6g20
di Alfiero Grandi

Ogni settimana c’è un appuntamento internazionale dipinto come decisivo, che però non decide. Il suono delle trombe e delle fanfare che precede incontri come la riunione del G 20 che si è svolta in Messico lascia inevitabilmente il posto alla delusione, all’impressione che chi esercita il potere politico, o dovrebbe farlo, non svolge il ruolo che dovrebbe, che finisce con l’essere subalterno o sulla difensiva rispetto alla finanza internazionale...
Eppure la crisi finanziaria ed economica è seria e anche i paesi meno coinvolti capiscono che se si ferma l’economia di aree decisive del mondo come l’Europa le conseguenze si faranno sentire anche per loro. Infatti anche i paesi in via di sviluppo hanno aperto il portafoglio per aumentare le risorse del Fondo Monetario Internazionale, per tentare di fronteggiare la speculazione finanziaria, con quelli che vengono pomposamente chiamati firewall (muri tagliafuoco).
Il documento conclusivo del vertice non parla di tassazione delle transazioni finanziarie internazionali, non fa menzione dei paradisi fiscali, trascura altri interventi possibili per mettere sotto controllo la finanza internazionale e scoraggiarne la speculazione sui debiti degli Stati. Stati che si sono indebitati per salvare le banche e quindi indirettamente la stessa finanza e ora sono loro oggetto della speculazione. Come dire che viene morsa proprio la mano degli Stati che ha salvato la finanza indebitandosi.
Naturalmente si è discusso dell’esigenza di rimettere in moto l’economia e l’occupazione. Come si potrebbe non essere d’accordo ? Come ? Questo non si capisce. L’auspicio alla ripresa è una mera invocazione che invita gli Stati che possono a darsi da fare, se lo ritengono. In sostanza una preghiera.
Per di più la sostanza del vertice sembra essere racchiusa nel tentativo di riportare l’economia alla situazione precedente alla crisi, cioè di rimetterla in moto senza cambiarne le regole. Anche l’immissione di liquidità, in cui è specialista la Federal Reserve, che può stampare dollari secondo le necessità americane, ora imitata dalla Bce, non è la soluzione perché è come abbondare nel metadone di fronte ad un drogato. Forse è necessario farlo per tentare di fronteggiare la crisi, ma così non si esce dallo stato di emergenza continua.
Il problema di fondo resta quello di mettere sotto controllo una finanza internazionale ipertrofica che in poco più di 2 decenni è passata dall’essere inferiore al Pil mondiale fino a diventare oggi almeno 10 volte tanto. La crisi non ha risolto il problema perché ora la finanza ha ripreso a crescere senza alcun rapporto con l’economia reale, materiale o immateriale che sia.
Ci vorrebbe una nuova Bretton Wood, la sede in cui furono definiti strumenti e regole per evitare il ripetersi della crisi del 1929 e per definire l’architettura finanziaria dopo la seconda guerra mondiale. Lo sguardo degli esponenti del G 20 arriva al massimo a tentare di spingere i partner più robusti a trainare la ripresa per tutti, dimenticando che la ripresa economica è bloccata dalla caduta dei redditi, in particolare dei lavoratori e degli strati sociali meno abbienti, e quindi la domanda ristagna perché la speculazione finanziaria ha rinsecchito le attività economiche reali e spostato seccamente la ripartizione del reddito delle nazioni a suo favore. In sostanza il lavoro ha perso punti della ricchezza nazionale che altri hanno incamerato. La ripartizione del reddito nazionale è un problema ovunque, anche se in alcuni paesi è più grave che in altri. Purtroppo il Presidente Obama, giustamente preoccupato dei riflessi sulle elezioni Usa della situazione conomica, non è protagonista dell’innovazione delle regole per la finanza. Tobin tax e paradisi fiscali, per fare 2 esempi, sembrano argomenti tabù.
Ora l’attenzione si sposta sul vertice europeo. Il rischio flop è forte perché di nuovo ciascuno cerca di salvare sé stesso, senza comprendere che in gioco c’è qualcosa di più del proprio futuro e perfino va oltre il futuro della stessa Europa. In gioco c’è la possibilità di costruire una società che non santifichi la divisione tra un’èlite investita delle decisioni e una maggioranza della popolazione condannata ad essere subalterna. Indignados e Occupy Wall Street hanno posto con forza il problema del rapporto tra l’1 % che trae beneficio perfino di questa situazione di crisi e il 99% della popolazione che invece ne sopporta le conseguenze. In gioco c’è proprio il tentativo dell’1 % di prendere le redini delle soluzioni da dare alla crisi dopo averla provocata. Se ci riusciranno saranno guai seri per il 99 %.

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