di Ivan Cavicchi
In una stanza di un grande ospedale pubblico di Roma, due letti, un malato è assistito in intramoenia cioè paga come se fosse in una clinica privata e come se il suo medico curante fosse un libero professionista; l’altro è assistito o dovrebbe essere assistito solo perché ne ha o ne avrebbe diritto. Il primo ha saltato qualsiasi lista di attesa ed è seguito con particolare solerzia il secondo ha dovuto fare una lunga trafila, paga il suo diritto con le tasse e chi lo cura deve tenere conto dei budget, dei vincoli, delle restrizioni, degli standard ecc. Il primo può ricevere le visite dei suoi parenti a qualsiasi ora del giorno, il secondo no. Il primo al pomeriggio prende il the con i pasticcini il secondo guarda. Milioni di malati si rivolgono ogni giorno ai centri di prenotazione per curarsi, i tempi delle liste di attesa sono spesso irragionevoli, molti di loro optano per l’intramoenia e mettono mano al portafoglio. Questa è quella che si chiama “libera professione intramoenia” istituita nel ’99 con la riforma Bindi, scritta dall’attuale ministro della salute Balduzzi, che a quel tempo curava gli aspetti giuridici di quella riforma, risultato di un accordo con i sindacati medici ospedalieri che accettavano di essere sottopagati dal pubblico ma con la facoltà di rifarsi sul privato cittadino.