di Marco Sferini
La telenovela pecuniaria leghista si lascia dietro uno strascico di anatemi, insulti e improperie contro i partiti e contro il loro ruolo nell’ambito della democrazia repubblicana. Ho sempre cercato di dare anche alle singole parole il peso che spettava loro e per questo penso che il momento storico in cui viviamo è un passaggio dalla considerazione dei partiti come luoghi di rappresentanza dei cittadini nelle istituzioni a luoghi in cui si concentra tutto il male possibile.
Considerare i partiti come “i partiti” e quindi come un insieme inscindibile di fenomeni accomunati dalla corruzione, dal ladrocinio, dalle spese folli con soldi pubblici e quindi privi di qualunque connotazione politica propriamente detta, è una forma di revisionismo dell’attualità e di cambiamento delle regole del gioco su cui si fonda l’intero impianto costituzionale.
dei lavoratori della Yamaha
Giovedì 12 aprile 2012, presso il tribunale di Monza e Brianza (sezione Lavoro), Yamaha Motor Italia ha perso la causa legale intentata da 9 lavoratori del settore commercio licenziati, dopo un anno di cassa integrazione, nel gennaio 2010.
Il giudice del lavoro, Dott.ssa Nardo, ha reintegrato tutti i lavoratori e lavoratrici sul proprio posto di lavoro.
Riteniamo questa sentenza memorabile, una vittoria che premia lo sforzo di tutte quelle persone che, in questa nostra vicenda, hanno sempre e concretamente sostenuto la durissima lotta dei lavoratori Yamaha. La vicenda è iniziata nell’ottobre 2009 quando, a fronte della irresponsabile decisione aziendale di licenziare 66 lavoratori e lavoratrici e chiudere l’intero reparto produzione moto, 4 lavoratori salirono sul tetto della multinazionale nipponica e vi restarono 8 giorni, sotto una fitta nevicata, rivendicando il diritto al lavoro e l’uso degli ammortizzatori sociali che potessero per lo meno attutirne il devastante impatto sociale causato da Yamaha.
di Luca Matteu
Gentile Redazione,
mi rivolgo a voi con un appello accorato, in merito a una grave ingiustizia di cui non è francamente possibile non venga data notizia su scala nazionale…
Il tema, relativo alla neonata riforma delle pensioni, è quello delle cosiddette quindicenni: donne che, «in un periodo lontano anni luce da questo, quando uno stipendio era sufficiente, hanno deciso di lasciare il lavoro per seguire la famiglia, sicure di poter riscattare la pensione e i contributi versati per almeno 15 anni di lavoro» (in alcuni casi, anche con versamenti volontari); donne che nell’ultimo mese, in base alla famigerata circolare 35 del 14/03/2012 (di cui al punto 1.1.2), hanno visto confermato dall’INPS il requisito contributivo di 20 anni per ottenere la pensione minima In questa torma di persone (che perfino con la riforma Amato del ‘92 era stata salvaguardata, e che, lo ricordo, è formata da soggetti per lo più sessantenni senza alcuna concreta speranza di rientrare nel mercato del lavoro), rientrano moltissime donne in tutta Italia a cui nessuno sta dando voce…
di Domenico Moro
1. Dieci anni di arretramenti
Dieci anni fa al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18, si tenne la più grande manifestazione sindacale, tre milioni di partecipanti secondo la CGIL, superata forse solamente dalla manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq. L’articolo 18 fu salvo, con grande entusiasmo a sinistra. Eppure, si trattò di una vittoria tattica, inserita in una sconfitta strategica per il movimento operaio, cioè in un peggioramento dei rapporti dei forza complessivi. Infatti, un anno dopo passò la Legge 30/2003 (Legge Biagi), che, bypassando l’articolo 18, abbassava drasticamente il livello di tutela dei lavoratori. Il grado di protezione del lavoro, già ridottosi con il Pacchetto Treu (varato dal Primo governo Prodi, sostenuto e partecipato anche dai comunisti) crollò al di sotto di quello di Francia e Germania.
Gli esiti delle grandi mobilitazioni contro l’articolo 18 e contro la guerra hanno denotato la medesima difficoltà della sinistra a capitalizzare organizzativamente e politicamente la forte spontaneità di massa.
di Vittorio Malagutti e Giorgio Meletti
Scordatevi il posto fisso”, moraleggiava pochi giorni fa il presidente di Mediobanca, Renato Pagliaro. Nell’occasione si è dimenticato di spiegare all’attonita platea di liceali milanesi come mai nel 2011 la sobria banca fondata da Enrico Cuccia ha premiato l’amministratore delegato Alberto Nagel con 384 mila euro una tantum per i vent’anni di anzianità aziendale. Pagliaro e Nagel certo non sarebbero i testimonial più adatti per convincere i lavoratori italiani a non restare avvinti come l’edera al posto fisso, mentre sono ottimi per dimostrare che quanto a coerenza tra il dire e il fare i grandi manager italiani non sono migliori dei politici.