lavorodi Angela Lamboglia
Un paio settimane fa, il presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, durante un’audizione al Parlamento europeo, ha parlato della necessità di un “salario sociale minimo legale”. Un’espressione piuttosto ambigua nel mettere insieme il riferimento al minimo salariale, che riguarda solo gli occupati, con quel rimando al sociale che sembrava fare segno a forme di sostegno di più ampio respiro. Pur dentro questa confusione, Juncker ha offerto l’occasione per discutere di quali misure sono necessarie anche in Italia, nel momento in cui la crisi accentua gli effetti di trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che sono in atto da anni in tutta Europa e che probabilmente non ci lasceremo alla spalle una volta che la tanto attesa ripresa prima o poi si paleserà. Trasformazioni che impongono di guardare alla disoccupazione come a un fenomeno strutturale e rendono insufficienti – rilevava pochi giorni fa il professor Stefano Rodotà presentando a Roma l’ultimo libro del Basic Income Network Italia sul reddito minimo garantito – gli strumenti tradizionali del welfare, modellati sui lavoratori e pensati per porre rimedio a situazioni transitorie.


Che succede, infatti, quando queste situazioni da transitorie diventano persistenti? Cioè nel momento in cui sia la piena occupazione che l’occupazione a tempo indeterminato non sono più la regola? O quando oltre un quarto della forza lavoro (dati Isfol 2010) rientra nella categoria degli atipici e non dispone di alcuna forma di sostegno nel passaggio tra un lavoro precario e un altro? O, ancora, quando – osservava Maria Rosaria Marella, docente di diritto all’Università Perugia -, il lavoro non è più sufficiente come mezzo di emancipazione, perché anche chi lavora spesso non guadagna abbastanza per vivere dignitosamente (i cosiddetti working poor)?

La risposta prevalente in Italia, dalla politica ai sindacati, passando per parte dell’informazione, consiste, nel migliore dei casi, in un equivoco: quello di contrapporre la tutela del lavoro e le politiche per l’occupazione all’introduzione di un reddito minimo. Come se una strada escludesse l’altra. Nel peggiore, invece, si tende a liquidare il reddito garantito come una misura utopistica, nonostante 25 paesi Ue – tutti ad eccezione dell’Italia e della Grecia – già lo prevedano.

Il volume del BIN passa in rassegna questi schemi di protezione sociale; ne individua i limiti, ma chiarisce anche in che modo contribuiscano all’autodeterminazione delle persone e tutelino quel diritto a una vita dignitosa che anche la nostra Costituzione prevede esplicitamente.

Una lettura utile per chi ha voglia capire se e in che misura il reddito minimo possa essere – come recita il titolo del libro – ‘un progetto necessario e possibile’. E una risposta ai tanti frettolosi commentatori nostrani, spesso colpevoli – osservava giustamente Rodotà – di ‘omissione di bibliografia‘.

dal Fatto quotidiano

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