di Laura Stochino

Era il 1999 quando in Italia, all'interno di una riforma complessiva del sistema scolastico, si decise di mettere fine per il reclutamento degli insegnanti alla prassi dei concorsi. Allora, si disse, si metteva fine ai concorsi perchè la selezione avveniva esclusivamente sui contenuti e non si davano gli strumenti interdisciplinari necessari ad affrontare un mestiere così importante e complesso. Si ideò la SISS, la scuola di specializzazione per l'insegnamento, consistente in corsi abilitanti della durata di due anni, sostitutivi del “concorsone”, a cui si accedeva tramite concorso pubblico.

Sottolineo la parola concorso perchè le prove per l'ingresso erano due (un quiz a risposta multipla e un altro a risposta semistrutturata) e vertevano sui temi della disciplina di competenza e sulla didattica. Il numero di posti, per ogni classe di concorso, sarebbe dovuto essere determinato a partire dalle previsioni dell'organico per gli anni successivi (in base cioè ai pensionamenti, trasferimenti, nuove cattedre ecc.). Secondo questo meccanismo l'ingresso alla SISS avrebbe comportato, per chi entrava, un sicuro posto di lavoro alla fine dei due anni e conseguentemente la fine del cosiddetto “precariato storico”, ma così non è stato. L'idea, del tutto condivisibile nello spirito, di una scuola in cui giovani insegnanti si mettevano in gioco per realizzare una scuola democratica e moderna è naufragato nelle mille deroghe e miserie che ogni progetto innovativo subisce nel nostro Paese. In primis i costi della SISS, alti per chi vi accedeva (due mila euro in due anni), alti per la sua attivazione (docenti universitari, non sempre esperti, ma ben pagati). Secondariamente, le eccezioni fatte per la determinazione dei numeri di accesso per classe di concorso, non sempre in linea con le vere esigenze dei successivi anni scolastici, con forti discrepanze da Regione a Regione. Infine, la mannaia dei tagli, più di trecentomila cattedre in meno negli ultimi tre anni. Alla fine dell'ultimo ciclo di SISS (A.S. 2007/2008) si poteva concludere che l'unico risultato di quasi dieci di scuole di specializzazione era stato l'aumento esponenziale dei precari. Nuovissimi e giovanissimi precari, come la sottoscritta, abilitati a 25/26 anni e ad oggi, ormai trentenni, senza cattedra, senza supplenza e potremo dire senza speranza. In questa condizione siamo in migliaia (più o meno 100 mila) e siamo davvero sorpresi di scoprire a distanza di dieci anni che il nostro non era un concorso e la nostra età odierna è in media di 50 anni. Potremmo anche ammettere che in un certo senso c'è del vero in questa propoganda, dopo anni di attesa e di ricerca di altro lavoro, è difficile credere che per molti di noi, oggi, si possa esercitare l'insegnamento con lo stesso entusiamo e preparazione di un ventiseienne che ha concluso gli studi da poco e ha tutta la vita davanti. Può, dunque, capitare che speri che ti chiamino per avere una supplenza abbastanza lunga da aver diritto alla maternità, alle ferie pagate e i contributi versati. Di fronte a questo quadro di sconcertante realismo, mi chiedo come si possa raccontare a tutta l'Italia la fiaba del nuovo concorso che con i suoi quasi 12 mila posti messi a bando risolverebbe un problema che coinvolge più di 200 mila persone (al nostro elenco va aggiunto quello dei precari senza abilitazione e quello dei vincitori di concorso del '99); come si possa continuare a omettere l'esistenza di giovani insegnanti, ancorchè ormai trentenni, abilitati e vincitori di concorso che hanno lavorato per anni con contratti precari e hanno speso per la loro formazione post lauream due anni della loro vita e migliaia di euro. Non vorremmo che la fiaba si rivelasse una favola, senza lieto fine, la cui morale fosse, per l'ennesima volta in ambito scolastico, da ricercare nel tentativo di fare cassa con i soldi dei lavoratori precari e dei disoccupati.

 

 

 

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