Rifondazione mensile di politica e cultura 
Maggio 1998 
EDITORIALE

LA CONFINDUSTRIA ORLEANISTA di Giorgio Cremaschi

Per comprendere le posizione attuali della Confindustria e anche le sue contraddizioni e incertezze  è bene riconnettere il filo che lega le scelte del padronato italiano per un arco di tempo più ampio di quello su cui normalmente operano i mass-media.
Prima di tutto è utile ricordare che la minaccia di disdetta dell’intesa del 23luglio 1993 si colloca in un lungo percorso di rimessa in discussione degli accordi dagli anni 80 ad oggi.
Gli industriali disdettarono l’accordo sulla scala mobile ben tre volte tra l’81 e il’91. Inoltre diverse volte hanno rimesso in discussione il sistema delle regole definito nelle intese triangolari con Governo e sindacati. Si può dire che dal 1980 ad oggi ogni tre anni mediamente ci sia stato un confronto generale sulle regole che ha rimesso in discussione  quelle precedentemente definite. Sotto questo aspetto dunque “la linea della disdetta” non rappresenta certo un’innovazione nel comportamento padronale, ma semmai, la ripresa di un’iniziativa che pareva essersi assopita negli ultimi cinque anni. In realtà già con il rinnovo del secondo biennio salariale del contratto dei metalmeccanici si era capito che il sistema definito il 23 luglio con i due livelli di contrattazione, per una buona parte del mondo industriale era da considerare un momento di transizione verso una più vasta deregolazione del sistema sindacale. Così con il loro contratto i metalmeccanici avevano dovuto fronteggiare, da soli, un’offensiva contro l’intero assetto contrattuale.
Nella disdetta periodica delle intese si manifesta dunque una tendenza di fondo nelle posizioni degli industriali. Essa può essere più o meno virulenta nelle sue espressioni tattiche, ma è sicuramente chiara nella sua direzione di marcia: la messa in discussione dell’intero sistema contrattuale e di diritti definito negli anni 60 e 70. Il primo obiettivo di questa offensiva è stato la scala mobile e con essa contrariamente a quanto hanno sostenuto molti esponenti sindacali che negli anni 80 dichiaravano che la riduzione della scala mobile avrebbe dato più spazio alla contrattazione sindacale, all’autonomia rivendicativa del sindacato nei luoghi di lavoro. Poi l’offensiva ha sempre di più coinvolto il contratto nazionale, con il suo potenziale di unificazione dei diritti, delle condizioni di lavoro e dei salari in tutto il paese, con la sua obiettiva funzione di controtendenza rispetto ai meccanismi del liberismo selvaggio. Infine con sempre maggiore chiarezza l’offensiva padronale  si volge contro lo Statuto dei diritti dei lavoratori e contro l’essenza stessa dei diritti conquistati negli anni 60 e 70: la giusta causa nei licenziamenti. E’ desolante constatare che queste posizioni padronali trovino tuttora a sinistra e nel sindacato disponibilità giustificate con gli stessi schemi di ragionamento degli anni 80, ma comunque è bene chiedersi perché l’offensiva contro il sistema contrattuale si scateni adesso.
La legge sulle 35 ore rappresenta sì un evidente pretesto, molto delle posizioni più radicali del padronato sono state assunte ben prima che la legge venisse presentata, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che essa ha assunto un obiettivo ruolo di accelerazione del confronto sociale. L’industria italiana teme che con la moneta unica e i successivi appuntamenti europei, vengano a mancare margini di elasticità nella competizione europea. Non bisogna dimenticare che una cifra pari al 90 – 95 per cento della produzione complessiva dei paesi dell’Unione trova il proprio sbocco nell’interscambio europeo. La fine delle ultime residue barriere monetarie, fiscali e parafiscali appare a molti industriali italiani come scomparsa di ogni protezione di fronte alla forte industria d’oltre confine. Il Presidente della Fiat due anni fa aveva manifestato i suoi euroscetticismi rispetto all’unificazione monetaria.
Ora l’industria italiana teme la concorrenza europea e riapre i due fronti che tradizionalmente mette in campo quando sente minacciati i propri interessi. Da un lato quello della spesa pubblica, con la richiesta al Governo di sostegno fiscale e normativo, accompagnato dai tagli allo stato sociale, dall’altro l’attacco al salario e ai diritti contrattuali.
D’altra parte l’equilibrio di potere interno al sistema industriale italiano è profondamente cambiato dagli anni 80. Una sola grande azienda di dimensioni multinazionali è rimasta con centro decisionale nel nostro paese: la Fiat. Il sistema delle partecipazioni statali è stato cancellato, mentre al suo posto assumono un ruolo sempre più rilevante (ma non è uguale!) le multinazionali estere. Si è sviluppato un sistema di piccole e medie imprese, non solo nel nord est, oggi soggetto a tutte le tensioni e le incertezze di una crisi di crescita. Crescono i conflitti di interesse determinati dalla diversa dimensione d’impresa, dalla posizione rispetto al sistema finanziario, agli interventi pubblici.
Tutto concorre a creare negli imprenditori italiani un senso permanente di insicurezza e minaccia, una paranoia da ipercompetitività, che non trovo riscontro nel buon andamento dei profitti delle imprese, ma non per questo è meno tenace.
Da tutto questo finora la Confindustria ha tratto motivo per confermare e accentuare il proprio massimalismo rivendicativo: solo facendo continuamente il più uno tutti assieme i padroni evitano l’esplosione del conflitto tra i propri differenti interessi.
Così la richiesta confindustriale della generalizzazione dei “partiti d’area”, non solo in tutto il Mezzogiorno, ma in tutto il paese, fino a delineare un’Italia simile a un gigantesco e paradossale Galles del sud, ben chiarisce questa scelta. Non si tratta più di ridurre il potere contrattuale di una forza il lavoro che comunque conservi diritti  e poteri collettivi, ma di costruire un gigantesco processo di ricambio nella composizione dell’occupazione, con la sostituzione di lavoro tutelato con manodopera precaria ed ultra flessibile.
In questo quadro è evidente che il compromesso del 23 luglio per gli industriali è ancora troppo stretto. Di esso naturalmente bisogna conservare la centralizzazione e la burocratizzazione delle relazioni sindacali, ma nello stesso tempo bisogna svuotare ciò che resta di autonomia del lavoro nei due livelli di contrattazione. La stessa concertazione subisce una torsione corporativa, alla quale peraltro non sono insensibili alcune posizioni sindacali. La concertazione triangolare degli anni 80, nelle quale il Governo, i Sindacati e gli industriali definivano le compatibilità generali, tende a trasformarsi in un “tavolo bilaterale”. Da un lato sta il governo, dall’altro “i produttori”, cioè sindacato e industriali, ai quali spetterebbe l’esclusiva  nelle materie del lavoro e dell’impresa.
La legge sulle 35 ore interviene su questa evoluzione, la mette in discussione, e per questo scatena nella Confindustria la spinta a buttare tutto all’aria.
Rotture improvvise e continuità di fondo compaiono anche nell’atteggiamento confindustriale verso il quadro politico e affinato un rapporto di “mutualità” con il sistema politico dominante. Sarebbe interessante cogliere tutti i nessi tra le difficoltà e i fallimenti nell’internazionalizzazione dell’industria italiana negli anni 80, dalla chimica, alla gomma, all’informatica, alle telecomunicazioni, all’auto, e quel consolidarsi di un legame d’affari con il sistema politico del pentapartito che è sfociato in tangentopoli. Lo “statalismo” dell’industria italiana negli anni 80 è tanto evidente quanto dimenticato dai nostri attuali apologeti del libero mercato.
In ogni caso negli anni 90, un po’ per dare sbocco alle spinte liberiste estreme e antisistema che avevano cominciato a manifestarsi nelle imprese – è bene rileggersi i resoconti di un convegno a S. Margherita Ligure dei Giovani Industriali –  la Confindustria ritira ogni delega al sistema politico e si presenta sulla scena come soggetto indipendente. Comunque questo soggetto esprime u a vivace preferenza per un quadro di governo tecnico centrista, il governo Amato in particolare lascia tuttora inconsolabili rimpianti in Confindustria.
E’ vero che per un breve periodo gli industriali hanno flirtato con il berlusconismo. Forza Italia non è nata dalle file della Confindustria, ma tuttavia nell’autunno del ’94, quando Berlusconi tentò una svolta liberista radicale sullo stato sociale, ebbe il consenso di tutti i principali imprenditori italiani. In quei giorni in tutte le fabbriche si abbondava in sarcasmi sulla cena a base di pasta e fagioli nella quale si era concordato l’appoggio della grande industria alle scelte di Berlusconi. Il movimento di quelle settimane travolse il governo de3lle destre, e a volte troppi dimenticano a chi devono le loro attuali posizioni governative, così gli industriali tornarono rapidamente sulla linea dell’approccio critico a governi tecnici centristi. Viceversa il quadro politico uscito dalle elezioni del ’96 non è mai stato davvero accettato dagli industriali italiani. Non per ragioni ideologiche, ma per il condizionamento che la maggioranza può esercitare sulle scelte di politica economica del governo. L’attacco al ruolo di Rifondazione Comunista e le corrispondenti insidiose lusinghe offerte al Pds da parte della Confindustria, hanno come obiettivo l’autonomia del Presidente del Consiglio e si manifestano sin dalla costituzione del Governo dell’Ulivo, ha in particolare con le due finanziarie del ’96 e del ’97.
Ripetutamente, nel corso del ’97, il vice presidente della Confindustria avverte che con Rifondazione comunista in maggioranza non si va in Europa. Gli industriali non hanno rinunciato al quadro politico preferito, ed è significativo che una persona ben gradita ad una parte del polo di destra, alle aree moderate dell’Ulivo, alla Confindustria, quale è il Commissario Europeo Mario Monti, spieghi con sempre maggioranza insistenza come sia necessaria una grande coalizione. La fibrillazione continua del mondo industriale contro il quadro di maggioranza crea così le condizioni perché operazioni goffe come quella di Cossiga, abbiano qualche spiegazione in più. Così pure l’offensiva referendaria di Di Pietro, e non casualmente di Abete, ha su un altro versante lo stesso scopo: soddisfare la domanda di centralismo della Confindustria costruendo le necessarie risposte politiche e istituzionali.
A mio parere la fibrillazione continuerà, anche perché è alimentata dalla contraddizione che una parte importante della borghesia italiana vive tra scelta del bipolarismo sul piano politico e bisogno di grande centro sul piano sociale. In questo senso occorre il massimo do controllo sull’andamento dei lavori parlamentari sulla legge sulle 35 ore: casi di coscienza improvvisi con ripercussioni sul quadro politico sono possibili e richiesti.
In tutto il dopoguerra, fino ai mostri giorni, si ritrova una costante e naturale vocazione centrista e conservatrice della Confindustria.
Solo una volta nella sua storia il padronato italiano tentò un’operazione di autentico riformismo. Fu con i lavori della commissione Pirelli della Confindustria alla fine degli anni 60, che tentarono di costruire una risposta keynesiana avanzata alle lotte dei lavoratori di quegli anni. Ma i lavori di quella commissione avanzata alle lotte dei lavoratori di quegli anni. Ma i lavori di quella commissione furono rapidamente affossati e la Confindustria scelse una linea di patteggiamento senza cambiamento con il movimento sindacale e con il quadro politico. Sotto il ricorrente titolo del “patto dei produttori” la Confindustria alla fine degli anni 70 e negli anni 80 ha sempre proposto una dimensione sostanzialmente tattica di accordo con le organizzazioni prevalenti nel movimento operaio, in cambio di una mano libera per sé  nella gestione delle imprese e del mercato. Non c’è mai stata nelle posizioni di Confindustria la scelta, anche in versione paternalista, di andare davvero verso il lavoro, di tentare un patto coi produttori in carne e ossa, di puntare su una qualificazione del lavoro e per quella via dell’impresa italiana.
Anche la svolta sulla qualità totale alla fine degli anni 80 si è risolta, come forse si poteva prevedere, in una sommatoria di vecchie e nuove flessibilità, piuttosto che in una consapevole scelta di superamento del modello taylorista per ottenere un coinvolgimento del lavoro nell’impresa non solo fondato sulla paura di perdere il posto.
La competizione sul costo del lavoro viene dunque tranquillamente riproposta dopo anni di bassi salari, perché essa è sempre stata in realtà al centro della cultura economica dell’impresa italiana. In questa fase “orleanista” della politica italiana e occidentale, le grandi forze economiche abbandonano i riferimenti liberisti più esplicitamente reazionari e preferiscono dialogare con forze di sinistra liberalizzanti, che garantiscono migliori risultati rispetto ai fondamentalismi thatcheriani. Così anche si spiega il tonfo di Berlusconi all’assemblea degli industriali di Parma. Il mondo industriale cerca di costruire la nuova offensiva sul costo del lavoro mantenendo un rapporto privilegiato con il quadro politico e soprattutto con il sindacato confederale. Ma è altrettanto evidente che ciò che si chiede al governo e alle confederazioni sindacali è la rinuncia a una politica economica alternativa o perlomeno differente dal liberismo. Per questo la distinzione tra duri e molli che si fa sugli schieramenti padronali è francamente incomprensibile: ci sono certo differenze tra gli industriali italiani, ma l’obbiettivo strategico che li tiene assieme è uguale. Per questo è necessario un movimento politico e sociale che si dia l’obiettivo di costruire, anche attraverso i risultati parziali, una politica economica e sociale diversa da quel liberismo assistito dal trasformismo politico, che la Confindustria propone.
La questione delle 35 ore avrà, inevitabilmente, nel suo sviluppo e nella sua conclusione, il ruolo di cartina di tornasole sul quadro sociale e politico del paese dei prossimi anni.
 
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