terremoto emilia 7681
di Marco Sferini

La domanda è questa: ma i capannoni dove sono rimasti sepolti i lavoratori modenesi, migranti o italiani che fossero, erano agibili o no dopo l’ultimo terremoto? Rispondere a questa domanda farebbe certamente gravare su alcune coscienze il peso di una parte della morte di questi lavoratori che oggi si contano tra i morti di un martedì di fine maggio dove la terra non ha dato alcuna sosta in un balletto di distruzione e morte reso ancora più macabro dai mancati sensi di colpa di chi avrebbe potuto adeguare strutture e territorio ad eventi di questa natura e non l’ha fatto.
Non sono le colpe qui che mi interessano come elemento di sottolineatura di una negligenza o del padronato o dello Stato. Mi interessa di più domandarmi che tipo di economia è quella che sfrutta la mano d’opera, il lavoro salariato, qualunque lavoro fino all’osso e non si cura nemmeno minimamente delle condizioni in cui fa tutto questo.
Si chiama liberismo e ci ha mostrato il suo volto tantissime volte. Anzi, ogni giorno in tutto il mondo dà il meglio di sé nelle guerre, negli imperialismi più o meno a buon mercato.
E dunque cosa c’entra un terremoto, un evento naturale, impossibile da contenere con le sole forze umane, con l’economia? Apparentemente nulla. Ma nel momento in cui noi ci siamo dati un’organizzazione su questa terra, e siccome questa organizzazione – purtroppo – ad oggi si chiama capitalismo, e siccome prevede la proprietà privata dei mezzi di produzione, sarebbe buona cosa domandarsi come mai la linea sottile che divideva il rischio dalla sicurezza era per i lavoratori modenesi – migranti o italiani non fa alcuna differenza – così davvero tanto sottile da essere spezzata proprio nel punto in cui si trovavano i più poveri, i meno protetti, quelli più esposti a qualunque rischio del loro mestiere ma che mai avrebbero pensato di dover morire sotto il capannone della loro azienda per un terremoto.
Una cosa è certa: l’imprenditoria italiana ha sottovalutato, come lo ha fatto del resto anche lo Stato, l’intensificarsi di questi fenomeni sismici.
La storia del terremoto del 29 maggio 2012 in Emilia Romagna ha come simbolo i capannoni sotto cui sono stati trovati i lavoratori. Ha per simbolo una comunità senza distinzione di religione, di cultura, di nazionalità che si trova unita nel piangere chi è stato indotto ad andare a lavorare in strutture che erano state dichiarate sicure dopo l’ultimo sisma ma che non hanno retto a questo secondo scossone fatto di tanti colpi, di tanti balletti della terra non certo piacevoli, non certo deboli, ma intensi proprio per la loro superficialità, per la loro vicinanza alla nostra realtà, quella di superficie.
I geologi giustamente spiegano le cause del terremoto: se non ha compreso male, da profano, le Alpi e l’Appennino stringono l’Emilia in una morsa. Le Alpi si avvicinano all’Appenino e viceversa. Questo provoca il distacco delle faglie e il prodursi dei terremoti.
Affascinante lo spettacolo della scienza. Ma Quark e Piero Angela sono lontani e qui ci troviamo a parlare di sedici morti (augurandoci che il numero non aumenti) di cui la maggior parte sono quei lavoratori rimasti sepolti sotto strutture che probabilmente sono state troppo presto dichiarate agibili per la ripresa della produzione.
Ma tutto corre, tutto deve correre: l’economia non può e non deve fermarsi, nemmeno se arriva il terremoto.
Così si dichiara che tutto va bene, che tutto può ricominciare e al primo scossone restano sotto le macerie decine di persone. Non è farsa. E’ solo tragedia: ci rimettono sempre i più deboli e i più poveri, anche se un cataclisma – per definizione geofisica e naturale – non guarda in faccia nessuno: ricco o povero, bello o brutto. Proprio come la bomba di “Girotondo” di De Andrè.
La società moderna, occidentale, liberista ha ovviato in parte anche a questo: se sei ricco magari ti comperi una bella villa stile bunker, la fai fare con tutti i crismi antisismici che costano un patrimonio e ti salvi dalla maggior parte dei terremoti. Ma se la tua casa è vecchia o è una casa di quei quartieri dormitorio che sono stati magari pure costruiti con materiali scadenti per fare più profitto possibile su un qualunque appalto comunale, allora ecco che anche una catastrofe assume le connotazioni classiste e diventa una tragedia nella tragedia.
Un’altra economia va costruita proprio per evitare tutto questo anche davanti ad eventi che solo la natura può regola e che l’uomo non può pensare di dominare, ma solo di comprendere con l’aiuto sempre più imprescindibile della scienza. Un’economia che pensi al sociale e non al privato, che investa sul pubblico e non sul profitto, che si dedichi a rafforzare i pilastri morali e materiali della società invece che esaltare i disvalori dell’egoismo capitalistico.
Perché il terremoto diventa un’affare. Un affare per chi ricostruisce, tanto da gioirvi, come ricorda la triste telefonata che faceva sentire due voci sorridenti e brindanti all’apocalisse che aveva appena investito l’Abruzzo. Che resti solo una disgrazia e non diventi una fonte di profitto. Ecco perché un’altra economia serve. Ecco perché la parata del 2 giugno andrebbe sospesa e le risorse impiegate (circa 3 milioni di euro) dovrebbero essere dirottate sui terremotati emiliano-romagnoli. E, del resto, come dice un mio amico, una parata militare andrebbe proibita “a prescindere”. Ma questo è un concetto che affronterò un’altra volta.

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