
mostra di non aver nessun piano strategico di rilancio del vecchio baraccone
comunista decrepito, ed i piciisti devono riconvertirsi velocemente per
salvare il loro apparato ed il loro elettorato. Questo avviene in Italia
negli ultimi tre mesi del 1989. La scelta di Occhetto, orientata al cambio
di nome e di ragione politico-sociale della ditta, è assolutamente corretta
e razionale, ed anzi inevitabile, se ci si colloca, come ci si deve collocare
a meno che non si sia degli affabulatori onirici confusionari, dal punto
di vista strutturale degli interessi economici e politici dell'elefantiaco
apparato che il PCI aveva costruito in mezzo secolo. Prima la ditta produceva
potere consociativo e via italiana al socialismo, ora la ditta, se non
vuole fallire, deve produrre potere consociativo e riformismo capitalistico
moderno e postmoderno. Il bambinone Occhetto non solo fa la cosa giusta,
ma fa una cosa assolutamente obbligata. Solo un confusionario cronico
può pensare che la ditta possa produrre gestione politica oligarchica
di un capitalismo finanziario transnazionale mantenendo il nome e l'ideologia
di Gramsci e di Togliatti. Ma Occhetto commette uno sbaglio. L'operazione
chirurgica doveva essere fatta in fretta, prendendo di sorpresa il popolo
di babbioni che il PCI aveva accuratamente coltivato in mezzo secolo.
Tolto il dente, e via, dando alle sceneggiate identitarie, ai riti piagnoneschi,
al tribalismo comunitario ed all'ipocrisia confusionaria solo due settimane
per disintossicarsi. Il film di Nanni Moretti intitolato La Cosa mostra
con chiarezza il grado di confusione, falsa coscienza, infantilismo identitario
e rincoglionimento comunitario del popolo delle sezioni. Se il cambio
di nome fosse stato fatto in meno di un mese, sono convinto che il PCI,
divenuto PDS, si sarebbe forse evitato una grossa scissione a sinistra.
L'avrebbe comunque avuta, perché l'apparato di Democrazia Proletaria era
ancora in piedi, sia pure esausto e sfiancato. Ma l'avrebbe avuta piccola
e ridotta, con il permesso di una bella componente comunista consociativa
e corrotta nella Cosa in fieri. Ma Occhetto ci mise quattordici mesi a
gestire il trapasso, ed in questo passaggio sorsero le condizioni che
resero necessaria la clonazione dall'alto di Rifondazione Comunista. Prego
il lettore di prestare molta attenzione a questo delicato passaggio.
In secondo luogo, infatti, l'intero 1990 fu occupato dalla tragicomica
sceneggiata. Democrazia Proletaria (DP) si stava sciogliendo, dopo essersi
quasi autodistrutta prima con la creazione della grottesca figura carismatico-elettorale
di Mario Capanna, questo Pannella di un Sessantotto professionalizzato,
e poi con la ridicola esplosione dei quattro pezzi del sindacalismo operaistico,
del femminismo differenzialistico, del pacifismo istituzionale e dell'ecologismo
ministeriale. Ma DP ebbe un soprassalto, perché i suoi dirigenti videro
la possibilità di una veloce occupazione di uno spazio vuoto. Nacque un
giornaletto, Comunisti Oggi, che riuniva insieme Luigi Vinci, Marco Rizzo
e Fausto Sorini con l'ipotesi di creare una grande DP, nel caso che la
Cosa fosse rimasta unita. E Cossutta non perdonò mai a Sorini, suo fedele
e canino segretario, di aver compiuto un simile atto di indipendenza mentale.
Ma non fu certamente Comunisti Oggi ed i resti di DP a porre il vero problema.
La colpa fu dell'apprendista stregone massimo, del Grande Confusionario,
dell'Affabulatore Identitario Pietro Ingrao, anzi S. Pietro Ingrao, patrono
dell'innocuo linguaggio retorico e sentimentale comunista, colui che aveva
compiuto il percorso inverso fatto da duemila anni di filosofia occidentale,
il trapasso non dalla parola alla teoria, ma dalla teoria alla parola.
Il Grande Confusionario mise subito le cose in chiaro: no ad ogni scissione,
sì alla Cosa ad ogni costo, salvare la comunità tribale identitaria dei
militanti, salvare l'unità mistica del popolo di sinistra, restare nel
gorgo (sic!). Ma in questo modo l'apprendista stregone aveva aperto gli
otri di Eolo e della tempesta. Il tribalismo identitario della cosiddetta
base si sentì legittimato a gridare, ad urlare ed a difendere il simbolo
di appartenenza, la paroletta comunista con la sua bella falce e martello.
Questa stessa base, che per decenni era stata ottusamente estranea ad
ogni sollecitazione teorica, scientifica e filosofica volta a riformare
il baraccone comunista in crisi di accelerazione senile e di Alzheimer
evidente, e che aveva sempre preferito Pajetta ad Althusser ed Amendola
a Lukàcs, alzando le sue grida di antipatia e di odio indifferentemente
contro i fascisti e contro gli estremisti, adesso si ribellava con confuse
grida piagnonesche perché le portavano via i simboli e la sigla. E questo
tribalismo comunitario non fece che aumentare nel corso del 1990. Ormai
appariva chiaro che si stava pericolosamente creando in Italia, e si stava
creando per la prima volta dal 1945, un potenziale corpo militante ed
un potenziale bacino elettorale incontrollato, necessariamente massimalista.
Non dimentichiamo inoltre che nel 1991 si era ancora nella Prima Repubblica,
i tempi dei processi giustizialisti a Craxi ed Andreotti erano di là da
venire, ed il PDS concepiva ancora se stesso come spendibile per un'alleanza
di governo con il PSI e la DC ancora pienamente esistenti. Bisognava dunque
dare un coperchio garantito e sicuro a questa confusa e tumultuante adunata
di pasticcioni in preda ad astinenza da simboli ed a tribalismo identitario
acuto, un'adunata evocata dall'apprendista stregone S. Pietro Ingrao.
In terzo luogo, e di conseguenza, Rifondazione Comunista fu costituita
nei primi sei mesi del 1991 proprio per impedire ogni incontrollabile
sbandata massimalistica. Era impossibile impedire l'afflusso disordinato
di trotzkisti, operaisti, DP, ecc., alla base ed ai livelli intermedi.
Ciò che contava era salvaguardare un vertice togliattiano e vecchio-PCI.
E questo fu fatto. Nel gennaio iniziarono i cari Garavini, Cossutta, Serri,
Salvato, e altri vecchi PCI totali e sicuri. Due mesi dopo arrivarono
come cavallette i membri elitari e professionalizzati del gruppo PDUP
(Magri, Castellina, Crucianelli, ecc.), una specie di massoneria politica
di specialisti della mediazione che saturarono tutti i posti di comando,
ed il 50% dei gruppi parlamentari e locali. Si erano così compiute con
successo le condizioni che avevano reso necessaria la nascita di Rifondazione:
il controllo verticistico delle possibili sbandate massimalistiche dei
quadri intermedi e della base militante. La formula era perfetta: vertice
politico e gruppi parlamentari e locali alle persone serie, di tradizione
togliattiana o neotogliattiana; la base ed i quadri intermedi aperti ad
un pittoresco arcobaleno di rivoluzionari e di confusionari di ogni tendenza.
Ma l'attrazione gravitazionale verso il PDS era troppo forte, anche per
ragioni psico-sociologiche. I parlamentari comunisti non sono generalmente
imprenditori, ricchi avvocati, chirurghi danarosi, gente ricca di famiglia.
Sono in gran parte veri e propri straccioni, sindacalisti di base, operatori
sociali, professori delle medie, politicanti e portaborse di base. Di
fronte ai privilegi folli della vita parlamentare questa gente impazzisce,
si abitua a non pagare più il medico ed il ristorante, il treno e l'aereo,
il telefonino e lo schiavo segretario, e si abitua soprattutto alla corruzione
romana, ai salotti di chiacchieroni ricchi, alla visibilità televisiva
ottenuta corteggiando il circo mediatico e le sue idiosincrasie culturali,
ecc. Essi vengono risucchiati a destra per un processo sociologico e psicologico,
per cui Marx e Lenin non spiegano nulla, mentre Tacito e Balzac invece
sì. Il PDS si stava risucchiando gravitazionalmente gran parte di questa
gente.
Per salvare il partito Magri e Cossutta decisero di assumere un manager
esterno, dotato di buone entrature presso il popolo di sinistra educato
da giornali come il Manifesto. Si trattava di un'operazione mediatica
assolutamente razionale ed astuta, purché ovviamente si trattasse di un
fantoccio manovrabile, massimalista a parole, per attirare voti popolari,
ed opportunista nei fatti, per non danneggiare i piani delle oligarchie
politiche al potere. E ci si rivolse ad un certo Fausto Bertinotti, allora
iscritto al PDS, la cui cultura era soprattutto formata da articoli di
Ingrao e della Rossanda, e la cui tradizione ideologica era invece di
origine socialista, dello sciagurato PSIUP (1964-1972), sciagurato perché
si sciolse in una notte per non aver ottenuto il quorum elettorale, e
soprattutto della FIOM, la cui visione filosofica del mondo era la riduzione
di tutto l'universo conosciuto ad una grande fabbrica metalmeccanica fordista.
Ma il diavolo fa le pentole, e non i coperchi. Gli oligarchi togliattiani
che controllavano ferocemente il vertice di Rifondazione pensavano probabilmente
di controllare il Bertinotti come un fantoccio: si accontenterà di pavoneggiarsi
alla TV con Santoro, Bruno Vespa, Gad Lerner e Maurizio Costanzo, e ci
lascerà fare la grande politica, che è poi sempre e soltanto la tattica
consociativa parlamentare. Ma questo significa conoscere poco la natura
umana. È questo un errore tipico dei tiranni (in questo caso di ascendenza
staliniana). Gli esseri umani hanno spesso una loro dignità ed anche una
loro intelligenza. È anche poco realistico pensare di poterli gonfiare
di visibilità televisiva e mediatica e poi credere di poterli manipolare.
Questo fu l'errore delle canaglie staliniane, fino dagli anni Trenta.
E la cosa si ripete. Come dice un proverbio russo, essi non hanno imparato
nulla, e non hanno neppure dimenticato nulla. E tuttavia, come chiariremo
nel terzo paragrafo, il caso Bertinotti non è un semplice caso psicologico,
ma è qualcosa di ben più importante e più serio. Prima, però, occorre
spendere qualche parola per l'ineffabile Cossutta.
2.
Armando Cossutta, il cossuttismo e l'invincibile tradizione staliniano-togliattiana
del comunismo italiano.
Fondando nell'ottobre 1998 il nuovo Partito dei Comunisti Italiani, Armando
Cossutta ed i cossuttiani rivendicano l'identità comunista e la continuità
con l'esperienza storico-politica del PCI. Come giudicare questa rivendicazione
di identità e di continuità? Qualche osservazione non sarà del tutto inutile.
Per quanto riguarda l'identità, è indubbio che Cossutta ed i cossuttiani
non solo sono comunisti, ma sono anzi i soli veri comunisti nel significato
storico, abietto, del termine. È evidente che questo significato, per
non cadere in un incomprensibile linguaggio privato e parallelo, non può
riferirsi ad un'idea platonica di maggiore imitazione (mimesis) e partecipazione
(metexis) con Marx, ma deve corrispondere ad una corposa realtà storica
e materiale durata decenni. E Cossutta incarna veramente molto bene l'identità
comunista italiana. Staliniano totale dal 1945 al 1956, servì poi fedelmente
Togliatti per far fuori lo staliniano idealista attardato Alberganti.
Si trattò dell'equivalente italiano dell'operazione compiuta in URSS da
Nikita Krusciov. Uomo dell'URSS, scrisse dopo il Sessantotto un indimenticato
articolo per Critica Marxista in cui invitava a creare un clima rovente
contro gli estremisti. Fu sempre in prima fila per condannare e colpire
i dissenzienti, a partire dal gruppo de il Manifesto. Egli incarna dunque
fino in fondo un'identità sostanzialmente malvagia ed elitaria, che usa
i collaboratori, li spreme e li butta via (è impressionante, e non casuale,
il numero di ex-cossuttiani fedelissimi passati con Bertinotti!), che
non rispetta le regole procedurali se non quando gli conviene e vince,
e che fa saltare il tavolo quando sta perdendo. Le peggiori caratteristiche
antropologiche del comunista novecentesco, descritte dalla narrativa e
dalla saggistica, da Kolakowski a Papa Wojtyla, sono trionfalmente presenti
in Cossutta: il nichilismo, lo storicismo, lo scientismo, eccetera, eccetera.
È interessante che tutte queste doti vengano sempre funzionalizzate ad
appoggiare poteri oligarchici, in una interminabile ripetizione dei Fronti
Popolari del 1935, anche quando dall'altra parte non c'è nessuna minaccia
fascista. Io penso che sia giusto lasciare a Cossutta l'orgoglio di questa
identità comunista, in modo che ci si possa strozzare. Non conosco nessun
propagandista dell'anticomunismo migliore del comunista Cossutta. Il Libro
Nero del Comunismo non è nulla al confronto. Bisognerebbe filmare, e diffondere
in molti esemplari, l'intervento del deputato cossuttiano Rosanna Moroni
il 14 ottobre 1998 per negare il diritto dei bertinottiani ad avere un
gruppo parlamentare "a norma di regolamento", portando così via a milioni
di elettori del 1996 il diritto di essere adeguatamente rappresentati,
proprio dopo aver pochi giorni prima violato le regole del rapporto fra
partito e rappresentanza. Non bisogna dimenticarlo mai: questa è gente
che al momento buono rifarebbe tutto come prima, dai gulag ai licenziamenti
politici alla persecuzione dei dissidenti. Questa è gente che nel suo
DNA non ha la democrazia ed il liberalismo. Visto che non ha niente, lasciamogli
la loro misera identità comunista.
Per quanto riguarda la continuità con l'esperienza storico-politica del
vecchio PCI, le cose stanno diversamente. Il vecchio PCI viveva di una
forma di doppiezza che può essere definita togliattismo parassitario.
Mi spiego meglio. Da un lato, si affermava che bisognava fare in Italia
una gramsciana guerra di posizione contro la DC ed il capitalismo, formando
un blocco storico e sociale rappresentato in parlamento dal Moderno Principe,
il partito comunista. Dall'altro, il presupposto di questa guerra di posizione
era la costruzione del socialismo in URSS e nel campo socialista. In questo
senso il togliattismo era parassitario. Esso dipendeva parassitariamente
da un fattore storico esterno, l'URSS ed il socialismo reale. Uno dei
più tipici dirigenti PCI, Giorgio Amendola, incarnava bene questo principio
parassitario: moderatismo e consociativismo all'interno, filosovietismo
all'esterno. E Cossutta viene integralmente da questa scuola. È interessante
che questa tradizione insista molto sull'incapacità dell'estremismo massimalista
italiano nel conseguire obiettivi e dunque sul suo fallimento. Non c'è
dubbio. Se facciamo un bilancio storico del cosiddetto estremismo italiano
(gruppetti, Potere Operaio, Lotta Continua, maoisti, ecc.) dal 1956 al
1991 il suo fallimento è innegabile. Ma questo fallimento non è nulla
se viene paragonato ad un fallimento ben più grande, il fallimento storico
del PCI nel conseguimento della sua strategia, la cosiddetta via italiana
al socialismo. È strano che in questo paese di storici, santi e navigatori
questa scandalosa ovvietà non venga apertamente riconosciuta. Ed allora
Cossutta ed i suoi si tengano bene stretta questa rivendicazione di continuità,
la continuità di uno dei fallimenti più grotteschi della nostra storia
nazionale, unitaria e preunitaria.
3.
Fausto Bertinotti, il bertinottismo e la tenace tradizione del massimalismo
governativo del socialismo italiano.
Per ragioni biografiche, psicologiche, culturali e politiche Fausto Bertinotti
non ha praticamente nulla a che vedere con la tradizione del comunismo
italiano, staliniano-togliattiano. Questa tradizione si è storicamente
cristallizzata in un tipo antropologico preciso, tipo Cossutta o lo stesso
Massimo D'Alema. Chi vuole capire il comunismo come fatto sociale totale
(per usare il corretto termine del sociologo Marcel Mauss) deve prestare
attenzione al profilo antropologico, non alle coperture ideologiche o
all'affabulazione innocuamente marxisteggiante. Bertinotti è un socialista
di sinistra di origine PSI e PSIUP, un massimalista, un sindacalista che
ha trasformato il sindacalismo da mestiere rispettabile in concezione
globale del mondo, che vede nel conflitto sociale organizzato la chiave
culturale per comprendere la società. Questo sindacalismo mistico è anzi
l'opposto del comunismo togliattiano, il cui modello sociale è una società
gerarchica, stabile ed ordinata in cui i differenziali economici di prestigio
e di consumo non provengono dall'affaccendarsi imprenditoriale berlusconiano,
ma dalla posizione di ciascuno in una nomenklatura stabilita per via ferreamente
politica e burocratica. Insomma, il modello di merda del defunto socialismo
reale, crollato nonostante la piena occupazione e la gratuità dei servizi
scolastici e sanitari, senza che ci si sia ancora posto il problema del
perché sia crollato, nonostante questi evidenti vantaggi. Il modello di
Bertinotti è opposto a questo baraccone, perché prevede il casino sociale
spontaneo ed il movimento, anche non organizzato.
È evidente, e non vogliamo nasconderlo, che questo modello è infinitamente
meglio del cossuttismo e delle sue nomenklature elitarie applaudite da
una plebe che non diventa mai popolo, perché una plebe diventa popolo
soltanto quando difende le libertà umane, politiche e culturali per tutti,
e non solo per i suoi burocrati crudeli ed inefficienti. Ma Bertinotti
ha dovuto per almeno due anni, per ragioni manageriali e mediatiche, fingere
di essere il rappresentante della tradizione del comunismo italiano, fino
al momento della verità dell'ottobre 1998. Il comunismo di Bertinotti
è un prodotto secondario dell'affabulazione retorica di Ingrao e della
Rossanda, cioè della variante cosiddetta colta del togliattismo. Ma è
anche l'eredità di qualcosa di autentico, perché la sinistra socialista
e non comunista in Italia dispone di una tradizione autonoma di riferimento
al marxismo ed al comunismo, purtroppo soffocata durante un cinquantennio
dall'elefante togliattiano e dai suoi apparati propagandistici ed editoriali.
Ad esempio, colui che resta forse il più grande poeta e saggista comunista
italiano del Novecento, Franco Fortini, non è mai stato comunista nel
senso togliattiano-staliniano, cioè cossuttiano e dalemiano, ma è sempre
e solo stato comunista nel senso libertario del socialismo massimalista
e di sinistra.
Bertinotti proviene in parte da questa tradizione, e ciò gli dà subito
una superiorità antropologica decisiva sul tipo umano prodotto dalla doppiezza
togliattiana, erede del peggiore gesuitismo clericale. Ma questa tradizione
è anche quella del ministerialismo della borghesia di stato maneggiona
e miliardaria, di cui Nerio Nesi (non a caso cossuttizzatosi velocemente
nell'ottobre 1998) è un esponente cristallino e tragicomico. Tuttavia,
il conflittualismo sindacalistico non è una cultura, non fa una cultura,
ed è anzi uno dei fenomeni più incolti e subalterni della storia contemporanea.
Spieghiamoci meglio. Dicendo che il bertinottismo è un fenomeno di incultura
storica complessiva non intendo ovviamente dire che Bertinotti non legge
libri (egli è anzi uno dei politici più colti dell'Italia contemporanea),
o che mancano al bertinottismo laureati e professori universitari. Il
bertinottismo è pieno di laureati e di professori universitari. Ma non
è questo il problema. Intendo dire che la visione sindacalistica e conflittualistica
del mondo, coerentizzata e sistematizzata come deve sempre essere per
una cultura degna di questo nome, non fa cultura, non sedimenta cultura,
non produce una visione del mondo equilibrata e complessiva, e resta eternamente
immobilizzata in una parzialità programmaticamente pauperistica ed operaistica.
Da questo punto di vista, Cossutta ha vinto contro Bertinotti prima ancora
di cominciare a giocare, e questo non solo per maggiore esperienza tattica
e machiavellica. Cossutta ha una concezione del mondo oligarchica coerente,
mentre Bertinotti ha una concezione del mondo egualitaria incoerente,
perché parla sempre a nome degli ultimi e poi delega la cultura a piccolissime
elites snobistiche di sinistra, perché parla sempre di poveri e poi sa
solo bastonare i ceti medi dal momento che i super-ricchi che rottamano
sono una variabile indipendente della sua concezione neoricardiana del
mondo, eccetera, e sono quindi destinati a durare per sempre, o almeno
per moltissimo tempo.
La mia opinione è in proposito netta: su queste basi non si può costruire
una cultura anticapitalistica globale, egemonica, stabile e coerente,
ma soltanto una guardia plebea destinata ad appoggiare sempre nei momenti
decisivi i piani oligarchici di una sinistra politica che è ormai la carta
vincente dei grandi padroni economici dell'Italia e del pianeta.
4.
L'eterna illusione dei rifondatori del vero comunismo, proletario e rivoluzionario.
Di fronte al Frankenstein antropologico di Cossutta ed al Gasparazzo operaistico
di Bertinotti è normale che vi siano tantissimi veri credenti che non
si accontentano di questo comunismo, ma ne vogliono un altro, veramente
vero, proletario, rivoluzionario, fedele a Marx ed agli altri maestri
del marxismo, eccetera. Chi guarda i banchi e le rastrelliere delle librerie
di sinistra non ha che l'imbarazzo della scelta. Ci sono i bordighisti
di Programma Comunista, che ricuciono il filo del tempo del 1921. Ci sono
i bordighisti di Battaglia Comunista, che hanno litigato con i primi negli
anni Cinquanta, e da allora si guardano in cagnesco. Ci sono i bordighisti
di Lotta Comunista, che vogliono rifondare il vero partito leninista armato
della scienza marxista nell'epoca dell'imperialismo globale. Ci sono i
bordighisti di Che Fare che vogliono un partito diretto da operai di fabbrica.
Ci sono i bordighisti di Operai Contro, per cui i precedenti non sono
evidentemente sufficientemente proletari, essendosi evidentemente intrufolati
alcuni impiegati piccolo-borghesi di merda. Ci sono i trotzkisti di Socialismo
Rivoluzionario, un po' libertari ed un po' luxemburghiani. Ci sono i trotzkisti
moderati ed appagati di Maitan, contenti di essersi trovato un comodo
nido fra i bertinottiani. Ci sono i trotzkisti inquieti di Ferrando, che
in realtà mirano a ricostruire la Quarta Internazionale ed a fare un bel
partito trotzkista mondiale. Ma ci sono anche i trotzkisti del gruppo
Spartaco, per cui tutti i precedenti sono opportunisti, piccolo-borghesi,
centristi di destra, eccetera. Poi vi sono i residui del maoismo degli
anni Sessanta, che appoggiano Sendero Luminoso in Perù. Ed ancora, i numerosi
gruppi anarchici, distinti in anarco-comunisti ed anarco-libertari puri.
E poi i discendenti degli operaisti degli anni Settanta, con riviste piene
di composizioni di classe, lotte di tassisti e di camionisti, reti aziendali
ed operai multinazionali in lotta. E poi ci sono i seguaci del no profit
e del mutualismo ottocentesco nel frattempo informatizzatosi. E poi una
galassia di rivistine, rivistone e rivistozze varie, che si richiamano
tutte al vero Marx ed al vero Lenin, e che irridono sghignazzando a tutte
le altre riviste consimili, esponendole al ludibrio di alcuni pochi intenditori
per la loro crassa ignoranza sulla teoria del valore, la trasformazione
dei valori in prezzi, la caduta tendenziale del saggio del profitto o
la vera natura della contraddizione dialettica alla luce del vero materialismo
operaio e proletario. Chi non comprende il carattere patologico di questa
pittoresca frammentazione non coglie evidentemente il cuore della questione.
Ed il cuore della questione sta in ciò, che se il marxismo ed il comunismo
si trovassero in uno stadio di autoriforma e di autocorrezione possibili
e praticabili, evidentemente ci sarebbe un'attrazione gravitazionale che
costringerebbe questi gruppi a confrontarsi l'un l'altro, per avvicinarsi
ed unificarsi in un numero ragionevole di mesi e di anni. La schizofrenica
e paranoica lotta di tutti contro tutti, evidentemente, non è spiegabile
con la tautologica categoria della rissosità, ma con il fatto che l'autoreferenzialità
tribale, identitaria e microcomunitaria è a sua volta il riflesso sovrastrutturale
di un'incapacità più profonda e preoccupante, l'incapacità a costruire
in un tempo ragionevole un paradigma scientifico e filosofico comune,
come avviene per tutte le normali discipline di questo mondo. La rissosità
autoreferenziale, dunque, non è la causa della dispersione, ma è l'effetto
di una rimozione precedente, la rimozione del carattere incerto, fragile
e sorpassato della dottrina di riferimento, che non sopporterebbe evidentemente
la formazione di una comunità di studiosi e di militanti disposti a mettersi
veramente in discussione (come avvenne, tra l'altro, nell'epoca della
prima formazione di un marxismo unificato, fra il 1875 e il 1895). La
paranoia identitaria è l'effetto di una impotenza strutturale, non la
causa di essa. Questi sono i dottrinari. Ma c'è anche un secondo gruppo
di ricostruttori del vero comunismo, quello degli empirici. I dottrinari
partono dalla loro dottrina, e traducono il mondo nel loro linguaggio
sapienziale noto solo ad alcune decine di illuminati. Gli empirici (vedi
ad esempio il Forum dei Comunisti, i seguaci di Bacciardi, la rivista
romana Contropiano) puntano invece sull'inchiesta politico-sociologica
(vecchia bandiera di Raniero Panzieri dal 1956 al 1964), registrano e
classificano tutti i potenziali gruppi antagonisti, e soprattutto cercano
di capire dove vi sia resistenza anticapitalistica al di fuori degli schemi
operaistici puri. Così come Bertinotti è meglio di Cossutta, nello stesso
modo gli empirici sono meglio dei dottrinari. Ma qui non si tratta di
chi sia meglio, o meno peggio. Qui bisogna avere il coraggio di prendere
il toro per le corna, e di prendere posizione con chiarezza sul nucleo
del problema. E il nucleo del problema sta in questo: è realistico, proponibile,
opportuno e praticabile, nella presente fase storica italiana, europea
e mondiale, l'obiettivo di una ricostruzione del vero comunismo operaio
e proletario e della rifondazione del vero marxismo dialettico e materialistico?
No. La risposta è no. Questo programma non è realistico, proponibile,
opportuno e praticabile. Lasciamo tranquillamente il vero comunismo a
Cossutta ed il vero operaismo a Bertinotti. In questo momento storico
(ed è chiaro che non mi pronuncio né sul passato del 1950 né sul futuro
del 2050) non esiste e non può esistere un vero comunismo ed un vero marxismo
da ricostruire e da rifondare. Considero la testarda resistenza ad accettare
questa atroce ma anche liberante verità l'ostacolo principale alla formazione
di un possibile movimento anticapitalistico di massa, teorico e pratico,
pratico e teorico (ho ripetuto due volte invertiti i due aggettivi per
indirizzarmi ai seguaci di entrambe le sequenze prioritarie).
Le ragioni di questo giudizio sarebbero molte, ed alla fine di questo
breve saggio richiamerò in una nota critica e bibliografica alcuni testi
in cui queste ragioni sono argomentate in modo più analitico. Per ragioni
di spazio, ma anche di chiarezza, mi limiterò ad esporre nei prossimi
tre cruciali paragrafi tre ragioni strutturali, di tipo rispettivamente
economico, politico e filosofico. Per correttezza scientifica verso il
lettore anticipo subito che il metodo è solo parzialmente corretto, perché
dovrei prima distinguere sempre fra ciò che è di Marx e ciò che è successivo,
ciò che è marxiano e ciò che è marxista. Ma questo richiederebbe decine
e decine di pagine, che appesantirebbero il testo. Il lettore si accontenti
dunque di una discussione su tre punti di marxismo-comunismo.
5.
Il primo blocco del marxismo-comunismo: la teoria economica errata di
riferimento.
Il primo insuperabile ed inguaribile blocco del marxismo-comunismo sta
in una normale insufficienza scientifica nella sua teoria economica di
riferimento. In condizioni normali le scienze dispongono di fisiologici
meccanismi di autocorrezione, che danno luogo ove necessario a rivoluzioni
scientifiche, o a mutamenti di paradigma, come dicono correttamente gli
epistemologi. Ma il marxismo-comunismo, pur dichiarandosi scienza ad ogni
piè sospinto, non può mettere in atto questi fisiologici meccanismi di
autocorrezione teorica, perché ne viene impedito dal tribalismo identitario
e dal patriottismo di appartenenza, che non si costituiscono mai sul terreno
scientifico e filosofico, ma si formano sempre sul terreno politico ed
ideologico. Per dirla con lo scrittore italiano Ennio Flaiano, la situazione
in questo modo è disperata, ma non è seria.
È necessario ricordate che il marxismo-comunismo, almeno nelle intenzioni
originali di Marx, non è una scuola di economia politica fra le altre,
ma è una critica globale all'intera economia politica. È allora necessario
dire chiaramente dove sta esattamente il centro teorico espressivo di
questa critica dell'economia politica. Se si commette un errore in questa
mossa iniziale si può essere sicuri di non arrivare mai da nessuna parte.
Per la stragrande maggioranza della residua comunità dei marxisti-comunisti
questo centro teorico espressivo sta nella teoria dello sfruttamento e
nella teoria della crisi. Ma questo è un errore di partenza. Il centro
teorico espressivo sta nella tesi della capacità storica intermodale della
classe operaia, o proletariato moderno, nel portare a termine con successo
la transizione globale rivoluzionaria dal modo di produzione capitalistico
al comunismo. E allora è questo centro teorico espressivo che deve essere
interrogato, in senso triplice, ideologico, scientifico e filosofico.
Non intendo negare l'importanza delle due teorie, del resto strettamente
connesse, dello sfruttamento e della crisi. Per quanto riguarda lo sfruttamento,
è noto che Marx lo individua nel differenziale nascosto nel valore della
forza-lavoro, per cui il valore di un bene-merce consiste nel tempo di
lavoro sociale medio contenuto in esso, ma il valore d'uso della forza-lavoro
comprata sul mercato dal capitalista è superiore al suo valore di scambio,
e da questa differenza risulta lo sfruttamento, e dunque l'estorsione
del plusvalore, che può poi essere assoluto o relativo. Si tratta di una
teoria indubbiamente geniale, anche perché in questo modo vengono organicamente
collegate le teorie sull'estorsione e sulla realizzazione del plusvalore,
dunque sullo sfruttamento e sulla crisi. In questa epoca di presunta globalizzazione,
in cui la crisi capitalistica assume caratteri peculiari e in cui la superficie
finanziaria e speculativa nasconde un nucleo produttivo ed industriale,
la teoria marxista-comunista della crisi appare particolarmente credibile
e pertinente. Sta in questo il suo successo non solo nella residua comunità
marxista universitaria, prevalentemente anglosassone, ma anche presso
speculatori come George Soros, preoccupati da un possibile crollo anarchico
del loro capitalismo finanziario incontrollato. Tuttavia, ripeto che le
teorie dello sfruttamento e della crisi non sono ancora il centro teorico
espressivo della teoria economica di Marx.
Esso sta nell'affermazione, per Marx scientifica, della capacità storica
intermodale della classe operaia, o proletariato moderno. Naturalmente,
Marx non si limita certamente ad affermare in modo aprioristico questa
capacità, mediante frasette giovanili sulle catene radicali. Non è il
caso che tutti i parolai, i chiacchieroni, i confusionari, i pauperisti,
i miserabilisti, gli affabulatori identitari insistano su queste sciocche
parolette, come se Marx si fosse aspettato la rivoluzione anticapitalistica
dalle scarpe rotte e dai pantaloni sfondati sul didietro. Ma Marx si aspetta
la rivoluzione proprio dal contrario del miserabilismo. Marx pensa che
le forze produttive capitalistiche, enormemente sollecitate e sviluppate
dalla concorrenza intercapitalistica, finiranno con l'incontrarsi armonicamente
con il lavoratore produttivo associato, che è un grande soggetto sociale
collettivo e non un insieme di disperati, e che a sua volta questo lavoratore
produttivo associato ha la sua avanguardia politica e sociale proprio
nella classe operaia di fabbrica, o proletariato moderno. Il lavoratore
produttivo associato, di cui Marx parla in modo inequivocabilmente chiaro
nel primo libro de Il Capitale, pubblicato nel 1867, ha la capacità di
fondersi armonicamente con le potenze mentali della produzione, da Marx
indicate con la parola inglese general intellect. È da questa fusione,
o se si vuole da questo progressivo avvicinamento asintotico, che Marx
aspetta la grande transizione dal capitalismo al comunismo.
Ma qui vi è un errore. Come ha dimostrato lo studioso Gianfranco La Grassa,
nel vergognoso silenzio identitario e paranoico dei marxisti militanti
e militonti, Marx ha lavorato sulla base dell'ipotesi della centralità
della fabbrica, e non della centralità dell'impresa. Ma l'impresa non
è soltanto una somma aritmetica di fabbriche. Si tratta di un'unità produttiva
qualitativamente diversa, un'unità produttiva in cui prevale il conflitto
e non la cooperazione anche al suo interno, e di conseguenza non si socializzano
armonicamente le forze produttive ed il general intellect. Questo ha conseguenze
gigantesche sul piano della prognosi storica.
In poche parole, non si forma il lavoratore collettivo associato, premessa
materiale indispensabile per il comunismo, almeno secondo il significato
di Marx. Si ha invece una generalizzazione dei rapporti capitalistici
di produzione sull'intero pianeta, una mondializzazione che distrugge
i precedenti modi di produzione precapitalistici. Negli ultimi due secoli
questa è stata la storia di almeno tre continenti, l'Asia, l'Africa e
l'America Latina. Si verifica anche una gigantesca proletarizzazione,
nell'esatto significato marxiano del termine, proprio a causa della distruzione
di questi rapporti sociali precapitalistici. Ma il presupposto della capacità
storica intermodale di transizione non è la semplice proletarizzazione,
e le conseguenti lotte di classe che ne derivano, ma resta sempre e solo
la formazione di un lavoratore collettivo associato in grado di fondersi
armonicamente con le potenze mentali della produzione, il general intellect.
Ed è questo allora che non si verifica.
Mentre i dottrinari fingono che non succeda niente, esattamente come i
tolemaici in astronomia, gli empirici cercano in qualche modo di tenere
conto di alcune novità impreviste nel modello classico. Ed allora generalmente
aggiungono o tolgono, con addizioni e sottrazioni sociologiche, soggetti
sociali collettivi: agli operai si aggiungono o si tolgono i tecnici,
gli impiegati, i piccoli produttori indipendenti, i contadini poveri,
le donne, le nuove professioni informatiche, gli statali, i disoccupati,
gli immigrati, i precari, eccetera. Ma questa estensione sociologica e
questo aumento statistico dei soggetti della loro proletarizzazione (o
della precarizzazione, della frammentazione e della flessibilizzazione)
non sono in grado di correggere il paradigma fallace della capacità intermodale
presupposta, appunto perché questo paradigma afferma che vi è cooperazione
laddove in realtà vi è conflitto.
Questo primo blocco del marxismo-comunismo non è emendabile. Nel passato,
si è cercato di aggirarlo, dai tempi di Lenin, con la teoria del partito
politico comunista e dello stato pianificatore socialista. Nella concezione
di Lenin, partito e stato continuavano però a rappresentare l'intatta
capacità intermodale presupposta della classe operaia e proletaria. Si
pensava in questo modo di aggirare questo pesante blocco. Ma non si faceva
altro in realtà che produrre un secondo blocco, ancora più forte, tenace
ed incurabile. Il fiammifero acceso veniva semplicemente trasferito dalla
mano del blocco economico alla mano del blocco politico, come l'intera
storia del Novecento ha largamente mostrato e dimostrato, per chi ovviamente
vuol essere tanto umile da capirla.
6.
Il secondo blocco del marxismo-comunismo: la teoria politica impotente
di riferimento.
La mancata formazione del lavoratore collettivo associato, e di conseguenza
la mancata fusione con il magico general intellect, è il primo blocco
della dottrina del marxismo-comunismo. Un blocco insuperabile, che non
può essere aggirato, come vorrebbero gli empirici, da una continua addizione
sociologica di sempre nuovi salariati proletarizzati, coreani e brasiliani,
albanesi ed egiziani. L'addizione sociologica, corredata o meno da inchieste,
è certo utile ed interessante, ma non risolve il blocco epistemologico
presente nel paradigma originario di Marx. La necessità di una rivoluzione
scientifica resta intatta, ma è proprio questa che gli empirici non vogliono.
La mancata formazione di un lavoratore collettivo associato addizionata
al general intellect provoca la fuga in avanti verso un nuovo soggetto
unificatore del lavoro diviso, che non può essere che il partito e lo
stato, o meglio il partito comunista addizionato allo stato socialista.
È il modello del comunismo storico novecentesco fallito un decennio fa.
Ma i dottrinari e gli empirici non vogliono rassegnarsi a questo fallimento,
lo riconducono alle due grandi categorie teoriche consolatorie dell'errore
e del tradimento, e pensano che si possa in fondo riproporre lo stesso
modello (marxismo teorico + socialismo economico + comunismo politico),
emendato, ma nessuno in realtà sa come, dagli errori e dai tradimenti.
Questi presunti materialisti si rivelano in realtà idealisti scatenati,
se pensano che la dinamica strutturale di una riproduzione sociale possa
essere interpretata in chiave di errori e di tradimenti. Fra l'altro,
questo approccio volontaristico e soggettivistico (evitare gli errori,
impedire i tradimenti, eccetera) sta esattamente agli antipodi dell'approccio
di Karl Marx.
Ma la fuga in avanti nel partito e nello stato causa il secondo blocco
del marxismo-comunismo. Incidentalmente, questa teoria politica non permette
mai di separare partito e stato, e deve anzi unificarli, perché la funzione
di pianificazione economica delle risorse e degli investimenti di competenza
dello stato presuppone un'unità politica di direzione globale delegata
al partito. Ma questo modello, che pure è in grado di garantire alti indici
di sviluppo economico (URSS degli anni Trenta, Cina degli anni Cinquanta)
nelle prime fasi dell'industrializzazione, non è in grado di garantire
invece nessuna transizione al comunismo, per due ragioni fondamentali:
produce una società di classe, costruita per via politica e non economica,
divisa ferocemente in dominanti ed in dominati; produce una società di
classe instabile ed inefficiente a causa della natura specifica della
classe dei dominanti. Le due cose debbono essere trattate separatamente.
Prima, però, bisogna liberarsi di due teorie diffuse, ma errate: la teoria
della malvagità della natura umana, che si oppone vittoriosamente alla
costruzione dell'uomo nuovo socialista; e la teoria dell'usurpazione burocratica,
dovuta al cosiddetto basso livello iniziale delle forze produttive.
Iniziamo dalla prima. Il fallimento del socialismo nel garantire la transizione
al comunismo, con conseguente restaurazione capitalistica, viene spesso
spiegato in modo tautologico con la malvagità della natura umana, che
è mossa da inestirpabili pulsioni egoistiche ed acquisitive, ed impedisce
dunque la formazione di una nuova antropologia altruistica, l'uomo nuovo.
Si tratta, per dirla educatamente, di vere e proprie sciocchezze. Non
si può infatti giocare irresponsabilmente con la natura umana. Il comunismo
non deve cambiare la natura umana, o riportarla a Neanderthal, ma utilizzare
in senso armonicistico anche le evidenti pulsioni acquisitive dell'uomo.
È quello che hanno sempre fatto tutti i modi di produzione. L'uomo nuovo
è in realtà un'utopia burocratica di mobilitazione, a scadenza inevitabile
di pochi anni. È vero che la natura umana è centrale e determinante, ma
non nel senso che deve essere prima azzerata e poi ricostruita.
Passiamo alla seconda. La tradizione di Trotzky insiste sul fatto che
il basso livello delle forze produttive nella Russia zarista ha provocato
la formazione di un ceto burocratico-parassitario, che si appropria con
illegali mezzi politici di una porzione eccessiva ed ingiusta del plusprodotto
sociale. Il comunismo storico novecentesco resta socialista in presenza
dei due parametri strutturali della proprietà statale dei mezzi di produzione
e della pianificazione economica centralizzata, ma è degenerato a causa
di questa burocrazia di usurpatori. Questa teoria è insostenibile. Si
afferma infatti che la burocrazia politica non è una classe, ma un semplice
ceto sociale, perché non dispone in proprietà privata trasmissibile ereditariamente
dei mezzi di produzione. Ma lo sfruttamento non dipende dalla presenza
di notai o di commercialisti. Lo sfruttamento deriva da un potere di disposizione
reale sui mezzi di produzione e soprattutto sulle condizioni riproduttive
della produzione sociale, e questo non ha bisogno di notai e di commercialisti,
come del resto non ne ebbe bisogno nei modi di produzione asiatici ed
antico-orientali.
Le società a monopolio di un partito-stato (indipendentemente dall'ideologia
e dalla falsa coscienza organizzata che secernono come la seppia secerne
il suo inchiostro) sono società di classe, costruite per via politica
e non per via economica, ferreamente e ferocemente divise in dominanti
e dominati. Come nel paragrafo precedente abbiamo fatto riferimento a
Gianfranco La Grassa, così in questo faccio riferimento a Charles Bettelheim,
che ha chiarito meglio di chiunque altro la natura storica dello stalinismo
sovietico, modello inarrivabile per tutti i possibili socialismi di stato
e di partito. I dominanti costituiscono il loro dominio utilizzando il
monopolio del potere del partito-stato, e ricorrono spesso a purghe e
stermini non perché siano cattivi più dei capitalisti, ma perché è il
solo modo per liberare posti nella gerarchia sociale per le masse fedeli
ansiose di promozione individuale e collettiva. La gerarchia dei consumi,
del potere e dello status si costituisce così per via politica, ed è dunque
diversa dalla gerarchia capitalistica normale, che si forma per via economica,
finanziaria ed imprenditoriale (ovviamente, con appoggi politici determinanti).
La classe dei dominanti comunisti è però particolarmente inefficiente
ed instabile. È inefficiente, perché l'innovazione tecnologica è incompatibile
con la garanzia della piena occupazione e dei modesti ritmi di lavoro
con cui legittima il suo dominio. È instabile, perché non è giuridicamente
proprietaria dei mezzi di produzione, e tende irresistibilmente a garantirsene
una proprietà più sicura e stabile. Questa inefficienza e questa instabilità
alla fine implodono tragicomicamente, ed è la fine del baraccone comunista
e della sua gerarchia politico-ideologica.
La dinamica di questo secondo blocco del marxismo-comunismo resta sempre
completamente incomprensibile sia ai dottrinari sia agli empirici. Sembra
sempre che loro, i ricostruttori, i rifondatori, eccetera, eviteranno
miracolosamente queste dinamiche degenerative oggettive, pesanti come
le catene delle Alpi, delle Ande e dell'Himalaya, e faranno finalmente
un partito comunista ed uno stato socialista immuni. Un'immunità che deriva
variamente dalla buona volontà soggettiva, dal crescere tecnologico del
general intellect, dalla proletarizzazione crescente in Corea ed in Brasile,
eccetera. Personalmente, ritengo scientificamente e filosoficamente più
razionale e convincente la dottrina dello Spirito Santo.
7.
Il terzo blocco del marxismo-comunismo: la teoria filosofica nichilistica
di riferimento.
I due blocchi teorici indicati nei due precedenti paragrafi sono sufficienti
per capire l'assoluta irriformabilità di una dottrina che da un lato vuole
essere rivoluzionaria ed anticapitalistica e dall'altro non intende problematizzare
i propri presupposti. Questi due blocchi non sono teoricamente aggirabili,
perché sono cementati insieme da un altro blocco psicologico, un blocco
identitario, che definisce l'appartenenza preventiva ad una comunità militante,
quella appunto dei marxisti-comunisti, generalmente intesa come parte
di un altro più vasto corpo mistico-sociologico, il popolo di sinistra,
pittoresco insieme di confusionari benintenzionati, l'unico gruppo sociale
al mondo per cui l'intenzione morale anticapitalistica può integralmente
sostituire la cosiddetta fatica del concetto, cioè la faticosa comprensione
della realtà. Il progetto di riformare culturalmente questo corpo mistico-sociologico
è contraddittorio in termini, dal momento che questo corpo mistico-sociologico
esclude a priori che un'eventuale riforma culturale radicale possa disaggregarlo
e riaggregarlo secondo modalità diverse. Il popolo di sinistra è una realtà
ombelicale-autoreferenziale, una forma di vita narcisistica. Chi intende
restare fissato, in senso freudiano, a questa forma di vita si accomodi,
ma non pensi di essere culturalmente superiore alle casalinghe berlusconiane
ed al popolo del gratta-e-vinci e dei giochi a premio.
Tuttavia, il terzo blocco del marxismo-comunismo di cui intendo parlare
in questo paragrafo non è il blocco psicologico identitario, ma un blocco
di tipo filosofico, che deriva, e nello stesso tempo è all'origine, dei
due precedenti blocchi economico e politico. Si tratta, in breve, della
riduzione della filosofia a scienza oppure a ideologia, e della correlata
negazione di ogni carattere conoscitivo e veritativo alla filosofia stessa.
Questo blocco non è assolutamente aggirabile o emendabile. In questa sede,
per ragioni di spazio, è impossibile discutere nei dettagli se questa
sciagurata e stupida negazione del carattere veritativo della conoscenza
filosofica debba essere fatta risalire allo stesso Marx, oppure al suo
amico Engels, oppure ancora alla sistemazione positivistica di Kautsky,
oppure ancora al materialismo dialettico di Lenin, o infine alle varie
forme di storicismo marxista italiano ed europeo. Ritengo di essere uno
specialista in questo settore di studi, cui ho dedicato centinaia di pagine
ed anni di lavoro. Ma in questa sede mi limiterò a stringere il discorso
nei suoi termini essenziali, per far comprendere al lettore che un quadro
filosofico di riferimento che nega preventivamente alla conoscenza filosofica
un carattere veritativo è una bomba a tempo nichilistica innescata sotto
la conoscenza stessa. Si tratta infatti di un caso particolare del problema
generale del nichilismo del pensiero contemporaneo, di cui il marxismo-comunismo
è stato purtroppo solo una variante, anziché esserne la soluzione positiva,
come si è a lungo sperato. Non ho alcuna remora a dire che i termini generali
filosofici del problema sono correttamente impostati nell'ultima enciclica
del papa polacco dell'ottobre 1998, intitolata Fides et Ratio e dedicata
alla conoscenza filosofica. So perfettamente che si tratta soprattutto
di un documento identitario rivolto ai preti cattolici ed ai loro seminari,
ed ovviamente mi sento del tutto estraneo a questa intenzione identitaria,
in quanto non credo alle filosofie di appartenenza. Nello stesso tempo,
non intendo entrare nel merito sulla questione del rapporto fra filosofia
e teologia, e neppure sulla questione dei complicati rapporti fra platonismo
ed aristotelismo cristiani. Ma è bene dire che la diagnosi di nichilismo
sul pensiero moderno sulla base soprattutto dei due parametri dello scientismo
e dello storicismo è assolutamente soddisfacente, e coglie realmente il
centro filosofico della questione. È un'ennesima vergogna per il pensiero
marxista-comunista il fatto di non essere riuscito autonomamente in più
di un secolo ad arrivare a queste impeccabili, corrette ed equilibrate
conclusioni. Il marxismo-comunismo è morto di continue overdosi di scientismo
e di storicismo, e bisogna proprio essere dei coglioni identitari per
non aver mai saputo innescare processi culturali progressivi di autocorrezione
teorica in grado di sbloccare il proprio crescente nichilismo.
La riduzione integrale della conoscenza filosofica allo statuto epistemologico
della conoscenza scientifica è dovuta principalmente ai lavori di Engels
fra il 1875 ed il 1895. Ma non gettiamo la croce solo sul povero Engels.
Se questo è avvenuto, è perché Marx era stato confuso e contraddittorio
in proposito. Questo scientismo, anche se colorato di rosso e fortemente
insaporito con dosi di ateismo e di materialismo, è sostanzialmente una
ripresa sofisticata e migliorata del positivismo di Comte, il pensatore
francese che fin dal 1830 aveva già escluso per la filosofia qualunque
spazio che non fosse già integralmente coperto dalla scienza positiva.
Il positivismo, anche se si pensava come una ripresa ed un completamento
dell'illuminismo del secolo precedente, è in realtà un calco duplicato
della logica di sviluppo borghese e capitalistica dell'industrialismo
del tempo, ed il fatto che il proletariato abbia ereditato questa concezione
del mondo è un ennesimo sintomo del suo penoso carattere subordinato ed
assolutamente non intermodale. Non è un caso che lo stesso pensiero borghese
d'avanguardia, infinitamente più flessibile, colto ed innovatore, lo abbia
superato e problematizzato da tempo.
La riduzione integrale della conoscenza filosofica allo statuto di un'ideologia
politica di identità e di appartenenza classista e partitica è dovuta
principalmente ai lavori di Lenin fra il 1900 e il 1920. Ma non gettiamo
la croce solo sul povero Lenin. Se questo è avvenuto, è perché Marx era
stato confuso e contraddittorio in proposito. Questo ideologismo, che
riduce la questione della verità filosofica a punto di vista sociologico
di una classe e/o ad identità militante e professante di un partito politico
comunista, comporta necessariamente, nonostante gli sforzi ammirevoli
ma patetici di alcuni grandi spiriti comunisti (da Gramsci a Lukàcs),
una sottomissione servile del dibattito filosofico alla supervisione dei
burocrati professionali del partito e dello stato. La situazione inquisitoriale
della chiesa medioevale è così pienamente restaurata, e questo dovrebbe,
se ci fosse ancora in giro un minimo di sentimento del pudore, scoraggiare
pretini e pretoni dall'infierire sul comunismo, che ha fatto nel Novecento
esattamente quello che hanno fatto anche loro per alcuni secoli. Ma il
senso del pudore è un criterio metodologico singolarmente assente nel
dibattito filosofico contemporaneo.
Tiriamo allora le fila di queste osservazioni. La sinergia di scientismo
e di ideologismo ha alla fine prodotto un black out relativistico integrale.
La negazione del carattere conoscitivo e veritativo alla riflessione filosofica
non è qualcosa di innocuo e di marginale, ma è un fattore che impedisce
l'innesco di processi di autoriflessione critica sulla propria prassi
economica e politica. Questa prassi cade in una sorta di incantesimo dell'immanenza,
per cui non vi sono più criteri veritativi esterni alla propria riproduzione
cieca. Alla fine, non c'è più modo di sapere chi siamo, da dove veniamo,
e dove andiamo. Il collasso implosivo nichilistico è l'esito meritato
di questa merda scientistica e storicistica. Amen.
8.
Il capitalismo oggi e l'immutabile diritto delle classi, dei popoli, delle
nazioni e degli individui oppressi a lottare contro di esso.
Non ce la saremmo presa tanto nei tre ultimi paragrafi con l'accanimento
terapeutico rivolto al salvataggio del marxismo-comunismo se non avessimo
fortissima la preoccupazione del che fare. Io dò infatti per scontato
che sia giusto ed opportuno porsi il problema pratico della resistenza
e della lotta contro la globalizzazione capitalistica transnazionale,
lotta che coinvolge a diversi livelli le classi, i popoli, le nazioni
e gli individui oppressi. Questa globalizzazione finanziaria sta producendo
una situazione per alcuni aspetti neofeudale, per cui la dicotomia orizzontale
destra/sinistra rischia di non spiegare più nulla, dal momento che oggi
la vera dicotomia è tornata verticale, cioè sopra/sotto. Sopra ci sono
le feroci oligarchie finanziarie transnazionali, appoggiate da un nuovo
clero mediatico globalizzato CNN, e sotto ci sono le classi, i popoli,
le nazioni e gli individui provvisoriamente senza vera rappresentanza
politica. I vertici delle forze di destra, di centro e di sinistra sono
infatti oggi parte integrante delle oligarchie di chi sta sopra, che li
utilizzano come elementi di mediazione e di collegamento per ottenere
un consenso che è comunque sempre più passivo ed indifferente, basato
più sul senso di impotenza che su di una vera e propria adesione. Oggi
il binomio Cossutta-Cossiga indica qualcosa di intercambiabile, non certo
la polarità di un arco ideale, come opina la tifoseria urlante dei babbioni
cammellati. In ogni caso, il lettore mi perdonerà se mi lascerò andare
a due innocue profezie sui tempi che verranno. Sarà certamente poco scientifico,
ma almeno ci capiremo bene su questo ultimo punto teorico essenziale.
Una prima profezia, che poi è una razionale previsione, è che nel giro
di qualche decennio, in pieno terzo millennio, il marxismo-comunismo ha
una ragionevole possibilità di ripresa. Non dico sicurezza, e neppure
probabilità, mi limito a dire possibilità. La ferocia dei dominanti oligarchici
del pianeta è infatti tale, e così grande è la loro sostanziale incapacità
di gestione globale delle contraddizioni sociali, ambientali, geografiche,
nazionali, eccetera, da far ritenere probabile una seconda ondata di rivoluzioni
sociali, che inevitabilmente pescheranno stimoli e simboli nel passato
novecentesco, vero e proprio grande magazzino dei tentativi rivoluzionari.
Per quella data chi scrive (e la sua generazione) avrà già cortesemente
da tempo tolto il disturbo, e dovrebbe essere diventato obsoleto il contenzioso
dei conflitti ideologici novecenteschi (stalinismo, trotzkismo, maoismo,
anarchismo, fascismo, socialdemocrazia, eccetera). Questo marxismo-comunismo
avrà così tratti teorici e pratici totalmente nuovi, che oggi sembrerebbero
quasi impensabili.
Una seconda profezia, più difficile da comprendere, ma ancora più importante
della prima, sta nel fatto che questo possibile nuovo marxismo-comunismo,
per adempiere al suo ruolo anticapitalistico, dovrà probabilmente liberarsi
delle tre palle al piede discusse nei tre paragrafi precedenti, e che
qui ripetiamo ancora una volta con tenacia testarda: l'infondata teoria
della capacità intermodale privilegiata della classe operaia, o proletariato
moderno, allungato o meno a fisarmonica a gruppi salariati vari; la centralità
fascistoide degli apparati dei partiti-stati comunisti e dei loro burocrati,
sbirri ed altri delinquenti; il nichilismo filosofico intessuto di inutile
ateismo, soffocante scientismo, ingenuo storicismo, eccetera. Certo, un
marxismo-comunismo liberato da questi tre elementi, che oggi ne formano
il tessuto portante, sarà una cosa completamente diversa, e quasi inimmaginabile.
Ma la storia ci ha già abituato a simili miracoli, che sono anzi la norma,
e non l'eccezione. Bisogna soltanto avere molta immaginazione storica,
sociologica e filosofica.
Ma questa seconda condizione, e qui sta il punto essenziale, non è per
oggi, e non è per oggi per una semplice ragione di fondo, che si tratta
di comprendere bene. Se il nemico principale delle classi, dei popoli,
delle nazioni e degli individui oppressi resta il sistema capitalistico
internazionale globalizzato con le sue regole di riproduzione, l'avversario
principale, per ora assolutamente invincibile, di questo necessario rinnovamento
culturale e teorico resta l'establishment politico-culturale di sinistra,
che rende impossibile qualunque riforma. Esso vive di dicotomie virtuali
che non spiegano più nulla, ma che continuano a strutturare la percezione
sociale delle contraddizioni: progresso contro conservazione, ateismo
contro credenza, destra contro sinistra, proletariato contro borghesia,
eccetera. Non c'è una sola di queste dicotomie che spieghi ancora qualcosa,
ma il loro mantenimento è essenziale a questo establishment per garantirsi
identità, appartenenza, tribalismo comunitario, cultura di riconoscimento,
eccetera. Per fortuna questo establishment non ha un carattere mondiale,
ma europeo certamente sì, ed in Italia esso è presente in modo particolarmente
asfissiante e capillare, per ragioni storico-politiche antiche e recenti.
Siamo dunque in un tempo dell'attesa e del passaggio. In spagnolo si dice
mientras tanto, nel frattempo. In tedesco si usa l'espressione Zwischenzeit,
che vuol dire tempo del trapasso, dell'attraversamento. Nessuno può ovviamente
dire quanto durerà. Ciò che è invece già chiaro è il carattere radicale
che dovrà assumere questa cultura del passaggio, del trapasso e dell'attraversamento.
Essa non si situa in un rapporto di continuità e di timida riforma identitaria
con la vecchia cultura di sinistra. Essa deve ristrutturare tutte le categorie,
tutte le false dicotomie. Essa deve riformulare integralmente una teoria
dell'emancipazione. Non voglio nascondermi dietro un dito: oggi siamo
lontanissimi dalla coscienza di questa esigenza.
L'esempio della questione nazionale e del problema nazionalitario, caro
ai lettori di questa rivista, può essere un esempio di quanto andiamo
dicendo: non esiste per ora alcuna possibilità di far capire neppure gli
elementi minimi di questo problema all'arrogante, ignorante ed autoreferenziale
establishment culturale di sinistra di questo paese. Semplicemente, non
rientra negli schemi operaistico-classisti che ne hanno modellato per
decenni la percezione dei rapporti sociali. La cosa più curiosa è che
questo sociologismo comicamente esasperato, che costruisce tutto il tessuto
dei rapporti storici e geografici mondiali in termini rigorosamente economici,
cioè operaistico-classisti, si accompagna sistematicamente ad un cosmopolitismo
ingenuo, fatto degli stessi progressisti omologati e clonati in tutto
il mondo in una cultura identitaria di riferimento fatta di hippysmo fuori
stagione, droghe leggere, inglese elementare, a metà fra la S. Francisco
degli anni Sessanta ed il pellegrinaggio in India degli anni Settanta.
Questi cosmopoliti senza internazionalismo, uniti agli operaisti senza
operai, non sono in grado di comprendere praticamente nulla di quanto
sta avvenendo nel mondo, in cui le questioni nazionali, nazionalitarie,
culturali e religiose sono oggi questioni di resistenza all'omologazione
imperialista. Ma come è possibile che degli omologati si oppongano all'omologazione?
È chiaramente impossibile.
Diciamo queste cose con molta preoccupazione. Onestamente, io avevo creduto
che la vischiosità e la pigrizia culturale fossero minori, e dunque sarebbe
stato possibile avviare più rapidamente una svolta culturale. Non è stato
così. Ma nulla è perduto o compromesso. Semplicemente, è più difficile,
e ci vorrà più tempo. Inoltre, ci vorrà più coraggio e chiarezza nell'avvio
dell'edificazione di una nuova cultura globale di resistenza e di emancipazione.
Nota
critica e bibliografica.
I primi tre paragrafi sono dedicati ad un tema politico di attualità,
e non richiedono dunque alcun rimando bibliografico. È vero che sono in
circolazione parecchi libri su Rifondazione, libri-intervista a Bertinotti,
eccetera, ma si tratta di libri in buona parte inutili, agiografici e
retorici. È assolutamente impossibile capire da libri del genere il nucleo
del problema di Rifondazione negli anni Novanta, la compresenza di una
feroce tradizione togliattiana, manipolativa ed antidemocratica, e di
una confusa tradizione estremistica, PSIUP, DP, insaporita da altre minoranze
storiche ed archeologiche. L'ottobre 1998 ha visto esplodere questa compresenza,
da cui personalmente traggo due conclusioni: il carattere irriformabile
della tradizione comunista ed il carattere sterile e subalterno del massimalismo
socialista, populista ed operaista. Due metà incollate male, e scollatesi
alla prima seria sollecitazione.
Il paragrafo quattro parla di una illusione ricostruttiva che ho intrattenuto
anch'io per trent'anni. Non mi sogno dunque per nulla di prenderla in
giro. Ma considero l'essermene liberato non solo una conquista biografica
personale inestimabile, ma un vero e proprio presupposto per poter iniziare
a pensare più in grande, con una maggiore consapevolezza della radicalità
dei compiti teorici cui siamo chiamati. Insisterei su questo secondo aspetto,
dal momento che il primo è puramente biografico, e non interessa perciò
nessuno al di fuori della stretta cerchia di conoscenti dello scrivente.
Per il paragrafo cinque si vedano in particolare i lavori di Gianfranco
La Grassa, e si può iniziare con Il comunismo fallibile, Editrice CRT,
Pistoia 1998. Per il paragrafo sei si veda in particolare C. Bettelheim,
Les luttes de classes en URSS, 1930-1941, Maspéro-Seuil, Paris 1982-1983.
Per il paragrafo sette rimando ai miei lavori degli ultimi anni, ed in
particolare a Marxismo Filosofia Verità, Editrice CRT, Pistoia 1998.
Il paragrafo otto non comporta una bibliografia specifica, dal momento
che si tratta di un programma di lavoro in buona parte ancora da svolgere.
La rivista Koinè, espressione dello stesso collettivo di lavoro che trova
un punto di riferimento nell'Editrice CRT, vorrebbe portare avanti questo
programma di lavoro. Ma è bene che ricordi ancora qui la rivista Indipendenza,
in cui esce questo breve saggio, per il suo coraggio nell'andare contro
corrente e contro le mode.
Costanzo
Preve |