di ilcorsaro.info

Forse ci sfugge qualcosa. Il giorno dopo l’ufficializzazione dell’accordo sul disegno di legge in merito alla riforma del mercato del lavoro, che di fatto depotenzia e priva di effettività l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il Partito Democratico canta vittoria e parla di “un successo” e di una “soluzione innovativa ed equa”.

Allo stesso tempo il maggiore sindacato italiano, la Cgil, definisce “positivo” il parziale passo indietro del governo sull’articolo 18, attribuendolo alla mobilitazione dei lavoratori e del sindacato stesso e, mantenendo le critiche ad altre parti del testo, in particolare a quelle riguardanti la precarietà, rimanda al direttivo del 16 aprile la decisione se mantenere o revocare lo sciopero generale già annunciato.

Ora, vorremmo sinceramente comprendere quale è il metro di giudizio in base al quale vengono espresse queste posizioni. Se ciò che contava e conta è il dato lessicale, beh, indubbiamente vittoria è stata. Il feticcio, la parola magica “reintegro”, è tornata sulla carta, nero su bianco. Peccato però che sia tornata priva di ogni efficacia, poiché in caso di licenziamento economico individuale il giudice potrà (potrà, non dovrà) disporre il reintegro del lavoratore solo se le immotivate ragioni economiche addotte dal padrone per estromettere il proprio dipendente, oltre che immotivate, saranno anche “manifestamente insussistenti”.

Potremmo avere quasi la tentazione di offenderci per la bassezza da gioco delle tre carte con cui il Governo prende in giro milioni di cittadini che si vedranno privati di una tutela minima di civiltà; potremmo chiederci come sia possibile cercare di rivendere per un risultato positivo e negli interessi di chi lavora una riforma che, comunque la si veda, è un arretramento oggettivo ed immotivato rispetto alla condizione di diritto e diritti preesistente. Potremmo, per avere la conferma del fatto che, così come è congegnato, il reintegro è un mero diversivo congegnato per chiudere l’accordo e cercare di salvare la faccia al PD, leggere e rileggere le parole di Monti, il quale, con insospettata onestà intellettuale o sfacciataggine, dichiara esplicitamente che “(le imprese) col tempo capiranno che il reintegro avverrà in presenza di fattispecie molto estreme ed improbabili”. Potremmo indignarci perché quando Monti e la Fornero dichiarano in pompa magna che “ora le imprese non hanno più alibi per non investire in Italia” mettono in chiaro una visione dell’economia secondo la quale la battaglia per la competitività di un paese si vince rendendo i licenziamenti più facili e togliendo diritti.

Almeno altri due aspetti però meritano considerazione.

Nel momento in cui un giudice accerta che le ragioni economiche alla base di un licenziamento sono infondate, senza però disporre il reintegro perché magari non sussiste la manifesta insussistenza, permane una totale illogicità ed incoerenza: se le vere ragioni alla base del licenziamento non sono le esigenze produttive ed economiche dell’impresa, è evidente che le motivazioni vanno ricercate altrove. Ma questo altrove sono esattamente le fattispecie che definiscono il licenziamento discriminatorio, fatto da parte di un datore di lavoro che ha avuto l’accortezza minima di non scrivere come causale del licenziamento “lavoratore iscritto alla Fiom e quindi fastidioso per la disciplina interna della fabbrica” ma di appellarsi ipocritamente a presunte ragioni oggettive e produttive. E non riusciamo sinceramente a comprendere come sia possibile privare un lavoratore che si trova in una situazione del genere del diritto ad essere reintegrato su di un posto di lavoro dal quale è stato allontanato per ragioni che, per il loro carattere discriminatorio e per la loro natura di abuso, anche nell’attuale formulazione del disegno di legge prevedono il ritorno al lavoro e la corresponsione di tutte le mensilità dovute nel periodo di temporaneo allontanamento dall’impiego.

È opportuno squarciare il velo di ipocrisia che vuole nascondere un ulteriore aggravio, questa volta di ordine procedurale, che limita ulteriormente le tutele del lavoratore. Per ragioni oscure e probabilmente disoneste gli epigoni della grande mediazione raggiunta a difesa dei diritti dei lavoratori sostengono che l’onere della prova (secondo la definizione del Sole 24 Ore, “l’onere di provare i fatti che costituiscono il fondamento delle pretese, al fine di fornire al giudice gli elementi di decisione relativamente alla questione di fatto”) in caso di licenziamento spetta al datore di lavoro il quale, se vuole licenziare, è tenuto a dimostrare le ragioni e la validità della sua decisione. Per la maniera in cui il disegno di legge è stato concepito tuttavia ciò risulta completamente falso, almeno per quanto riguarda il caso in cui il lavoratore ambisca al riconoscimento della “manifesta insussistenza” ed al conseguente reintegro. Come si può pensare che, in un contesto nel quale al giudice non è comunque concesso sindacare le scelte economiche che l’impresa fa, sia il datore di lavoro a dover dimostrare qualcosa che “manifestamente” non esiste? È una contraddizione in termini ritenere una tutela ed una garanzia il fatto che sia il padrone a dover provare che le ragioni economiche addotte, per quanto infondate, sono si insussistenti ma non in un modo eccessivamente palese. Sarà piuttosto il lavoratore che dovrà spendere risorse, tempo ed avvocati se vorrà vedere riconosciuto quanto gli spetta. Tutto questo rappresenta un ribaltamento perfetto rispetto a quanto succede oggi, dove il reintegro scatta in automatico in mancanza di un’argomentazione compiuta da parte dell’imprenditore, lasciando il posto ad una situazione in cui ciò che scatta in automatico, se il lavoratore licenziato ingiustamente non si fa carico del famoso onere della prova, è il mero risarcimento economico.

È forse superfluo ma utile fare notare che questo fa tutta la differenza del mondo, in termini di potere dissuasivo della legge nei confronti di abusi da parte del padrone e quindi in termine di efficacia stessa della legge. Paradossalmente, gli unici che sembrano non essersene accorti sono coloro che, almeno a parole, ambiscono a rappresentare gli interessi di chi lavora o un lavoro non ce l’ha. Sembra una resa senza condizioni, un punto di non ritorno e probabilmente, purtroppo, lo è.

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