copertina slotart

di Vittorio Bonanni

Il nuovo libro di Roberto Gramiccia, Slot art machine. Il grande business dell’arte contemporanea (DeriveApprodi, pagg. 247, 17,00 euro) propone al lettore diversi piani di lettura. Non c’è dubbio, tuttavia, che il principale di essi sia rappresentato da un prisma di valutazioni sulla natura truffaldina del sistema dell’arte, sul suo rapporto con l’industria culturale di cui rappresenta un sottoinsieme e sulla funzione egemonica che entrambi esercitano sugli assetti di una cultura sempre meno autonoma e sempre più curvata sugli interessi del neoliberismo.

Sotto questo profilo, lo scopo principale che l’autore si propone è quello di – parole sue – «superare i luoghi comuni sulla neutralità dell’arte e della cultura, sulla libertà degli artisti, sulla fantasia al potere, sull’oggettiva e intrinseca capacità del mercato di selezionare i valori». E’ proprio dalla necessità di smascherare questi imbrogli e questa macroscopica mistificazione che nasce il titolo del libro prendendo a prestito la slot machine, oggetto simbolo di un capitalismo postmaturo e “mascalzone” (più vivo che mai e pericolosissimo) che impone all’immaginario collettivo l’idea del facile arricchimento.

Questo oggetto somiglia al sistema dell’arte, «una macchina, cioè, costruita come tutte le slot per fare soldi imbrogliando la gente e premiando ogni tanto e casualmente qualcuno, allo scopo di mantenere in vita l’illusione di facili guadagni. Nel caso del sistema dell’arte la macchina è truccata due volte, la prima come tutte le slot machine, la seconda perché i soldi non vengono distribuiti a caso ma solo ad alcuni giocatori (gli stessi che l’hanno costruita). Essi sono i grandi mercanti (…), i galleristi più potenti, le case d’asta internazionali, i musei che contano, i collezionisti professionali, le banche, gli interrnational curators che fanno tendenza e la nuova vincente categoria degli artisti manager».

Devo dire che l’efficacia graffiante del titolo corrisponde a un risultato raggiunto. Gramiccia, cioè, attraverso una narrazione rigorosa ma scorrevole e a tratti seducente, smonta e rimonta la macchina del sistema dell’arte, dimostrandone gli interni meccanismi, esclusivamente finalizzati a raggiungere due scopi principali. Il primo è quello di garantire elevatissimi profitti (le case d’asta internazionali non conoscono crisi); il secondo è quello di autolegittimarsi culturalmente contribuendo ad imporre il dogma dell’ultimo millennio: ciò che più vale è ciò che più costa, altro valore non è dato. E così l’arte diventa una merce come le altre, disperdendo ogni suo altro valore altro e, in qualche modo, inverando ciò che Hegel aveva previsto sulla sua morte.

Dirò rapidamente degli altri piani di lettura che rendono questa opera qualcosa di più e di diverso da un semplice se pur utilissima disamina sociologica sui temi prescelti. L’ampia raccolta di scritti, infatti, in gran parte inedita e in parte comparsa su «Liberazione» e altre testate, distribuita in tre parti, oltre a riferire circostanze rivelatrici e probanti rispetto alle tesi dell’autore (paradigmatico il capitolo dal titolo Cloaca Art), ci offre anche una selezione di ritratti veramente appassionante (soprattutto il capitolo sul Cristo del Mantenga e il Che) e un’intera parte sulle idee e le teorie in arte.

Da Antonello da Messina, fino a Jannis Kounellis, passando attraverso Gombrich, Togliatti, Picasso e i maestri del realismo socialista: una carrellata che, attraverso lo spartiacque rappresentato dalla rivoluzione caravaggesca, dimostra ciò che dell’arte ha resistito per secoli e cioè l’attenzione al suo valore intrinseco, universale e metastorico. Lo stesso valore che oggi il mercato tende a triturare polverizzandolo. Dell’ultima parte risulta particolarmente interessante la rilettura critica di una estetica marxista considerata vitale più che mai ma anche suscettibile di interessanti riletture e approfondimenti. Un’ultima ragione per leggere il libro, non ultima per importanza, è rappresentata certamente dalla splendida prefazione di Giuseppe Prestipino che coglie dell’opera, fra l’altro, i riferimenti a Gramsci e alla sua lezione immensa ed eretica rispetto a qualsiasi dogma.

 

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