di Claudio de Fiores

Per la prima volta dalla sua fondazione il fallimento dell'Unione europea non è più un'ipotesi immaginaria. Eppure l'Unione non pare avere alcuna intenzione di mutare rotta. La sua ideologia era e continua a a essere il liberismo. Per gli ideologi del monetarismo comunitario, d'altronde, vi è una sola ricetta in grado di sconfiggere la crisi, quella che, giorno dopo giorno, ci viene propinata dai governi tecnici, dalle agenzie di rating, dalle lettere della Bce: lo smantellamento dei diritti sociali, l'inasprimento delle politiche di austerità, le privatizzazioni.

Anche la crisi greca più che innescare l'auspicata inversione di tendenza verso un'Europa sociale e più democratica, è stata usata dai governi europei come l'ultimo pretesto per regolare definitivamente i conti con ciò che rimaneva dello stato sociale nei rispettivi paesi. Di qui il tentativo di fare della Grecia il luogo di sperimentazione per la costruzione di un nuovo ordine sociale da estendere a tutta l'Europa, il terreno di addestramento del nuovo «sovversivismo dall'alto», l'occasione per il definitivo redde rationem nei confronti del costituzionalismo democratico-sociale.
Di fronte a questo scenario non sono più ammessi dubbi, distinguo, ripensamenti, ma solo sacrifici, senso di «responsabilità», spirito di abnegazione. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e ora ci tocca espirarne la colpa: «Ce lo chiede l'Europa». Anche se ciò potrebbe voler dire sospendere la democrazia. E non ci si riferisce a quanto potrebbe avvenire in futuro ma a quanto sta già oggi drammaticamente avvenendo. Basta guardarsi intorno: lo scorso novembre il presidente greco Papandreu si è recato al vertice di Cannes del G20 per sottoporre la sua proposta di referendum (sulle misure di austerità) agli altri partner e ne è uscito dimissionario; in Italia una «strana» maggioranza ha forzosamente introdotto in Costituzione la cd. regola aurea per rassicurare trojka e mercati che «stiamo facendo su serio» e che nessun pronunciamento popolare (grazie ai rapporti di forza in Parlamento) sarebbe mai stato consentito su questo punto; le politiche di bilancio dei singoli paesi europei saranno, nei prossimi anni, eterodirette dall'Ue e tutto ciò grazie a quanto previsto in «un accordo separato» (cd. Fiscal compact). Accordo che gli Stati membri saranno sì chiamati a ratificare, ma «a minoranza» (saranno sufficienti le ratifiche di 12 Stati su 25). Per non parlare, infine, dell'atteggiamento stizzito manifestato in queste settimane dall'establishment Ue nei confronti delle imminenti elezioni greche e francesi. Le prime ritenute sostanzialmente «inutili» (essendo la Grecia stata, nel frattempo, espugnata della propria sovranità nazionale) e le seconde definite addirittura «pericolose» (nel caso in cui Hollande dovesse prevalere). Un caso a parte è invece, ancora una volta, l'Italia dove l'asse Abc (Alfano-Bersani-Casini) si sta oggi affannosamente adoperando per costruire, in vista delle elezioni del 2013, un sistema elettorale «nuovo», talmente «nuovo» da essere in grado di perpetuare sine die la sopravvivenza dei governi tecnici, a fronte di partiti sempre più consci della loro inutilità e obsolescenza.
Non c'è da stupirsi. La politica comunitaria europea di questi anni ha sempre cercato di comprimere gli «eccessi democratici» alimentati dal costituzionalismo novecentesco attraverso una progressiva e sistematica neutralizzazione del conflitto. Nulla è però scontato. L'insorgenza delle mobilitazioni sociali in tutta Europa potrebbe riaprire la partita. Le ondate di scioperi in Portogallo e Spagna, la sollevazione dei giovani greci, la rivolta degli studenti londinesi, le proteste degli indignados ci dicono che il destino dell'Europa non è segnato. Ma indignarsi soltanto non basta. C'è bisogno di più e di altro. C'è bisogno che l'indignazione si traduca in conflitto, in linguaggio politico, in nuove forme di interazione tra masse e potere. Fino a farsi mobilitazione democratica e pratica costituente.
L'azione costituente appartiene ai popoli europei e non può essere pertanto imposta dall'alto al mero fine di consacrare sine die l'impianto tecnocratico e liberista dell'Unione. Fare una costituzione significa farsi carico delle grandi sfide della storia, rappresentare le aspirazioni di un'epoca, le passioni di un popolo, produrre un testo coeso nei suoi principi e fondamentale in tutte le sue disposizioni. Solo la presenza di un mito politico condiviso, in grado di alimentare un idem sentire, potrebbe in futuro permettere ai tanti popoli europei di fondersi in un unico demos. Un demos nuovo, emergente, capace di trascendere (senza tuttavia infirmarle) le vecchie appartenenze nazionali e di dare così vita a un'Europa politica.
Solo un generoso sforzo di fantasia avrebbe potuto indurci, negli anni scorsi, a definire «costituzione» un testo ostico e asettico qual era il «Trattato costituzionale» sottoscritto nell'ottobre 2004 a Roma (poi sonoramente bocciato dai cittadini francesi e olandesi nella primavera del 2005). L'irriducibile commistione dei due sostantivi (costituzione e trattato) significava che quel testo non era una vera costituzione, bensì un trattato posto in essere dagli stati e, in quanto tale, soggetto esclusivamente alla loro volontà.
Ciò che, negli anni scorsi, è stato definito «processo costituente europeo» altro non è stato pertanto che un espediente retorico. Un artificio linguistico che ben poco aveva a che fare con la costituzione e con il costituzionalismo. E la ragione è evidente: una cosa è procedere alla stesura di una Costituzione al fine di (ri)fondare l'unità politica di un popolo; altra cosa è, invece, addivenire nelle forme ordinarie a un Trattato, a un'intesa fra più stati, ciascuno dei quali espressione di una già sottostante unità politica. Il mito di una «Costituzione senza popolo» altro non è stato, quindi, che una mera astrazione dietro la quale si è tenacemente trincerato il neofunzionalismo europeo, particolarmente attento a evitare ogni sorta di contatto fra istanze democratiche e processo di integrazione.
Ma costruire un processo costituente al riparo dai popoli non è possibile. Un processo costituente per poter agire storicamente ha sempre avuto bisogno di incunearsi in un mito ordinante, in istanze fondative, in un progetto politico di società. Appare, pertanto, a dir poco abnorme il tentativo, ancora oggi in atto, di liquidare la funzione democratica e la forza legittimante dei popoli alla stregua di un tabù primordiale, un retaggio schmittiano, una sorta di remora ancestrale sul cammino dell'integrazione europea. Il nesso popolo-costituzione sarà pure un principio risalente nel tempo ma rappresenta, a tutt'oggi, uno dei punti di forza del costituzionalismo e della civiltà giuridica moderna. La teoria costituzionale è vecchia (perlomeno) di due secoli ma è l'unica che abbiamo ancora oggi a disposizione per interpretare e codificare lo stato delle cose presenti. E così sarà anche in futuro. Almeno fino a quando non sarà immaginata e sperimentata un'altra più «elevata» forma di legittimazione del potere in grado di soppiantare definitivamente quella democratico-costituzionale.
La questione democratica europea si colloca oggi al centro di questo crocevia. Per l'Unione è giunto il momento di scegliere se continuare a essere un opaco luogo di intese tecnico-normative (fra élite, giudici, poteri economici, lobbies finanziarie, governi) oppure se voltare finalmente pagina, provando a rilanciare su basi democratiche il processo di integrazione.

 

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