di Fabrizio Goria

I derivati a protezione del debito italiano crescono sempre di più. I Credit default swap (Cds), ovvero gli strumenti finanziari che fungono da assicurazione contro l’insolvenza dell’emittente di un titolo, che proteggono gli investitori sull’Italia non sono mai stati così tanti. Per la precisione, sono 11.656 contratti. Cioè il doppio di quanto erano circa due anni fa, quando Roma non era ancora entrata nel circolo più vizioso della crisi europea.

Nessuna nazione, in questa classifica tanto particolare quanto poco onorevole, è peggio dell’Italia, dato che il valore nozionale lordo dei Cds è di 356 miliardi di dollari.

Gli investitori internazionali hanno paura dell’Italia. E lo dimostrano ogni giorno. Sebbene il rendimento dei titoli di Stato italiani, con i Btp decennali oltre il 6%, abbia monopolizzato la discussione sulla crisi, ci sono altri strumenti che mostrano quanto poca sia la fiducia che i mercati finanziari hanno nell’Italia. Un esempio sono i Cds, i cui dati sono recuperabili dai database della Depository trust & clearing corporation (Dtcc). Nel marzo 2010 i Cds a protezione del debito italiano erano molti di meno. Circa 5.600 contratti, sempre secondo i dati della Dtcc. Il valore nozionale lordo (la somma delle controparti, seller e buyer) di questi strumenti era di circa 240 miliardi di dollari. Il singolo Cds era negoziato intorno a 150 punti base. Ciò significa che per assicurare 10 milioni di dollari di titoli di Stato italiani occorrevano 150mila euro all’anno. Poco, rispetto a quanto paga oggi un investitore, circa 550mila euro.

Un anno fa le cose erano migliori di adesso. Con 7.650 contratti aperti, un valore nozionale lordo di 279 miliardi di dollari e un valore nozionale netto di 25 miliardi, l’Italia era comunque al primo posto della classifica delle nazioni con più Cds sul proprio debito, posto che conserva ancora oggi, sebbene il nozionale netto sia di circa 21 miliardi. Tuttavia, un anno fa la crisi italiana era ancora agli albori. Una volta che gli investitori hanno iniziato a perdere fiducia nei confronti dell’Italia hanno cominciato a rivedere le loro posizioni. I primi sono stati i Money market fund (Mmf), i fondi del mercato monetario che da sempre rappresentano uno dei pilastri della liquidità sistemica. Nella primavera dello scorso anno è iniziata la riduzione dell’esposizione, che oggi è quasi del tutto assente. Poi, sono arrivati i downgrade sul rating sovrano, la cui conseguenza è stato il riassetto dei portafogli. E insieme a ciò è arrivato l’incremento della domanda di protezione.

La gestione di questo mercato è in mano a poche entità finanziarie, le sole che possono avere adeguati margini operativi per questo lavoro. Stando ai dati della Dtcc queste sono Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas, Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC, JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland, Société Générale, UBS e UniCredit. Ogni giorno vengono negoziati Cds, fra cui quelli sull’Italia, le cui controversie sono regolate dalla International swap and derivatives association (Isda), l’associazione di categoria che è controllata dalle stesse istituzioni finanziarie che partecipano al mercato dei Cds.

«Non ci preoccupa molto il nozionale dei Cds sull’Italia, che è sempre stato elevato, quanto la dinamica dell’apertura dei contratti», ha sottolineato la settimana scorsa ICAP, principale interdealer broker mondiale, nella consueta nota sui Cds. «La tendenza è in aumento e c’è molta domanda di questi prodotti», afferma la società londinese. Il principio è semplice. Da un versante le tensioni nell’eurozona, in crescita esponenziale negli ultimi dodici mesi, hanno spinto gli investitori a richiedere protezione verso diversi asset della zona euro. E nel caso del debito pubblico, la protezione si compra tramite i Cds. Dall’altro versante l’Italia continua a essere indicata come la prossima vittima della crisi europea che ha già fatto capitolare Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro. Fanno paura le prospettive macroeconomiche per i prossimi anni, crescita anemica e pareggio di bilancio previsto per il 2017, come ha stimato il Fondo monetario internazionale, e non nel 2013, come invece aveva promesso il governo di Mario Monti. Ma innervosisce anche il debito pubblico, che oggi ha toccato i 1.948,584 miliardi di euro secondo la Banca d’Italia, facendo segnare un nuovo massimo storico. L’aumento dalla fine del 2011 è stato di 50,7 miliardi di euro e le previsioni del Fmi non sono positive. Solo dal 2014 il debito, in rapporto al Prodotto interno lordo, inizierà a calare. Infine, come ha ricordato ICAP, c’è un aspetto che deve far riflettere: «Se è vero che il valore nozionale netto è diminuito, la domanda è cresciuta e ogni giorno ci sono nuove richieste. E se gli investitori sono disposti a pagare queste cifre è chiaro che ritengono stiano facendo la scelta corretta». La prevenzione è sempre meglio della cura? A guardare i Cds sull’Italia sembrerebbe così. 

 

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