di Roberta Fantozzi

L’articolo di Guido Viale pubblicato ieri sul Manifesto solleva nodi di fondo sul “se” e il “come” del quarto polo e sugli scenari complessivi della politica in Italia ed in Europa. Vorrei affrontarli partendo da un’autodenuncia, quella di essere iscrivibile nella categoria dei dinosauri, in quanto parte della segreteria di un partito, nella fattispecie Rifondazione Comunista. Secondo alcuni probabilmente, i capofila dei dinosauri, combinando insieme l’essere partito e l’essere comunista, in coppia quanto di più d’antan possa darsi. Tuttavia su questo vorrei tornare più avanti, convinta come sono che si dovrebbe cercare di mettere in ordine i ragionamenti secondo una gerarchia di priorità, che per me ha, alla sua testa, tutt’altra urgenza. Un’urgenza che si riassume in una domanda.

Quale sarà il rapporto tra politica e società in Italia tra qualche mese, compiuto il passaggio elettorale, nel mezzo di una crisi profondissima e in relazione alle dinamiche prevedibili del quadro politico, pur nelle fibrillazioni dei soggetti che compongono quel quadro? I vari “l’uscita dalla crisi è vicina” o “c’è una luce in fondo al tunnel” con cui il mainstream politico-mediatico anestetizza coscienze e comportamenti da quasi un quinquennio ormai, sono facilmente identificabili per quello che sono: operazioni di pura propaganda. La realtà è che le scelte adottatate in Europa per rispondere alla più grave crisi economica da quasi un secolo a questa parte - una crisi che è esito del neoliberismo cioè della forma assunta dal capitalismo negli ultimi trent’anni - non fanno che riproporre in forma sempre più estremistica le politiche che della crisi sono causa. Nessuna reale riregolamentazione della finanza, distruzione di ogni diritto del lavoro, nuove privatizzazioni. Trasformato il debito di banche e finanziarie in debito pubblico, capovolta l’imputazione di responsabilità della crisi, al centro dell’attacco è ogni residuo bene pubblico, dai servizi locali a quel che resta del welfare. Sono politiche che trovano nel Fiscal Compact la loro folle sintesi, che stanno producendo e produrranno tanto un’inasprirsi mai conosciuto di spoliazioni e disuguaglianze, quanto il peggioramento drammatico della crisi. L’alleanza dei democratici e progressisti, in cui scompare ogni riferimento persino simbolico alla sinistra, pone a base del proprio programma di governo, il rispetto dei vincoli internazionali sottoscritti dal governo Monti, cioè del Fiscal Compact, modificabile eventualmente solo in sede europea, e che il maggior rappresentante del PSE governante Francois Hollande, ha ratificato, pur avendo affermato in campagna elettorale che sarebbe stato oggetto di ricontrattazione. Peraltro Bersani, in giro per l’Europa per accreditarsi agli occhi dei mercati finanziari e contenere gli effetti della possibile scesa in campo di Monti, si fa garante quanto mai esplicito della continuità con quelle politiche, che certo cercherà se possibile di temperare, in cui certo lavorerà se possibile per introdurre qualche minore iniquità, ma la cui direzione di marcia resta definita. Del resto “l’articolo 18 è una partita chiusa”e pure l’articolo 8 che il “patto sulla produttività” finanzia sostanziosamente. Non so se pecco di pessimismo, ma il quadro che può determinarsi nei prossimi mesi a me pare di pericolosità estrema. Il PD al governo nel quadro delle compatibilità di questa Europa, la destra all’opposizione con tutta la carica populista scatenata, Grillo fin qui catalizzatore di malcontenti ed “alterità” in possibile crisi, dentro un quadro economico e sociale che continua a deteriorarsi. Sono tra quelle che pensa che “cambiare si può”, ma soprattutto si deve. Che la responsabilità sia prima di tutto, non di portare su un taxi qualcuno in Parlamento per i destini quasi privati di “ceto politico”, di questo o quel partito, di questo o quel movimento (giacchè anche i movimenti producono ceto politico), ma di impedire che nel tempo terremotato in cui viviamo, sia assente nuovamente dallo spazio pubblico la voce di chi può costruire un’altra narrazione della crisi, un’altra individuazione delle responsabilità, un altro punto di riferimento alla disperazione crescente, un’altra ipotesi di modello sociale. E che questo sia urgente per impedire che nazionalismi, populismi, razzismi, diventino i canali velenosi in cui si esprime quella disperazione. Avendo bene in chiaro che essere in Parlamento non è che un passo in quella direzione, necessario ma insufficiente. Che può aiutare ma non certo risolvere il problema di come costruire resistenza e conflitto, solidarietà e progetto. Per fare questo, i taxi non servono, perché sono mezzi di trasporto piccoli e privati. Ci vuole perlomeno un pulmann, fosse anche non perfetto, ma che sia capace di tenere insieme un arco sufficientemente ampio di forze, certo non a scapito di una direzione di marcia, le cui uniche bussole possono essere l’autonomia netta dal PD, il primato dei contenuti,  la scelta strategica della democrazia non solo per fare le liste ma per regolare, poi, i rapporti tra quei rappresentanti e chi li ha espressi. Non è interesse dei partiti, certo non di Rifondazione, produrre “una occupazione delle liste” a discapito delle “candidature espresse dai movimenti, dai comitati, dagli studenti, dai Gas, dalle fabbriche in lotta”. Non lo è perché fuori da ogni mistica della “società civile buona” contro la “politica cattiva”, è interesse di quel pulmann mostrare che si vuole rimettere in connessione società e politica, lotte e rappresentanza, movimenti e istituzioni. A partire dalla rottura di quella sorta di vero e proprio apartheid che vede lavoratrici e lavoratori dipendenti, cioè la stragrande maggioranza della paese, totalmente espunti dalle aule parlamentari, a meno di essere, ed è il solo caso che mi viene in mente, sopravvissuti ad una strage sul lavoro. Ma non è nemmeno possibile pensare che le strutture collettive esistenti possano diventare un “comitato di sostegno”, nascondendosi perché inguardabili, come se indistintamente dovessero espiare chissà quale colpa. Forse sarebbe utile un supplemento di riflessione su cosa ha prodotto la crisi attuale delle formazioni che non si sono allineate. Se conti qualcosa nella vicenda dell’IdV, oltre ai limiti soggettivi che ci sono tutti, l’operazione di killeraggio politico-mediatica scatenata per aver disturbato troppo il manovratore. O se conti qualcosa nella attuale debolezza delle forze di sinistra a partire da Rifondazione, oltre ai limiti soggettivi che ci sono tutti, la continua serie di rotture che si è prodotta a partire dalla imposizione del maggioritario e del bipolarismo,vera e propria camicia di forza della società oltre che della politica. Quel maggioritario che ad ogni giro ha riproposto, nel tempo del berlusconismo, la dialettica micidiale tra sussunzione ad un centrosinistra sempre più centro, e marginalità se non collusione col nemico. Non è un caso che la sinistra radicale viva in Europa laddove i sistemi hanno mantenuto un fondamento proporzionale. Non abbiamo da nasconderci per aver visto qualche anno fa che il ciclo dei governi di centrosinistra aveva prodotto esiti fallimentari, che l’Europa costruita in modo bipartisan da popolari e socialisti necessitava di una proposta di alternativa radicale e di una collocazione netta dunque con la Sinistra Europea, né dell’aver diffidato del leaderismo come soluzione al problema della polverizzazione sociale e della crisi del rapporto tra politica e società. Né abbiamo da nasconderci per esserci collocati da subito all’opposizione del governo Monti, cercato di alimentare mobilitazioni e conflitto, passato gli ultimi messi a raccogliere firme per i referendum su lavoro e pensioni. O per aver osato schierarsi a sostegno di De Magistris prima e Orlando poi, quando i più non osavano. Ma forse persino più in profondità, il punto è quale sia l’idea di democrazia che abbiamo. I soggetti collettivi organizzati sono per noi strumento indispensabile della democrazia, che non è riducibile a soli movimenti né alla partecipazione dei singoli. L’idea di democrazia che abbiamo si alimenta di corpi collettivi, movimenti, singoli e fa della costruzione di uno spazio pubblico comune e della democrazia come regola che lo governa, il modo per superare diversità e divergenze e produrre decisioni. E’ quello che dovremmo fare anche con le liste tanto più che il tempo che abbiamo pare oggi consentirlo, trovando meccanismi che sappiano far vivere le diverse istanze a partire dal carattere innovativo della rappresentanza, senza imporre cilici a chicchessia.  Tanto più che “cambiare si deve” e “si può”.  La ricchezza dell’assemblea del 1° dicembre e delle assemblee territoriali, a cui in molti abbiamo contribuito, la condivisione “facile” dell’appello che ha lanciato il percorso, parlano di culture politiche, oltre la lista, che in realtà molto hanno in comune. Non è solo la convergenza scontata sul taglio alle spese militari o alle grandi opere, o sulla redistribuzione e i diritti del lavoro. E’ un’idea di risposta alla crisi e di trasformazione, in cui il pubblico è sociale e “comune”, in cui la soggettività delle persone è il punto di partenza di ogni cambiamento, in cui lo “sviluppo” non è la crescita, in cui la democrazia è mezzo e fine… Io lo chiamo comunismo, ma mica pretendo di convincere altri.  Cambiare si può ed il tempo è ora.

 

 

 

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