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di Alfonso Gianni
Si aprono settimane davvero decisive per la Grecia, per l’Europa, per il futuro dell’euro. Non solo perché il 17 giugno si rivota nel paese ellenico, ma soprattutto perché la crisi nel frattempo ha continuato a macinare le sue terribili logiche e a provocare i suoi danni.
Il tentativo di attribuire quanto potrebbe avvenire nel vecchio continente – e già avviene con il peggioramento della situazione economica e delle previsioni per il futuro – sull’esercizio stesso di un atto elementare di partecipazione popolare quali sono le elezioni politiche, la dice lunga sulla crisi profonda di democrazia accentuata dai processi della crisi economica.

E’ chiaro che tanto le cancellerie europee, quanto i mercati si apprestano a gridare allo scandalo se dalle urne greche dovesse emergere, come è probabile oltre che auspicabile che accada, una più netta e determinante affermazione di Syriza, la formazione della sinistra radicale. Poco importa che questa abbia scelto nettamente la strada della permanenza in Europa e nell’euro. Un capro espiatorio va comunque trovato.
Ma le responsabilità stanno altrove e le formazioni della sinistra europea dovrebbero dirlo con ben altra forza. Dopo ben 24 summit europei la crisi greca non ha trovato soluzione e neppure si è riusciti a invertire la tendenza al peggioramento dell’economia su scala continentale. Il prossimo 25° incontro non fa prevedere esiti migliori. Ma non è colpa del destino cinico e baro. E’ colpa delle politiche fin  qui attuate nella Ue. La logica del rigore ha portato a incancrenire la malattia.
Se un intervento meno miope e taccagno fatto per tempo sarebbe costato all’Europa non più di trecento miliardi di euro, ora il default greco può provocare come minimo uno sconquasso da mille euro, secondo autorevoli fonti di calcolo. Senza contare, però, che nessuno è in grado di valutare realmente quanto possono costare gli effetti del cosiddetto  contagio, al quale certamente il nostro paese non potrebbe sfuggire. Questa è la ragione per cui Jean Paul Fitoussi torna ad ammonire che le conseguenze di un default greco sarebbero probabilmente più gravi per l’Europa che non per la Grecia stessa.
E’ ormai consapevolezza diffusa tra gli analisti economici di ogni colore che la Grecia non è in grado di pagare il suo debito pubblico, neppure dopo il taglio del 50% dei mesi scorsi. Né tantomeno può rispettare le regole draconiane che le sono state imposte. Se non ci saranno nuovi finanziamenti, lo stato greco sarà nella impossibilità pratica di pagare stipendi e pensioni, visto che nelle sue casse sono rimasti solo 2,5 miliardi di euro.
La richiesta di Syriza, ossia di rinegoziare interamente il cosiddetto pacchetto di aiuti a suo tempo concordato con la troika (ossia Fmi, Bce e Ue), appare dunque come la via assolutamente più realistica. Se questo non avviene, il default incontrollato è certo e con esso l’uscita della Grecia dall’Euro.
Tecnicamente la cosa non sarebbe di per sé necessaria. Ovvero è possibile che un paese sia insolvente e che continui a stare in un sistema di moneta unica. E’ il caso del Minnesota e della California, la cui insolvenza non comporta la fuoriuscita dal dollaro. Ma gli Usa sono uno stato federale e la loro banca centrale svolge un ruolo di garante e di prestatore in ultima istanza. Cosa che in Europa non avviene.
 
La contraddizione è clamorosa: il sistema europeo non prevede alcuna possibilità di uscita concordata dall’euro, che quindi può avvenire solo per via traumatica; la scelta della moneta unica è irreversibile; ma allo stesso tempo non vi è alcuna rete di salvataggio preventivamente disposta per evitare il default di uno stato, essendo il fondo di recente costituzione del tutto insufficiente e inadatto. Solo il cambiamento radicale della missione della Bce  potrebbe servire a tale scopo e in prospettiva ancora più la trasformazione della Ue in un’entità federale a tutti gli effetti. Tempi lunghi in entrambi i casi.
Intanto siamo sull’orlo del baratro. Il ritorno alla dracma non sarebbe indolore. Già la sostituzione fisica della moneta non è un problema da poco. La svalutazione sarebbe assai forte e in assenza di una possibilità di esportare – visto che al di là del turismo l’attuale economia greca offre poco – non porterebbe i desiderati vantaggi. L’accessibilità al credito internazionale sarebbe preclusa per lungo periodo. La Grecia riottenerebbe sì la sovranità monetaria, ma al prezzo di un rilancio dell’inflazione. Eppure, al limite, con una sapiente azione di governo, le conseguenze di quest’ultima potrebbero essere persino più contenute del programma di lacrime e sangue imposto dalla troika.
Sarebbe l’Europa in realtà ad avere la peggio da un default della Grecia. La moneta unica perderebbe di credibilità, alimentando tutte le possibili manovre speculative. I primi ad esserne colpiti sarebbero i paesi del Mediterraneo, come Portogallo, Spagna e naturalmente Italia.
A questo punto l’euro non potrebbe reggere e con esso neppure quell’Europa che fin qui abbiamo conosciuto. Le ipotesi alla Beppe Grillo di due monete, una forte, cioè il Marco, e un’altra debole destinata  ai paesi del Sud, non reggerebbe di fronte all’inevitabile prevalere della logica dell’ognuno per sé. Già ora la Germania pratica tassi di interesse negativi. Infatti i Bund hanno rendimento nominale pari allo zero, ovvero meno che zero nella realtà, visto che almeno due punti di inflazione ci sono. Malgrado questo, sta attirando capitali nel proprio territorio, accogliendo quelli che fuggono dalle banche dei paesi più deboli terrorizzati da possibili svalutazioni. Sono questi ultimi a finanziare la Germania e non viceversa.
Al contrario una politica di ricerca dell’unità con i paesi mediterranei e con l’Irlanda andrebbe praticata e giocata per modificare radicalmente la politica dominante nella Ue. Per questo è importante il referendum di fine mese che in Irlanda si terrà sullo sciagurato fiscal compact, ovvero l’imposizione di una riduzione forzata del debito dei singoli paesi; che Hollande nel suo difficile tentativo di scalfire la rigidità tedesca non sia lasciato solo e che da noi forze come SEL si siano pronunciate apertamente per la non ratifica del medesimo da parte dei parlamenti nazionali. Le elezioni tedesche, previste nell’autunno del 2013, sono troppo lontane. L’Europa potrebbe crollare prima. Per questo la sconfitta della Merkel e della sua politica va costruita da subito. La differenza fra destra e sinistra sta qui. A nessuno è concesso stare in mezzo.

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