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di Alberto Burgio

Come sempre Joseph Halevi scrive cose sagge e interessanti, da cui impariamo molto e di ciò gli siamo grati. Anche questa volta molte sue affermazioni convincono e ci trovano concordi (almeno così ritengo).

La sola sua affermazione su cui mi sento di dissentire è quindi, forse, proprio la prima: quello che scrive è sì «spiacevole», ma non «per noi» in quanto ci smentirebbe, bensì per tutti (eccetto la upper class ovviamente), in quanto descrive una situazione sociale di estrema gravità.

Ma veniamo al dunque. Se la «riforma» Fornero ci appare inaccettabile non credo sia perché muoviamo da presupposti «tradizionali». Che in Europa il «posto fisso» nell'industria sia destinato (con questi rapporti di forza) ad estinguersi e che il padronato (di ogni tipo: il capitale industriale e quello finanziario) miri a generalizzare la precarietà come premessa di deflazione strutturale dei salari, lo vediamo bene: questo dovrebbe forse indurci a subire passivamente un pesante attacco alle tutele conquistate in passato?

Non credo che Halevi suggerisca questo. Mi pare ne tragga un'altra conseguenza: la necessità di concentrare le forze e l'iniziativa in una coerente lotta anticapitalistica (rivoluzionaria), tesa – come scrive – a «cambiare le relazioni sociali e di produzione». Pensa forse che dissentiamo su questo? Se è così, mi sento di rassicurarlo: siamo del tutto d'accordo (altrimenti non insisteremmo a chiamarci comunisti e non avremmo combattuto perché Rifondazione comunista sopravvivesse).

Vorrei quindi invitarlo a non cadere in quello che a me pare un errore ricorrente nel confronto a sinistra: la confusione tra il piano tattico (sul quale forse dissentiamo) e quello strategico (sul quale, invece, di sicuro concordiamo). Può darsi che Halevi dissenta dalla nostra pratica politica (tattica), e su questo sarei molto interessato a conoscere il parere e la sua ricetta. Ma da questo a ritenere che le nostre finalità (strategiche) siano diverse dalla sua, cioè dall'obiettivo di uscire dal capitalismo verso una forma sociale caratterizzata dall'autonomia del lavoro, evidentemente ce ne corre.

Un'ultima considerazione riguarda il «reddito di cittadinanza». Halevi sa che su questo tema c'è un dibattito aperto nella sinistra di alternativa, non soltanto italiana. Ci sono posizioni diverse, e alla base di ognuna di esse stanno ragioni serie, non liquidabili come banali errori. Ma se debbo dire qual è la posizione verso la quale propendo, non posso che concordare con Halevi. I rischi che egli vede sono, credo, concreti e molto gravi. Il pericolo che il reddito di cittadinanza si tramuti in un'elemosina (in un reddito di sussistenza, premessa di povertà e di emarginazione) e che favorisca un'ulteriore riduzione del valore del lavoro, questo pericolo è reale, e ad esso temo se ne aggiunga un terzo: che la battaglia per questo obiettivo determini la sottrazione di grandi energie alla lotta contro il capitale. Detto questo, credo anche che siamo tutti d'accordo sul fatto che il problema della povertà di massa di lavoratori, precari, disoccupati e inoccupati sia sempre più drammatico e richieda risposte immediate, fossero pure transitorie e di semplice contenimento. Altrimenti corriamo un altro pericolo, non meno grave: che la disperazione di milioni di persone possa tramutarsi nel consenso di massa a un potere autoritario.

Martedì 27 Marzo 2012

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