Contributo di Francesco Campolongo – Prc Calabria

Forme dell’egemonia

Il Meridione viene spesso rappresentato come uno spazio politico e sociale in cui la crisi economica si associa ad un deserto “civico”, un decadimento civile e morale esemplificato dalla corruttela delle classi dirigenti e dal potere totale delle organizzazioni criminali. Un “paradiso abitato da diavoli” in cui anche le manifestazioni di resistenza (soprattutto quando particolarmente indisciplinate e magari illegali) vengono spesso tacciate di subalternità (antipolitica, ribellismo, incoscienza) o additate come criminali (manovrate direttamente o indirettamente dalle organizzazioni criminali). Ricordiamo ancora la rappresentazione mediatica dei comitati della terra dei fuochi divisa tra chi li descriveva come strumentali alle organizzazioni mafiose e chi li riteneva una manifestazione arcaica di cafoni “nimby” che si opponevano alla modernità degli inceneritori.


Questa ricostruzione dominante contribuiva (e contribuisce) all’idea di uno spazio politico saturo, senza possibile alternativa se non quella legalitaria e meritocratica incarnata dalla società civile e dalla sua apologia, cosi da ricondurre qualsiasi forma di lotta all’interno del paradigma neoliberista (securitario, individualista e competitivo). Questo ordine del discorso poggia sulla costruzione di un modello antropologico meridionale subalterno: un meridionale intrappolato tra la presunta connivenza endemica col sistema affaristico clientelare, figlia del “familismo amorale” e della scarsa “tradizione civica” (come sostiene una parte della sociologia), e fisiologicamente tendente alle scorciatoie e all’illegalità. I drammatici indici economici e sociali non sarebbero altro che il termometro puntuale del deserto civile e culturale, del lassismo e della furbizia, dello strapotere mafioso dato dalla “cultura dell’omertà” e della colpevole connivenza dei meridionali.
Con termini diversi lo stesso ordine del discorso è usato in tutta l’area euromediterranea contro i “fannulloni” e “spendaccioni” dei pigs, rivelando come la mezzogiornificazione dell’Europa non indichi solo la convivenza gerarchica tra economie a due velocità ma anche la costruzione di una narrazione “egemonica” della crisi in cui il punto di vista dello sfruttatore viene interiorizzato dallo sfruttato e diventa dispositivo di impotenza. Il meridionale d’Europa percepisce la sua situazione come manifestazione d’inferiorità sociale e culturale data da una posizione di arretratezza nel percorso lineare dello sviluppo contrapposta all’efficienza dei paesi del Nord. Questo discorso, sommato al dispositivo di individualizzazione della crisi per cui i soggetti introiettano le responsabilità “sistemiche” come fallimenti personali, produce la parziale cancellazione della dimensione politica della crisi, non più intesa come prodotto dello scontro tra interessi organizzati e antagonisti ma come una una sorta di partita “antropologica” in cui il conflitto diventa ribellismo conservatore contro la “modernità”. Allo stesso modo l’austerità diventa la medicina amara ma necessaria per raggiungere i punti più alti dello sviluppo sulla linea retta tracciata dal neoliberismo.
Per anni, proprio nella convinzione di una furiosa rincorsa all’idea “lineare” e gerarchica dello sviluppo, il meridionale è rimasto spesso intrappolato nell’accettazione di un lavoro che era la negazione stessa della vita, immediatamente distruttivo e insostenibile. L’Ilva è la punta di un iceberg fatto da micro e macro disastri ambientali che descrivono un territorio destinato alla “messa a valore delle esternalità negative” del capitalismo: che siano le navi cariche di rifiuti tossici delle rispettabili multinazionali europee del nord “sviluppato” da affondare nei mari grazie al ruolo attivo dello stato e dei poteri criminali o la costruzione di enormi impianti dediti alla produzione ed esportazione energetica il Meridione diventa il luogo dell’insostenibile che diventa possibile, che diventa addirittura indispensabile perché fondamentale per i livelli occupazionali (regolari o informali). La declinazione dell’emancipazione meridionale come rincorsa ai punti più avanzati dello sviluppo capitalista e il ricatto occupazionale hanno costituito l’humus ideologico e strutturale del disciplinamento sociale (non che non ci siano stati elementi di contraddizione, lotta e contesa).
La sfida del soggetto
Ritengo che il ruolo del forum sul mezzogiorno sia proprio quello di scrutare con attenzione resistenze, rotture e prospettive della costruzione di una soggettività “indisciplinata” che va colta in forme potenziali e non compiute, seguendo tracce di lavoro in cui provare ad agire un ruolo, rintracciando carsicamente punti di rottura dei meccanismi sopracitati ed elementi di coagulo di una massa critica variegata e debolmente connessa.
Rispetto a questo il Meridione attuale presenta elementi interessanti che indicano cesure (se pur tendenziali, deboli e ambigue) rispetto al recente passato e alla narrazione sopra indicata. La moltiplicazione di comitati ambientali smentisce l’ipotesi di un meridione passivo e pacificato ma ci impone coordinate analitiche diverse da quelle classiche della partecipazione politica (elettorale, partitica e ideologica), rivelando al contempo delle crepe nell’egemonia discorsiva sopraindicata e nell’accettazione di ricetta che paventi “sviluppiste”.
Dalla critica alla gestione emergenziale del ciclo dei rifiuti agli impianti energetici (passando per tantissimi altri casi) il terreno della salute e dell’ambiente diventa spazio rivelatore dell’insostenibilità del sistema. Lo sbocco politico sono forme di organizzazione politica (comitati) impregnati dei valori della democrazia diretta (con una buona dose di antipolitica) ma che l’accusa di “nimbysmo” ha spesso costretto ad una salto di qualità in termini di proposte e analisi. Sempre più spesso questi comitati propongono soluzioni generali perché si scontrano con l’impossibilità di affrontare la singola vertenza al di fuori di una complessiva revisione di interi settori per cui la battaglie contro le discariche diventano presto la richiesta di un diverso sistema di gestione dei rifiuti (rifiuti zero), la contestazione di alcuni impianti energetici si evolve nella consapevolezza di un sistema energetico alternativo ma, soprattutto, la necessità di fronteggiare il ricatto lavorativo spinge i comitati ad elaborare i vantaggi occupazionali della sostenibilità. Il turismo sostenibile, la raccolta differenziata e l’investimento nelle rinnovabili rappresentano alcune delle proposte più comuni del repertorio (spesso ambiguo e semplificato) in cui dal basso si arriva a saldare la questione ambientale a quella lavorativa.
Il processo di mobilitazione dei comitati produce elementi di partecipazione in tendenziale controtendenza alla passivizzazione dominante. La richiesta di partecipazione diretta da una parte sfida positivamente l’idea della delega totale anche se spesso asseconda un’idea di mobilitazione e partecipazione tesa a stigmatizzare il potere, controllarlo e denunciarlo senza mai porsi il problema di conquistarlo e modificarlo. La rete di comitati e il loro lavoro politico e culturale svolto in questi anni rappresenta una base importante da cui partire per immaginarsi proposte che intreccino percorsi, ne valorizzino punti di forza e provino a colmarne limiti sapendo che la partita del soggetto è apertissima, che ad oggi tutto questo segnala solo percorsi potenziali e non rivela un soggetto “rivoluzionario” bello e pronto.
Il compito fondamentale della Carovana dei conflitti penso debba essere proprio quello di costruire e rafforzare connessioni tra comitati, rivelarne l’antagonismo irriducibile al quadro normativo e istituzionale attuale ma, soprattutto, se attraversata con delle proposte efficaci, può essere il tentativo della costruzione di uno spazio aperto e di rottura basato su poche proposte chiare ma capaci di intrecciare il “Senso comune” dei comitati.
Proposte
Se la disoccupazione e la precarietà (nella sua forma complessa che va analizzata soprattutto nella dimensione del lavoro informale) sono la pietra angolare dei dispositivi di disciplinamento sommariamente analizzati penso che il piano per il lavoro e la proposta di un reddito di base possano essere le due proposte con cui provare a costruire connessioni, potenzialmente capaci di avere un’eco “popolare”.
Bisogna riprendere il nostro piano per il lavoro articolandolo innanzitutto con uno slogan chiaro, breve e che abbia immediatamente un riferimento numerico (ex. Un milione di posti di lavoro). Poi, nel dettaglio, questo per come già strutturato incrocerebbe in parte le stesse proposte costruite dai comitati integrandole anche sul terreno della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Assieme al piano per il lavoro è necessario sostenere la proposta di un reddito di base capace di connettere precarietà, disoccupazione e lavoro informale (mi rendo conto della possibile ridondanza di alcuni concetti qui sommariamente enunciati). Queste due proposte possono costituire l’asse portante di un proposta politica “popolare” (nei termini di comprensibilità e di potenziale consenso), inclusiva e capace di vivere in slogan facili ma capaci di rendere facilmente l’idea di una divisione tra un noi “sfruttato” e un loro “sfruttatore”, tentando di “cortocircuitare” il meccanismo che lega ricattabilità-subalternità-impotenza.
Queste due proposte devono vivere contemporaneamente come elementi di proposta istituzionale (da declinare a tutti i livelli amministrativi) e come repertorio di pratiche conflittuali e ricompositive (reddito è anche riappropriazione) che intervengono nello spazio fondamentale della ricostruzione dei rapporti di forza reali intesi come capacità di offesa e resistenza degli ultimi. Questo è lo spazio necessario per innescare processi di soggettivazione e per la costruzione di luoghi della partecipazione inclusivi e solidali, che hanno la necessità di alimentarsi di orizzonti praticabili e raggiungibili (le proposte), da agire a tutti i livelli (dal comunale allo statale, nel sociale e nel politico nonostante questa divisione sia molto discutibile), nelle istituzioni e fuori intercettando elementi ed esigenze presenti nel senso comune.
Dal punto di vista operativo questo vuol dire declinare programmaticamente per ogni livello amministrativo (comunale, regionale e nazionale) una serie di proposte sul reddito e lavoro praticabili. Cosa e come fare per costruire reddito e lavoro? Cosa e come fare per declinare programmaticamente ad ogni livello la nostra proposta? Come organizzare anche fuori dalle istituzioni produzione e riappropriazione di reddito? La risposta a queste domande potrebbero diventare un elemento di caratterizzazione politica e la base di una piattaforma unitaria su tutti i territori.
La proposta complessiva e le sue articolazioni per livelli ammnistrativi potrà essere anche la base su cui costruire comitati di scopo territoriali che si intreccino con le realtà già esistenti. Nel materiale organizzativo prodotto bisognerà inserire anche elementi sull’organizzazione delle mobilitazioni, con spunti di esperienze pregresse, agili e brevi manuali di difesa dalle conseguenze legali e/o dalla paure legittime che spesso alcune forme di mobilitazione (occupazioni, picchetti, ecc.) incutono per le loro (vere o presunte) conseguenze penali.
L’adozione di pratiche di disobbedienza e illegali al meridione assieme all’intervento politico in alcune realtà (nei famosi quartieri in cui “il sole del buon Dio non da i suoi raggi”) pongono un'altra questione fondamentale. Il terreno della lotta per il lavoro e il reddito è l’unico terreno capace di erodere il potere delle organizzazioni criminali, di attaccare la base di consenso e il ruolo di mediazione politica e sociale che svolgono nel meridione le mafie riuscendosi spesso ad accreditare come spazio esclusivo dell’emancipazione dei subalterni. Nella precarietà dequalificata di alcuni settori sociali l’immaginario collettivo neoliberista dell’imprenditore di se stesso trova nell’organizzazione mafiosa una presunta possibilità di ascensore sociale, capace di garantire un “welfare” per gli affiliati ma soprattutto di prospettare possibilità di carriera, del raggiungimento in termini di status e consumi dei modelli sociali di riferimento. Tutto questo, unito alla all’apologia mediatica di alcune figure criminali, fa si che non sia solo la povertà il terreno di costruzione del consenso mafioso ma sia la conseguenza di un incrocio tra le condizioni sociali ed economiche di alcuni soggetti e l’immaginario neoliberista. Potremmo dire che l’individualismo competitivo di molti precari dequalificati trova in questa forma storica di accumulazione particolarmente idonea alle “periferie dell’impero”, capace di tenere assieme organizzazione del consenso, controllo della violenza sul territorio e mediazione economica e sociale lo sbocco di un presunto ascensore “sociale”.
Il terreno delle attività illegali al meridione è lo spazio in cui si incrociano attività informali necessarie per la sopravvivenza di molti e le attività delle organizzazioni criminali, in cui molti soggetti condividono alcuni immaginari tossici e sono bordeline. Una parte importante del nostro lavoro dovrebbe focalizzarsi sulla necessità di indagare questo immaginario per smontarlo e non lasciare il precariato dequalificato alle sirene delle organizzazioni criminali. L’ipertrofia mediatica del securitarismo e la legislazione speciale di questi anni hanno ridotto la criminalità organizzata ad una questione di mero ordine pubblico, di semplice repressione penale rafforzando un approccio “legalitario”. Ma la divisione manichea tra buoni e cattivi segnata dallo spartiacque legalitario non ci permette di cogliere la complessità di alcuni processi e ci impedisce di percepire le potenzialità di alcuni settori sociali vessati dalla crisi.
Una proposta che agisca sul terreno del lavoro e delle lotte per la riappropriazione può risultare più facilmente comprensibile e attraversabile da tutti, può risultare “ripoliticizzante” per settori sociali che non possono essere esclusi da un blocco sociale della trasformazione (come propone una certa rappresentazione della società in cui da una parte c’è la società “civile”, buona e incensurata, e dall’altra la società impresentabile degli illegali). Per quanto possa essere brutta, sporca e cattiva, è anche in questa composizione che dobbiamo intervenire per costruire un blocco sociale all’altezza della fase.
Una proposta di reddito e lavoro è anche un proposta di emancipazione e autonomia dal potere delle mafie, un promessa di liberazione che sposta il terreno della lotta alle organizzazione criminali sul terreno delle lotte sociali.

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