di Monica Pasquino

In tante e in tanti nei mesi passati abbiamo lottato contro il ddl Fornero e contro l'aumento delle aliquote della gestione separata Inps, mentre il dibattito pubblico sulla riforma del mercato del lavoro trattava solo l'articolo 18.
C'era Giulia, che lavora in una delle 13 strutture sanitarie del San Raffaele che verranno chiuse tra pochi giorni. C'era Luca, che paga 300 euro un posto letto, anche se avrebbe diritto a un alloggio nelle residenze universitarie, decurtato per la penuria di risorse. C'era Chiara, che non troverà un nuovo impiego perché la Regione Lazio ha affossato i contributi alla cultura.


C'ero io, che sperimento il paradossale stato di tranquillità di chi ha stipulato da poco un contratto di lavoro di durata biennale. Un incarico di responsabilità e con un compenso adeguato, ma il pagamento potrebbe non arrivare, perché il contratto dipende da un progetto finanziato da fondi regionali. Tranquillità - perché avere un impiego, anche se attualmente senza stipendio, è già un antidoto contro la depressione e questo stratagemma di autotutela messo in atto dalle nuove generazioni è una delle sconfitte meno raccontate della sinistra.
La natura del lavoro contemporanea è cambiata e le categorie elaborate nel Novecento non bastano più. Come non è più vera la connessione tra lavoro intellettuale e appartenenza al ceto medio: il morbo della precarietà ha attaccato le famiglie «borghesi» e ha trascinato i loro figi e nipoti verso un costante processo di impoverimento. Si è rotto il legame tra formazione e professione, tra titolo di studio e possibilità di remunerazione: la Riforma Gelmini ha infranto il già incerto futuro delle generazioni nate dopo gli anni Settanta.
Siamo il Quinto Stato. Abbiamo contratti di collaborazione e partita Iva. Raramente giungiamo a un lavoro adeguato alle nostre competenze e quando arriva ce lo teniamo stretto, anche se è polvere e fumo sotto il profilo contrattuale. Non avremo mai una pensione e viviamo in uno stato di perenne emergenza abitativa, non possiamo stipulare mutui o prestiti. Non conosciamo la storica distinzione tra tempi di vita e di lavoro. Sacrifichiamo progetti di vita, relazioni d'amore e tempo libero pur di conquistarci quell'incarico professionale che meritiamo.
Le nostre speranze si sono raffreddate nel vedere la coalizione di centrosinistra virare sempre più verso destra, dentro il pareggio di bilancio e l'austerità europea che ci spezza il fiato. Nel poco tempo che abbiamo a disposizione prima delle elezioni politiche, quelli di noi che partecipano con curiosità e interesse alle assemblee di «Cambiare si può», chiedono si apra uno spazio di discussione sulle nostre condizioni di vita e sulle nuove forme del lavoro contemporaneo.
Nella sua composizione plurale - intellettuale, partitica, di cittadinanza attiva e intergenerazionale - il «quarto polo» ha le componenti necessarie a produrre un avanzamento innovando le categorie del lavoro che avuto in lascito dalle lotte storiche della sinistra, che non descrivono la situazione vissuta oggi da almeno un terzo della forza lavoro in Italia. Per delineare un profilo nuovo di cittadinanza sociale e di welfare che sancisca l'uguaglianza di trattamento assistenziale e previdenziale anche per noi, per restituirci la scelta della maternità e affrontare con serenità i casi di malattia. Per garantire alle nuove generazioni una retribuzione adeguata «e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa», com'è sancito dall'art. 36 della Costituzione.
Nella fase in cui siamo, una delle prime sfide della «lotta di classe dopo la lotta di classe» è aggredire il discorso pubblico elettorale ponendo il tema dei lavori - il lavoro non è più declinabile al singolare - e costruire una lista di sinistra antimontiana che intercetti, coinvolga e incarni le storie e le lotte del Quinto Stato, per superare i contratti che legalizzano la precarizzazione di milioni di vulnerabili esistenze. Le nostre.

da il manifesto

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