Intervista a Sergio Mattone

di An. Sci.
«Se prima il reintegro era la regola per i licenziamenti ingiustificati, adesso diventa una mera eccezione. E in più l'onere della prova viene caricato di fatto sulle spalle dei lavoratori». Sergio Mattone, ex presidente della sezione Lavoro della Cassazione, ritiene negativa la riforma varata dal governo Monti. Sottolinea che in alcuni casi aumenterà il contenzioso.

E vede l'unico aspetto positivo nella «velocizzazione dei tempi dei processi, anche se a fronte si dovrebbero però rafforzare risorse e organici di uffici giudiziari già allo stremo».
Cominciamo dai licenziamenti di carattere discriminatorio: su quelli non cambierà nulla, è vero?
Esatto: viene confermato l'impianto previsto dall'attuale articolo 18. Se il giudice riconosce che c'è stata una discriminazione, il licenziamento è nullo e scatta il reintegro.
Passiamo a quello disciplinare, perché invece adesso cambia.
Sì, il reintegro scatta solo in tre ipotesi: 1) che il fatto non sussista; 2) che il lavoratore non lo ha commesso; 3) che il fatto è previsto dal contratto collettivo come "illecito che consenta una mera sanzione conservativa", cioè quando è codificato chiaramente nel contratto che debba essere sanzionabile ad esempio con una sospensione di x giorni, e che quindi il licenziamento è evidentemente sproporzionato.
Poniamo però il caso in cui il giudice non ravvisi una di queste tre ipoitesi, ma nel contempo non sia dimostrato il giustificato motivo disciplinare. In questo caso che fa?
Ecco, qui c'è l'elemento di novità: nonostante non vi sia un giustificato motivo, impone l'indennizzo e non il reintegro. L'indennizzo è cioè l'unica sanzione che può disporre, perché il reintegro è possibile imporlo solo nelle tre ipotesi suddette. Credo che queste distinzioni daranno origine a un rilevante contenzioso, perché si apre un campo di distinzioni molto sottili cui tra l'altro credo che i giudici del lavoro oggi non siano abituati.
Passiamo infine al licenziamento di carattere economico. È il caso più complesso ed è anche quello che ha creato più polemiche.
In questo caso la regola per i licenziamenti ingiustificati diventerà il pagamento di una mera indennità, mentre fino a oggi con l'articolo 18 la regola è il reintegro. Bisogna specificare che già oggi è possibile licenziare individualmente per ragioni economiche: quando c'è una crisi, o per la sostituzione di un posto, una esternalizzazione, quando si acquista un macchinario che riduce l'esigenza di personale, o nuove tecnologie. Accanto a questo licenziamento, per inciso, c'è anche quello collettivo, per crisi, ristrutturazione o riconversione, molto mediato dal sindacato, e qui resta tutto immutato. Ma ritornando al licenziamento individuale, nel caso in cui il giudice ravvisi che il motivo economico è giustificato, sia con l'articolo 18 che con la riforma, respinge il ricorso del lavoratore e non impone indennizzi.
Se invece la motivazione economica è illegittima che succede?
Qui c'è la vera novità. L'onere della prova, resta ancora in carico al datore di lavoro: ma se non riesce a giustificare l'esistenza del motivo economico, mentre prima la regola era ordinare il reintegro, adesso il giudice condanna al pagamento di una indennità, da 12 a 24 mesi di stipendio. Dunque non può ordinare il reintegro, anche se la ragione economica non è giustificata.
E il famoso reintegro, allora, quello "rientrato" grazie all'insistenza del Pd e della Cgil, quando scatta?
Solo quando la ragione economica è «manifestamente insussistente», ed è qui che credo che di fatto l'onere della prova si sposti sul lavoratore. Perché sarà lui a dover assumere - mi si passi l'esempio - psicologi, investigatori, ricercatori, per dimostrare la «manifesta insussistenza», ovvero un motivo talmente chiaro ed evidente da essere lampante. Credo debba in pratica dimostrare che si ricada nella discriminazione, o che l'antipatia da parte del datore di lavoro sia stata mascherata da una ragione economica. È praticamente impossibile. E sottolineo un ultimo punto: nel caso di «manifesta insussistenza», secondo il testo, il giudice «può» ordinare il reintegro, cioè esso non scatta automaticamente. In pratica, anche qualora si sia dimostrata questa già vaga fattispecie, il giudice potrà anche non disporre il reintegro. O perlomeno è quello che mi viene di pensare leggendo quel «può» nel testo.

 

il manifesto (6 aprile 2012)

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