di Claudia Pratelli

Cosa c’è per i precari nella riforma del lavoro? Abbiamo seguito il plasmarsi della riforma con un’attenzione che a tratti si è fatta ansia. L’abbiamo rincorsa dietro alle dichiarazioni (tutte altisonanti) dei ministri del governo e interpretata da documenti che erano prima linee guida, poi un documento di policy approvato dal Consiglio dei ministri, ma mai testi definitivi.

Le dichiarazioni promettevano meraviglie e svolte epocali. I testi circolati le smentivano. L’attesa di un testo di legge, dunque, non era pignoleria: serviva per capire cosa questa riforma prevedesse davvero soprattutto per coloro in nome dei quali è stata sbandierata. Per i giovani e per i precari. Proprio in nome della nostra generazione, infatti, è stato attaccato l’articolo 18, sono state abbassate le pensioni, è stato messo a dieta il sistema degli ammortizzatori sociali. “E’ la crisi, baby” ci hanno spiegato i teorici dello scambio “bisogna togliere ai padri per dare ai figli”.

Mentivano per almeno due ragioni. La prima è sempre stata chiara: i diritti non sono una quantità data, un chilo di pane da ripartire tra gli affamati. Quanti ne vogliamo e come li vogliamo? Non c’è scienza economica che ce lo possa prescrivere. Sono scelte, scelte politiche. Checché ne dicano i tecnici, la troika e tutto il cucuzzaro. Difficile non vedere, poi, che la logica dello scambio è una trappola, soprattutto quando riguarda la platea dei più fragili e costruisce artificiose contrapposizioni tra ultimi e penultimi, padri e figli, giovani e anziani, senza intaccare le rendite di posizioni, i grandi capitali, chi ha accresciuto i propri profitti. La seconda ragione è divenuta evidente con il testo definitivo del ddl: lo scambio (anche qualora avesse un senso) è truccato. Hanno tolto ai padri, ma non hanno dato ai figli.

Adesso il testo c’è ed è definitivo. Ma non ci siamo. Letteralmente. Noi - giovani e precari - non ci siamo: non ci sono risposte né ai nostri bisogni, né ai nostri desideri, verso i quali questo paese ha contratto il debito più pesante. Sull’impianto generale della riforma, su cosa fa e non fa per i precari, su cosa è inefficace e cosa dannoso valgono le considerazioni svolte qui, con qualche significativo peggioramento. Ricapitoliamo.

1. Non sono state ridotte le tipologie contrattuali precarie. 46 erano e 46 restano. Anche l’associazione in partecipazione, che nel “documento di policy” approvato dal Consiglio dei ministri era stata fortemente ridimensionata, ritorna quasi come prima. Inutile dire che “l’apprendistato come canale privilegiato di ingresso al lavoro”, in competizione con questa pletora di forme contrattuali più convenienti per i datori, risulta poco credibile.

2. La lotta all’utilizzo truffaldino dei contratti precari parasubordinati (segretarie con partite iva; commessi con contratto a progetto; e tutti i lavoratori molto subordinati cui viene fatto un contratto da autonomi solo per risparmiare su salario e contributi), non solo rischia di essere inefficace perché può essere fatta valere solo ex post, ma viene anche resa più blanda rispetto ai testi precedenti. Inspiegabilmente sono esclusi dalle norme antielusive tutti i cococo del pubblico e assimilati (gli assegni di ricerca, per esempio). Per loro nessuna regolazione, nessuna tutela, neanche l’una tantum, ma quando si tratta di fare cassa ecco che ci si ricorda di loro (vedi il punto 3 sulle aliquote previdenziali). C’è, inoltre, una retromarcia sulla lotta alle false partite iva: chi è iscritto a un ordine professionale (architetti, ingegneri, giornalisti, ecc, più della metà del totale, tanto per intenderci) è escluso dalle norme antielusive; ma soprattutto quelle eventualmente smascherate non vengono riconosciute come lavoro subordinato, ma come contratti di collaborazione. Non va meglio per le partite iva “vere”: per loro nessuna tutela. Anzi un aumento dei contributi previdenziali.

3. L’aumento delle aliquote contributive per chi versa alla gestione separata che prima era un timore ora è una certezza, non solo per i cocopro., ma anche per i cococo e le partite iva. Che significa? Che questi lavoratori, data l’assenza di minimi retributivi, si troveranno con compensi netti più bassi. Per quanto riguarda i collaboratori (cococo e cocopro) i datori di lavoro, chiamati a versare maggiori contributi, abbasseranno i compensi. Per le partite iva, che pagano interamente i propri contributi previdenziali senza ripartirli con i committenti, non ci si dovrà neanche prendere il disturbo di rivedere al ribasso i compensi: semplicemente questi soggetti saranno tenuti a un esborso maggiore per contributi a compenso invariato. Risultato? Meno soldi in tasca. E non stiamo parlando dei moderni Rockefeller, bensì di soggetti che hanno compensi mediamente miseri e via via erosi (8.023 euro era il compenso medio lordo annuo dei collaboratori iscritti alla gestione separata Inps nel 2009; dal 2006 al 2009 il reddito medio annuo degli iscritti alla stessa gestione con partita iva si comprimeva del 30%).

4. L’Aspi, che era stata sbandierata come l’ammortizzatore sociale universale, esclude i parasubordinati, i più precari tra i precari: cococo, cocopro, assegni di ricerca, partite iva, ecc. E i dipendenti a tempo determinato? Per loro l’Aspi c’è, ma con gli stessi requisiti di accesso della vecchia indennità di disoccupazione (2 anni di anzianità contributiva e un anno di versamenti effettivi all’Inps), requisiti molto elevati che tagliano fuori chi lavora da poco e chi ha alle spalle anni di lavoro da parasubordinato. Per chi non li soddisfa è prevista la 'mini Aspi', cioè la nuova edizione della vecchia indennità a requisiti ridotti: anche questa è rivolta solo ai dipendenti, ma con requisiti di accesso più bassi: peccato che insieme ai requisiti anche durata (massimo 6 mesi) ed entità del trattamento siano bassi. Troppo bassi.

Cosa c’è dunque per i precari “più precari”? La vera novità del ddl rispetto ai testi precedenti è la reintroduzione e ridefinizione dell’una tantum per i collaboratori a progetto.

Una tantum: da dove viene. Si tratta di uno strumento che non nasce dalla fantasia del ministro Fornero, ma da quella di Sacconi e Tremonti che la istituirono, in via sperimentale, nel decreto anticrisi del 2009 a fronte della strage silenziosa di lavoratori con contratti di collaborazione avvenuta all’inizio della crisi. Prese la forma di un’indennità per i collaboratori a progetto disoccupati, da erogare in un’unica soluzione, finanziata dalla fiscalità generale (quindi non da contributi versati dai collaboratori e datori di lavoro).

Fin dall’inizio troppi ne sono stati i limiti: rivolta ai soli collaboratori a progetto con l’esclusione di tutti gli altri parasubordinati come collaboratori occasionali e assimilati - assegni di ricerca, docenti a contratto - e partite iva; requisiti di accesso iper-restrittivi; entità misera, pari al 30% del reddito dell’anno precedente; meccanismo di calcolo penalizzante proprio per i soggetti più fragili. Oggi, dopo più di tre anni di sperimentazione, i dati consegnano un bilancio pessimo: hanno potuto fruire di tale indennità solo 13mila (circa) collaboratori a progetto sulle centinaia di migliaia rimaste senza lavoro e senza reddito negli anni della crisi.

La nuova una tantum: cosa cambia? Il “documento di policy” approvato dal Consiglio dei ministri prometteva di “rafforzare e rendere strutturale” l’una tantum, ma nessuno dei due impegni è stato mantenuto. L’una tantum non è stata resa strutturale, ma durerà finché durano i (pochi!) soldi stanziati (per completezza d’informazione: si tratta di fondi già stanziati dalla finanziaria precedente). Di rafforzamento, poi, non c’è traccia. Anzi, c’è un peggioramento netto. Secondo quanto previsto dal ddl i requisiti per poter richiedere l’una tantum diventano ancora più restrittivi di prima. Oltre ad aver registrato un reddito non superiore a 20mila euro nell’anno precedente e ad avere almeno una mensilità accreditata nell’anno in corso, per fare domanda è necessario: avere almeno quattro mesi di contributi accreditati nell’anno precedente (prima erano tre); aver lavorato in monocommittenza nell’arco dell’anno precedente (prima la monocommittenza era richiesta solo in riferimento all’ultimo contratto, quello per cui si era verificato l’evento di fine lavoro); aver avuto almeno due mesi di disoccupazione continuativa nell’anno precedente. Questo ultimo punto è forse il più penalizzante. Due sono le interpretazioni possibili del testo particolarmente astruso:

Ipotesi A) l’una tantum può essere richiesta da collaboratori che siano stati disoccupati nell’anno precedente, anche se nel momento in cui fanno la domanda non lo sono più, e quindi si configurerebbe un meccanismo che risarcisce l’anno dopo una disoccupazione avvenuta l’anno prima. I limiti di uno strumento del genere sono evidenti: se sono disoccupato adesso ho bisogno di un sostegno al reddito adesso, non tra un anno. Le bollette, l’affitto, il pranzo e la cena non possono aspettare i tempi di calcolo della burocrazia. Del resto è così poco efficace dare un reddito l’anno successivo a quando se ne ha bisogno che l’ indennità di disoccupazione a requisiti ridotti che aveva questo funzionamento è stata corretta dallo stesso ddl e trasformata nella mini Aspi di cui sopra.

Ipotesi B) l’una tantum può essere richiesta da collaboratori disoccupati che siano stati disoccupati anche nell’anno precedente. Se così fosse, l’una tantum interverrebbe solo in caso di doppia sfiga: per accedervi bisogna essere disoccupati nel momento in cui la si richiede, ma esserlo stati anche nell’anno precedente per almeno due mesi continuativi.

Al di là dei gravi limiti tecnici di questo strumento, che lo rendono escludente e poco efficace, il problema è soprattutto relativo alla sua ratio. Non è un ammortizzatore sociale, perché non è finanziato su base contributiva, non interviene nel momento del bisogno e non accompagna il periodo di disoccupazione, ma eroga una cifra e te la fai bastare. Benché finanziata dalla fiscalità generale, non è una misura universalistica di welfare, tipo reddito di base, perché si rivolge ad una categoria molto specifica del mondo del lavoro, per di più solo nel caso di non rinnovo di un contratto. Cos’è allora? L’una tantum è una elemosina con funzione di tappabuchi. E’ la massima evidenza di un governo che non vuole o non sa prendere in carico fino in fondo un mondo del lavoro diverso e cambiato, dove nascono nuove fragilità e domande di protezione. E’ l’ennesima prova di una mistificazione: parla di una riforma strabica che dichiara di guardare ai giovani, ma gira la testa e strizza l’occhio ai mercati.

da www.molecoleonline.it

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