rifondazionedi Bruno Steri
Ho condiviso il percorso e l’obiettivo che Rifondazione comunista  ed altre forze politiche si sono date: la costituzione di un cartello elettorale “No Monti”,  contro le destre (quelle populiste e sfasciste come quelle liberiste e in doppio petto) e in alternativa al centro-sinistra. Ribadisco: un polo elettorale “No Monti” (che non è la stessa cosa di un “polo della sinistra di alternativa”, anche se ambisce a porsi in una tale prospettiva). Un’impresa che non si presentava affatto semplice, legata alla possibilità di reperire una coalizione di forze che si ponessero il suddetto obiettivo e di disporre di un candidato a capo del governo che fosse credibile (come l’attuale legge elettorale impone); ma, soprattutto, al fine di riportare – per quanto riguarda il Prc -  dei comunisti nel Parlamento nazionale. Il risultato è stato conseguito e non era per nulla scontato.

Né si può dire che sia piovuto dal cielo: le opportunità si colgono se si è arato bene il terreno, se si muove da un’analisi plausibile. I fatti hanno dimostrato che avevamo ragione, noi di Rifondazione,  nel ritenere fuori portata l’ipotesi di un patto di governo col Pd (a meno di non cambiare radicalmente pelle, come accaduto a Sel, e passare nel campo del socialismo europeo): quelli che, a sinistra, hanno inteso spingere su tale obiettivo sono rimasti a secco e sono stati costretti a tornare sui propri passi. Né si può scoprire ora l’esiguità di ciò che si ottiene, l’esigua consistenza numerica della pattuglia parlamentare del partito, posto che si superi la soglia del 4%: la quota parte di una ventina di deputati in tutto. Il risultato non è certo eclatante; ma è molto, se consideriamo la condizione in cui ci trovavamo anche solo un mese fa. Il percorso fatto si è posto un obiettivo non scontato, ma era l’unico percorso possibile. Ora dobbiamo investire con decisione su questa lista “No Monti”: il suo impatto elettorale dipenderà da noi.
Era questo l’esito ottimale? Certamente no. Non resto certo insensibile, ad esempio, alla sollecitazione di insigni costituzionalisti, oltre che compagni stimati, come Gaetano Azzariti e Gianni Ferrara, i quali criticano fortemente l’inclusione nel simbolo del nome del candidato a premier, emblematica esemplificazione della personalizzazione della politica. Come potrei glissare su di una tale critica, io che sin dall’inizio ho criticato Nichi Vendola su questa medesima questione? Mi guardo bene dal contrastarne il merito; dico solo che essa non può, non deve spingersi fino a trascurare il contesto in cui le scelte si compiono, scelte tese a salvare un prevalente che consideriamo essenziale. Allo stesso modo, anch’io vedo la necessità di irrobustire dal lato della politica economica e sociale il profilo politico della lista: un compito che è di fatto affidato al Prc. E ho guardato con un filo di preoccupazione il dibattito che ha visto Antonio Ingroia contrapposto a contendenti quali ad esempio Mucchetti o Tremonti, assai ferrati sui temi dell’economia. Ma il nostro candidato se l’è cavata bene. Capisco i dubbi dei compagni; ma non dobbiamo vedere solo e sempre la parte vuota del bicchiere. Dobbiamo dare un’analisi compiuta del quadro. Mi chiedo: c’è poi così da sorprendersi se, ad un certo punto della storia del nostro Paese - un Paese che, lo ricordo, è l’Italia e non la Svezia - l’ “astuzia della ragione” ha tirato fuori dal cappello un candidato per la sinistra come Antonio Ingroia? Io penso proprio di no: non c’è affatto da sorprendersi. Non voglio arrivare a dire che tutto ciò che è reale è razionale; dico però che spesso c’è una ratio, una logica in ciò che accade.
In proposito porto due argomentazioni a favore del candidato della nostra lista, una più dislocata su una sua efficacia propagandistica, l’altra più di sostanza. Tra i dati del recente rapporto Censis, ce n’è uno che ha colpito la mia attenzione: quasi la metà degli italiani, dei cittadini del nostro Paese, a domanda precisa risponde che la causa dell’attuale crisi (che, come sappiamo, è sistemica e strutturale) sia “la corruzione”. Non dunque il modo di produzione capitalistico, non la finanziarizzazione dell’economia, non l’ineguale distribuzione della ricchezza ecc ecc. No. Per quasi la metà (la metà!) degli italiani la causa è la corruzione. Evidentemente, si tratta di una colossale sciocchezza. Ma non è questo il punto: dobbiamo toglierci gli occhiali del nostro apparato concettuale, di quel che riteniamo persino ovvio, e guardare al “Paese reale”. Ebbene, il Paese reale è quello in cui la metà dei cittadini sono convinti che la corruzione sia alla base della crisi di sistema. Io penso che in un Paese così, un candidato come Antonio Ingroia possa riscuotere consenso, perché parla a tanta gente onesta (magari non comunista e nemmeno di sinistra), ma che sente con grande intensità la “questione morale”, che pure avvolge (e affligge) il nostro Paese.
Vengo alla questione di sostanza. Nella storia italiana di questi ultimi decenni, due sono stati i pilastri, i punti-chiave intangibili, quelli che la politica non poteva neanche sfiorare. Il primo, fino a quando il mondo è stato diviso in due blocchi (atlantico e sovietico), era la collocazione internazionale dell’Italia: la sua messa in questione ci è costata alcune centinaia di morti civili, dilaniati da bombe “di Stato”. Quel mondo non esiste più e conseguentemente va aggiornata l’analisi della nostra dimensione internazionale, ma il secondo pilastro cui ho fatto riferimento è ancora perfettamente vigente: ed è non tanto la “mafia”, quanto più precisamente il rapporto tra politica e “mafia” (intendendo con tale termine i poteri criminali propriamente detti e, in generale, la galassia del malaffare). Anche questo nodo è intangibile, nel senso che costituisce essenzialmente la specificità del capitalismo italiano, inerisce alla sua peculiare struttura di potere. Se ciò è vero, dissento da alcune valutazioni che talvolta ho sentito e che concernono Antonio Ingroia: da questo punto di vista, egli è un vero e proprio “estremista”, uno che non si piega alla struttura di potere vigente. Si potrà dire che si tratta di un estremismo che fa leva sulla parte migliore dei valori liberali. In ogni caso, esso configura una posizione che si contrappone senza mediazioni ai poteri forti del nostro Paese. Per questo, personalmente non ho mai creduto che, stante una tale estrema collocazione sul terreno degli assetti istituzionali e di potere, vi fossero spazi politici per un recupero di rapporti col Partito Democratico. So bene che in quel partito c’è tanta gente che pone sinceramente il tema della “questione morale”; ma so anche che, nonostante ciò, le mediazioni che deve costruire la forza-guida di un patto di governo per questo Paese impongono di non oltrepassare una certa soglia di compatibilità. In questo preciso senso, Ingroia è un estremista.
Starà poi a noi correggere il profilo prevalentemente “giuridico” della lista, immettendo dosi massicce di “sociale” e “lotta di classe”.

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