di Benedetto Vecchi

Il braccio di ferro tra Londra e Quito ha una rilevanza che va ben al di là della sorte di Julian Assange. La posta in gioco, infatti, è la possibilità o meno che la Rete possa essere un medium per un'attività giornalistica al di fuori delle grandi corporation dell'informazione. In fondo Wikileaks ha svolto, nelle forme che ha deciso più opportune, di diffondere informazioni che avevano una indubbia rilevanza pubblica.
La messa on line del video e dell'audio relativi all'uccisione di alcuni civili iracheni da parte di militari statunitensi, la pubblicazione dei cablogate delle ambasciate statunitensi al dipartimento di stato, ma anche la diffusione di materiali che testimoniavano episodi di corruzione di questa o quella multinazionale sono state azioni che attengono appunto ad una normale attività informativa, giornalistica.

In fondo, i media dovrebbero avere questo compito, cioè rendere pubblico ciò che il potere vuol tenere celato all'opinione pubblica. Sarebbe questa infatti la mission dei media. A sostenerlo non sono mediattivisti radicali, bensì le costituzioni liberali di mezzo mondo. Poco importa se alcuni dei materiali arrivati a Wikileaks fossero «segreti», cioè resi top secret dagli Stati uniti.

Quando un giornale entra in possesso di notizie scottanti dovrebbe sempre pubblicarli. Così, non è stato e quel compito è stato dunque svolto da Wikileaks e Julian Assange. L'accanimento degli Stati Uniti e del Regno Unito contro Julian Assange ha dunque il sapore della vendetta di un potere costituito contro chi ha violato la consegna del silenzio. Una colpa insopportabile nell'era della comunicazione globale e della Rete.
Certo, sulla testa di Julian Assange pende l'accusa, grave, di stupro da parte della magistratura svedese. Un'accusa che è stata sempre respinta dal fondatore di Wikileaks, che ha visto nel provvedimento aperto da un tribunale svedese un tassello di un complotto per estradarlo negli Stati Uniti, dove è considerato dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato un attentatore alla sicurezza nazionale. Una posizione, questa di Assange, debole, come reticente è la sua spiegazione sui rapporti intrattenuti con le due donne che lo accusano di stupro. Al di là della vicenda giudiziaria è però evidente la volontà degli Stati Uniti di mandare in prigione Julian Assange proprio per il suo «lavoro giornalistico». Per questo, la sua battaglia va sostenuta, perché la libertà di informazione non può avere infatti un limite nella ragione di stato.
Spesso Wikileaks è stata accusata di estremismo, di assenza di responsabilità, di collusione con il «nemico», visto le esternazioni di Assange sul libero mercato come ottimale strumento regolatore della vita sociale e economica. È stata anche data per morta, ma la sua capacità di portare dalla sua parte uno stato sovrano come è l'Ecuador segnala invece la sua capacità politica di produrre una diffusa opinione pubblica in suo favore. Inoltre, la libertà di espressione è una libertà radicale, che agisce in base a un principio di responsabilità che porta a dire che il segreto di stato è una limitazione della democrazia. Di questo è stato sempre convinto Julian Assange. Posizioni che ha espresso nei pochi testi scritti o nei tanti speech pubblici che ha tenuto in questi anni, al punto che è arrivato anche a scendere a patti con i medi mainstream per dare maggiore risalto mondiale alle informazioni che ha voluto rendere pubbliche. Certo, ci sarebbe molto da discutere sulla sua concezione di trasparenza e sulla scelta di pubblicare tutto, lasciando ai singoli di formarsi una propria e autonoma opinione sui fatti che quelle informazioni rendevano noti. E da respingere è la sua illimitata fiducia nel libero mercato. Ma libertà di espressione vuol dire garantire la libertà di chi la pensa diversamente da te. C'è ingenuità, certamente, ma la libertà di espressione può correre il rischio dell'ingenuità. Quello che certo non può contemplare è di accettare i diktat e i limiti che il potere vorrebbe imporre.

 

da il manifesto.it

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