manifesto

di Alberto Burgio

Non riesce a persuadermi l'idea che il calo delle vendite del manifesto derivi prevalentemente dalla qualità del giornale e, in particolare, dalla reticenza sul tema cruciale del comunismo: come...

intenderlo, come realizzarlo, se potere o meno dirsi ancora oggi comunisti. Inclino a pensare che le attuali difficoltà conseguano soprattutto a cause esterne (la crisi generale della sinistra di alternativa), come in passato da cause esterne discendeva, credo, il successo del giornale e di tutta la stampa di sinistra. Naturalmente la qualità incide, nel bene o nel male, ma forse non in misura decisiva.

Resta vero che un deficit di riflessione c'è e pesa, in particolare sulle questioni del lavoro e della rilevanza del conflitto di classe. E, ancora una volta, il manifesto non fa eccezione: persino dentro Rifondazione comunista si è sostenuto per quindici anni che il conflitto capitale-lavoro non sarebbe più «fondamentale» e che il lavoro non sarebbe più operaio (scambiando il genere salariato con la specie tuta blu). Questa brillante diceria l'ha fatta a lungo da padrone in tutta la sinistra «critica», e chi eccepiva era bollato come nostalgico del Novecento.

Detto questo, ovviamente l'intervento di Rossana Rossanda ("Un esame di noi stessi", il manifesto 18/2) ha suscitato interesse soprattutto per quella frase scandalosa: «Credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa più dirsi comunisti». Apriti cielo! A tanti non è parso vero: finalmente l'andata a Canossa di un'irriducibile, la resa incondizionata di una pervicace eretica! Come dire: cade l'ultimo bastione di una resistenza ormai stremata, un capitolo si chiude definitivamente. E Marx può andare a dormire in soffitta.

A me non pare che le cose stiano così, né mi sembra che Rossanda questo intenda. Quell'inciso (almeno nei tempi brevi) qualcosa significa; e conta soprattutto l'argomento svolto a sostegno. Se il punto è che in questi quarant'anni il mondo è cambiato, in particolare per il venir meno del contrasto tra Stati Uniti e Unione Sovietica che aveva segnato i primi trent'anni del dopoguerra, allora la questione non è l'obsolescenza della critica marxiana, ma la necessità di ripensare a fondo lo scenario politico e geopolitico del conflitto di classe, e di ridefinirne forme, luoghi e strumenti. Se la debolezza fondamentale della sinistra è la sottovalutazione del conflitto capitale-lavoro sullo sfondo del capitalismo globalizzato, vuol dire che il quadro teorico della critica marxiana del rapporto sociale e del modo di produzione regge, conserva appieno la sua validità. Quel che le recenti trasformazioni dello scenario sociale e politico nazionale e internazionale chiedono al movimento di classe è un profondo, radicale rinnovamento della proposta politica, non l'abbandono del quadro teorico che, solo, permette di leggere il conflitto nei suoi termini reali.

Due conseguenze mi pare derivino da questa premessa. La prima riguarda precisamente l'agenda politica. Credo sia vero che il superamento del capitalismo non è all'ordine del giorno. Non perché il capitalismo non sia giunto a un grado di distruttività sociale, ambientale e persino economica (la marxiana «distruzione di forze produttive») difficilmente sostenibile, ma perché la sconfitta subita nel corso degli ultimi trent'anni dal movimento operaio in tutto il mondo è tale da imporre in primo luogo una paziente opera di ricostruzione e di accumulazione delle forze. La battaglia di cui parla Giorgio Ruffolo (il manifesto 21/2) per «modificare e riformare» il capitalismo nell'interesse «dei più deboli e del futuro» richiede un formidabile schieramento di forze, nella costruzione del quale dovrebbe essere investita ogni energia. Credo che essere comunisti oggi significhi innanzi tutto questo: non badare se non all'efficacia dell'iniziativa sul terreno-chiave (ricordato anche da Pierluigi Ciocca, il manifesto 22/2) del «che cosa, come e per chi produrre» e sull'altro terreno decisivo, quello della battaglia intransigente contro la guerra.

La seconda conseguenza riguarda ancora Marx, la teoria e il dirsi comunisti. Chi a sinistra non se la sente più di usare questo nome, chi suggerisce di abbandonare Marx e le sue analisi, perché lo fa? Dire, come Ruffolo, che «come modello sociale concreto» il comunismo non è mai esistito non sembra un grande argomento, somiglia piuttosto a una tautologia. Finché quello capitalistico sarà il modo di produzione dominante, il comunismo sarà (se riuscirà ad esserlo) la sua ombra critica. È questo il suo compito in questa fase storica, non quello di essere già un rapporto sociale reale. Ma ho l'impressione che di Marx e delle sue cosiddette utopie ci si voglia sbarazzare, a sinistra, soprattutto per quella molto umana stanchezza che sopravviene in capo a una sconfitta. Se è così, allora bisogna essere chiari: perché mai subire una sconfitta dimostrerebbe che si è nel torto, che si è sbagliata un'analisi o che si perseguono obiettivi impossibili? Si può perdere anche perché i rapporti di forza sono sfavorevoli, o per gli errori commessi nella lotta, o per entrambe queste ragioni. Ma la sconfitta di per sé non dimostra nulla. Del resto, quante sconfitte ha subito il capitalismo prima di vincere? Gramsci pensava che la borghesia abbia impiegato un millennio prima di conquistare la direzione politica della società europea; Ciocca limita il raggio ai tre secoli del capitalismo industriale (che però non sorse nel vuoto pneumatico): tempi lunghi, comunque. Dei quali ciascuno dovrebbe tenere conto nelle proprie considerazioni.

E allora, per chiudere, vorrei dire anch'io qualcosa sul giornale, proprio a questo riguardo. Mi pare che l'intervento di Rossanda metta a fuoco l'esigenza di riflettere con cura sia sui temi dell'attualità che sulle questioni di prospettiva, legate al modello sociale e alla sua trasformazione: su entrambi i «timbri» di cui parla Ciocca e che, per dirla coi classici, riguardano la tattica e la strategia. Se una critica può essere rivolta al giornale, è quella di non soddisfare sempre questa esigenza. Talvolta l'attualità sembra assorbire l'intero scenario, riducendo lo sfondo strategico (che dovrebbe costituire l'orizzonte di senso) a un accessorio, quando non a un fastidioso residuo «ideologico». Nel fare un quotidiano questa insidia è sempre in agguato, tanto più in tempi come questi, in cui è molto difficile credere nella possibilità di cambiare il mondo. Ma va fatto ugualmente ogni sforzo per preservare la consapevolezza del fine, poiché la posta in gioco, prima ancora della sopravvivenza del giornale, è la sua stessa ragion d'essere.

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