120925polverinidi Alberto Burgio
La governatrice del Lazio ha rassegnato le dimissioni. Tanto doverose quanto insufficienti per sanare una democrazia ferita. Al punto che l'idea stessa di rappresentanza suona ironica. Oggi la casta è sinonimo di separatezza, oltre che di corruzione. Nei suoi comportamenti si manifesta la malattia terminale di un sistema politico in sfacelo. Fallimentare sul piano dei risultati materiali e impresentabile sul terreno morale e «antropologico».
È un fenomeno talmente grave, che il discorso morale non basta più. Talmente organico che ricondurlo al solo profilo (im)morale dei protagonisti sarebbe riduttivo. Assodata l'esigenza di punire il malaffare, restano aperte altre questioni. Se l'impressione che in Italia la corruzione politico-amministrativa abbia passato il segno ha fondamento, occorre riflettere su due fattori: la qualità della «classe politica» e le occasioni che le vengono offerte di abbandonarsi a comportamenti indecenti. Si tratta di aspetti connessi perché nessuna tentazione potrebbe fare breccia in un incorruttibile e perché gran parte di quelle tentazioni sono generate in piena autonomia da quanti ad esse cedono. Come dire che qui Sant'Antonio è il diavolo stesso.

Le tentazioni sono troppe. Per cui «fare politica» è ormai, per molti, una carriera: il mezzo per conquistare uno status e fare bella vita, tra case di lusso e vacanze pagate, vitalizi e tesoretti in banca. Quanto alla classe politica, la sua scadente qualità ha cause oggettive. La politica - l'insieme delle istituzioni rappresentative in primis - non attrae più la parte migliore del paese, la più colta, la più capace, la più sana. Non vi riesce più perché è sempre meno il luogo della sovranità. La quale è migrata verso le tecnocrazie e le burocrazie (sempre meno nazionali, sempre più europee e «globali») e verso i mercati (il Senato virtuale dei detentori di capitali finanziari e i signori delle imprese transnazionali).
In sintesi, l'élite va dove si comanda. La politica, marginale, è lasciata a figuranti, e trovarli è facile, considerate le tentazioni di cui stiamo dicendo. Le quali svolgono un ruolo sistemico. Qui un primo cerchio si chiude. La corruzione è il costo dell'emarginazione delle funzioni rappresentative. La classe politica ha accettato la propria riduzione a mansioni subordinate in cambio di vantaggi materiali.
Che in tale situazione la politica attragga tanti mediocri e qualche mascalzone non è motivo di sorpresa.
Ma in questo discorso la subordinazione delle istituzioni rappresentative non è solo un dato di partenza, è anche un obiettivo. E la corruzione di politici e amministratori pubblici non è solo conseguenza della subordinazione delle assemblee elettive, è anche uno strumento per perfezionarla. Qui si apre un secondo cerchio, il più importante.
Rispetto alla Prima repubblica, lo svuotamento di sovranità delle assemblee elettive è già enorme. Le leggi le fanno i governi, a loro volta vincolati dalle direttive comunitarie. L'agenda politica è in buona misura stabilita in sedi sottratte al controllo democratico. I nostri rappresentanti non ci rappresentano nel processo di formazione delle decisioni perché ne sono esclusi o vi svolgono ruoli subordinati, di ratifica formale. Ma questo processo non è ancora concluso.
Le funzioni di ratifica non sono eseguite sempre in modo efficiente. La classe politica spesso alza il prezzo, talora tenta di interferire nelle direttive superiori. Per non dire che potrebbe ribellarsi e rivendicare autonomia. Insomma, il processo dev'essere portato a compimento, magari attraverso una drastica selezione censitaria (a questo servirebbe abolire il finanziamento pubblico dei partiti).
Qui entra in gioco l'opinione pubblica e la corruzione assume così un ruolo decisivo. Fino a Tangentopoli, era una faccenda perlopiù segreta. Di tanto in tanto scoppiavano scandali. Ci lasciò le penne persino un presidente della Repubblica (Leone, per l'affare Lockheed). Ma è all'inizio degli anni novanta che la corruzione diventa una componente strutturale del discorso pubblico. La concomitanza di questo fenomeno con l'implosione della Prima repubblica (la fine della centralità del parlamento e dei partiti di massa) e la nascita della Seconda (bipolarismo coatto e spostamento del baricentro sul governo) non è casuale. Da questo momento, della corruzione politica si parla con insistenza sui giornali. La si serve quotidianamente al banchetto delle passioni pubbliche. Dei risentimenti e della rabbia di una società sempre più spaventata. Conquista l'immaginario collettivo proprio mentre si comincia a trasformare il sistema politico in senso oligarchico-tecnocratico. Se si considera questa concomitanza, si comprende la funzione della corruzione e del discorso pubblico sulla corruzione come vettori di un cruciale processo di trasformazione.
Pensiamo all'irresistibile successo del best-seller di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella. Quel libro sta dentro un triangolo del quale è un vertice: c'è la politica corrotta (la «casta»), c'è l'opinione pubblica, e c'è la stampa, a cominciare dagli autori della denuncia, cavalieri senza macchia e senza paura. Il tutto dà vento alle vele della transizione post-democratica. Il partito degli antipartito miete consensi travolgenti. Il parlamento appare luogo di mercimonio, culla di una «partitocrazia» parassitaria e proterva, come non si stanca di lamentare un partito che su questa campagna lucra fortune identiche a quelle di ogni altro. Vista così, la corruzione non è più tanto una malattia. È essa stessa un soggetto politico, un protagonista della transizione. Non ci fosse, bisognerebbe inventarla.
Proviamo a trarre qualche conclusione. La prima è che i corrotti fanno parte a buon diritto di quanti fustigano la casta, reclamano la gogna, si appellano all'élite per un repulisti meritocratico. E, finalmente, invocano il passaggio organico alla sovranità dell'esecutivo nel nome della «tecnica». Rizzo, Stella, Grillo, Scalfari e Monti - tra loro assai più prossimi di quanto non confessino o sospettino - dovrebbero concedere ai vari Lusi e Fiorito la tessera onoraria del Partito dei rottamatori della Repubblica costituzionale. Il loro contributo alla transizione nel nome del merito, dell'austerità e della governabilità (a ciascuno il suo feticcio) è d'inestimabile valore.
La seconda osservazione riguarda i gruppi dirigenti. Se quanto abbiamo detto ha un senso, la politica non è stata avvelenata più di quanto non si sia distrutta con le proprie mani. Su chi gravano le principali responsabilità, se non sui capi dei partiti, a cominciare dai maggiori, che prima hanno modificato le regole della rappresentanza in modo da ridurre il parlamento a un bivacco di obbedienti manipoli, poi hanno intasato le Camere di lacchè, ai quali non pare vero di essere ricoperti di soldi in cambio di un'impune obbedienza?
La terza e ultima osservazione riguarda noi, spettatori nauseati e incolleriti di tanto schifo. Ci avviciniamo a elezioni pericolosissime. Può succedere letteralmente di tutto. E in questo scenario il combinato antipolitica-tecnocrazia gioca da protagonista: l'una denuncia le vergogne dell'ignobile casta politica, l'altra trae dalla pubblica indignazione legittimità per la macelleria sociale e per la protezione delle nobili caste sociali, di cui nessuno parla. Noi, in mezzo, dovremmo capire che da questo gioco abbiamo tutto da perdere. Perdiamo dalla mortificazione del parlamento, che non offre resistenza alla distruzione di quanto resta dei diritti sociali e del lavoro. E perdiamo dalla strumentale crociata anticorruzione, che porta acqua al mulino delle forze che una classe politica asservita favorisce.
C'è forse un terzo che possa sottrarci a un gioco in pura perdita? Diciamo che ci sarebbe, se esistesse davvero una sinistra - unico virtuale presidio della Costituzione - e non un accrocchio di forze litigiose e impotenti, per ciò stesso oggettivamente colluse con la regressione in atto. Come dire che nemmeno la sinistra, nemmeno noi che non riusciamo a imporre un'inversione di tendenza, possiamo dirci estranei al gioco al massacro sulla pelle della democrazia italiana.

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