di Alberto Burgio

Le parole sono pietre, pensava uno dei nostri maggiori, non per caso dimenticato. E sono importanti, aggiunse Nanni Moretti in un memorabile dialogo di Palombella rossa. Per questo non convincevano, nei recenti anni bui del Cavaliere, le analisi che discorrevano a giorni alterni di un nuovo regime e di un nuovo fascismo, ferma restando, ovviamente, l'estrema gravità di quanto è accaduto in questo paese nell'ultimo ventennio. È discutibile che sia una buona idea alzare i toni e forzare i concetti. Ed è tutt'altro che ovvio che spararla grossa aiuti a far comprendere e a sensibilizzare l'opinione pubblica. Più probabilmente gli eccessi sortiscono l'effetto opposto, come scoprì a proprie spese il pastorello di Esopo

che si divertiva a terrorizzare il villaggio urlando per scherzo «Al lupo! Al lupo!».

Oggi però qualche dubbio insorge. Si provi a riflettere sul nuovo ordine europeo che sta prendendo forma sotto i nostri occhi con il pretesto della grande crisi. L'Europa a due velocità che sta nel cuore e nella mente dell'establishment tedesco prevede una rigida gerarchia tra i paesi forti (che esportano merci e capitali aggiogando gli altri alla catena del debito e sfruttando sul mercato finanziario i vantaggi della propria potenza) e i paesi deboli, intrappolati nella prigione di una moneta unica costruita su misura nell'interesse dei più ricchi, e privati della possibilità di sfruttare la debolezza della propria valuta e di utilizzare la spesa in debito come meccanismo di redistribuzione e di sviluppo.
Le due velocità non riguardano soltanto i rapporti internazionali, ma anche quelli sociali, all'interno dei singoli paesi. Come ci rammenta Luciano Gallino, la lotta di classe funziona ancora, anche se sembra ricordarsene solo il capitale. Ricchi e poveri (detentori di capitale e gente costretta a campare di salario, stipendio o pensione) esistono, in proporzioni diverse, in tutti i paesi. E corrono ovunque a velocità diverse. Un capitalista greco (o italiano o spagnolo) andrà sempre molto più veloce di un operaio tedesco, anche se Atene sta sprofondando all'inferno per colpa di Berlino. Troppo spesso si perde di vista l'intreccio tra piano nazionale e piano internazionale, nonostante sia uno snodo cruciale della dominazione coloniale, sulla quale la storia degli ultimi due secoli avrebbe dovuto renderci edotti. La metropoli europea (la Germania, sino a ieri con l'attivo sostegno di Francia e Stati uniti) domina il continente anche attraverso i proconsoli (o i Gauleiter) di cui dispone in periferia. I quali governano, per così dire, su suo mandato, col compito di garantire, se non il consenso, almeno l'obbedienza delle popolazioni ai diktat della cosiddetta Unione europea.
Ma veniamo alla sostanza. A che cosa serve questo nuovo ordine? Detto in volgare, a spremere il lavoro (le classi medie, oltre a quello che un tempo si chiamava proletariato) sino all'ultima goccia di sudore e di sangue. Se la si smettesse una buona volta di cianciare di ripianamento del debito e si cominciasse a dire pane al pane, si parlarebbe di una gigantesca rapina a mano armata. Indubbiamente molto adatta a governanti virili, decisi, freddi e insensibili agli scrupoli di un melenso umanitarismo. Quando si dice «debito pubblico», si lascia intendere che siamo tutti indebitati, ma la verità è che una parte di questo paese, a cominciare dai padroni delle banche, possiede il 63% del debito italiano. Questi sono creditori, non debitori. Ci si vuol spiegare una volta per tutte come hanno fatto costoro ad accumulare questo credito, chi e perché glielo ha consentito? E si vuol dire con chiarezza agli italiani che l'Italia non è affatto povera, ma un paese diviso tra moltissimi sempre più poveri e pochi, pochissimi, sempre più ricchi, che oggi impongono agli altri il proprio volere? Si vuol chiarire che tutte le scelte del governo (contro sanità e pensioni, salvo quelle d'oro, per esempio) e tutte le sue non-scelte (contro i patrimoni) dipendono dalla ferma volontà di tutelare i grandi creditori?
Chiamando in causa entità celesti («i mercati», «l'Europa») ed evocando lo «stato d'eccezione», si prendono decisioni «per il bene del paese» che incidono drammaticamente sulla vita e forse sulla morte di milioni di persone e che non hanno altra logica fuor che quella di remunerare a tassi usurari il capitale privato concentrato nelle mani di una oligarchia (una casta di cui non si parla mai) sempre più ristretta. Sino a ieri la sporca faccenda degli «esodati» è parsa il non plus ultra. Dopo le farneticazioni della Fornero sul non-diritto al lavoro e la ripresa del piano Brunetta contro gli statali sappiamo che dobbiamo aspettarci ben di peggio. Chi crede ancora che esistano argini o tabù non ha davvero capito con chi abbiamo a che fare. A noi l'idea di una società che prevede stermini per fame o malattia (si vedano i tassi di mortalità infantile negli Stati uniti) fa orrore, ma non dovremmo essere tanto sicuri che essa non appaia a qualcuno l'immagine più adeguata della modernità. Dopo tutto, fu uno dei padri della sociologia contemporanea a sostenere che la «sovrabbondanza numerica degli uomini» rispetto ai mezzi di sussistenza «rende necessaria l'eliminazione ininterrotta di coloro ai quali appartiene una meno forte capacità di conservarsi».
Non ci sono stivali né olio di ricino. E nemmeno campi di prigionia, salvo per i migranti. Ma quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è precisamente ciò di cui parlava Gramsci quando si domandava perché l'Europa tornasse «alla concezione dello Stato come pura forza» e chiamava in causa la «saturazione della classe borghese». La quale, incapace di coniugare remunerazione del capitale e sviluppo sociale, «non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa» recuperando «la concezione di casta chiusa» propria dell'aristocrazia feudale.
Certo, considerando le cose sul medio-lungo periodo, le scelte della cosiddetta classe dirigente italiana appaiono folli. Chi ha capitale e potere si sta arricchendo a tutto spiano grazie alla crisi, ma ritrovarsi in un paese allo stremo non sarà comodo per nessuno. Di questo passo, la periferia europea (l'Europa mediterranea e orientale, oltre all'Irlanda) sarà popolata da eserciti di poveri, disposti a lavorare per un'elemosina ma incapaci di comprarsi le merci prodotte in cambio di un salario da fame. E non è affatto detto che sarà tanto facile governare un'Europa così. Questi non sono gli Stati uniti: non ci sono i dividendi di un impero da distribuire alla plebe né un radicato individualismo (oltre che una lunga frequentazione con la schiavitù) a legittimare la miseria di massa. Non è un caso che in Italia per mettere in riga il movimento operaio si sia dovuto ricorrere al fascismo, e che per ridurre in servaggio mezza Europa Hitler abbia scatenato la guerra.
Ad ogni modo, che la destra sociale e politica avalli, legittimi e mascheri ideologicamente questa nuova guerra civile, è del tutto naturale. Non lo è affatto che a stare al gioco e a nobilitarlo con la retorica del «risanamento» e del «rigore» sia una parte della sinistra, ancorché la più moderata. E qui bisogna che ci si capisca una buona volta. Sono trent'anni che si racconta la favola della responsabilità e dei «sacrifici» che presto finiranno e poi sarà meglio per tutti. Cominciarono la Cgil ai tempi di Lama e il Pci di Berlinguer. Vogliamo fare finalmente i conti di questa brillante operazione? I conti economici, ma anche quelli sociali e politici, considerato che in trent'anni il lavoro ha perso - a stare bassi - oltre 150 miliardi di euro e gran parte dei diritti conquistati con le lotte; che le retribuzioni lorde in Italia sono sotto la media dell'Europa a 27 (non parliamo di quella a 17); che l'Italia ha privatizzato beni e imprese pubbliche per oltre 110 miliardi (più o meno quanto la Thatcher); che la componente maggioritaria della sinistra politica si è ridotta a coabitare nello stesso partito con quella che per oltre cinquant'anni è stata la sua controparte.
C'entra questa storia con quello che stiamo vivendo in questi giorni? C'entra eccome, perché delle due, l'una. O l'on. Bersani la smette di avallare le scorrerie della speculazione, le pretese della troika europea e la «macelleria sociale» del governo (Squinzi) e comincia finalmente a dire che il suo partito sosterrà solo misure che vadano nel senso della restituzione al lavoro della ricchezza sociale che gli è stata sottratta in questi decenni. Oppure è davvero inutile che si scaldi per convincerci che il Pd sostiene Monti nell'interesse generale o che corra dagli operai della Fiom a promettere che si batterà per una maggiore giustizia sociale. Oggi il principale compito della politica è rispondere alle persone che chiedono lavoro e rispetto dei propri diritti. Ma per poterlo assolvere si deve cominciare a dire le cose come stanno e smetterla di fabbricare veli d'ignoranza che impediscono al 99% della società di capire questa crisi cos'è, da dove nasce e chi veramente la sta pagando. Mai come in questo momento la verità è stata una necessità politica, se non proprio una forza rivoluzionaria.
Ps. Il presidente del Consiglio ha reagito alle critiche di quello della Confindustria accusandolo di essere un pericolo pubblico. Che cosa avrebbe detto la «grande stampa» se a reagire in modo così tollerante e civile fosse stato Berlusconi? Possibile che a nessuno più stia a cuore almeno la libertà di opinione?
 
da il manifesto

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