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di Marco Sferini

Il manifesto per un nuovo soggetto politico offre spunti di ampio respiro per una riflessione a sinistra e per tutto quel galattico mondo di associazionismo e di progressismo sparso che fatica a riconoscersi sotto una bandiera rossa e che preferisce mantenersi a-ideologico, pur evidenziando i punti necessari per un passaggio ad un modello di società diverso da quello in cui ci troviamo a vivere.

Indubbiamente il manifesto per un nuovo soggetto politico è uno scritto interessante, capace di suscitare approvazione proprio perché si presenta con questa stessa equidistanza, dai partiti e da ciò che già oggi c'è di organizzato (o da ciò che rimane dell'organizzazione di un tempo) e offre nell'elencazione dei punti di programma un assetto chiaramente di sinistra per una trasformazione del sociale e nel sociale.

E hanno ragione i promotori nell'incipit quando stigmatizzano la degenarazione dei partiti sia negli ultimi periodi precedenti all'avvento del berlusconismo sia nel quasi-ventennio del Cavaliere nero di Arcore. Da guardiani della democrazia, da elemento di crescita della partecipazione alla res publica si sono trasformati in macchine di potere, di clientelismo e hanno violentato l'originario scopo per cui erano nati come felice eredità della Resistenza al nazifascismo e nuova pagina di condivisione delle scelte da parte della maggioranza della popolazione, di quella per lo meno attiva e capace di trascinare anche i più passivi, riottosi o indecisi nella costruzione di un futuro di pace e progresso.

In questi passaggi il manifesto convince e mi convince. Ma solo fino a qui. Quando si spinge oltre, quando la critica ai partiti diventa critica della forma partito in senso assoluto tanto da condannarli al fuoco eterno o al gelo di un lento e progressivo oblio, mi sembra che la soluzione prospettata di un rimescolamento delle carte e della generazione di un nuovo soggetto politico diventi una risposta decisamente sbagliata ad un percorso giusto.

Perché non si opera una distinzione nel rivedere anche profondamente la forma aggregativa del "partito" dalla condanna tutta "grillina" e "malpancista" di destra fatta di anatemi che non salvano nulla e nessuno di tutto l'impegno che in questi ultimi vent'anni (per dare una scadenza temporale che riguardi i fatti a cui si riferiscono gli autori del manifesto) hanno profuso decine di migliaia di compagne e compagni, di persone che anche non si definiscono così come amiamo definirci noi comunisti, noi gente della sinistra comunista?

Si chiede addirittura una riscrittura delle regole democratiche, quindi della Costituzione, per eliminare i privilegi che, anche se non viene nominata, sarebbero tutti quanti della "casta" e ancora si cade e si ricade, anzi si "scade" nel populismo se si individua in questa storia il malanno della nostra vita sociale e civile.

Certo che ci sono dei privilegi che vanno abbattuti. E siccome penso che proprio il "privilegio" debba scomparire dalla storia, di qualunque spessore o qualità si tratti, non credo di poter essere tacciato di amicizia verso la tanto nominata "casta" se dico che anche su questo piano è necessario operare delle distinzioni e dire che le regole che ci siamo dati nel 1948 come Paese che nasceva dalle macerie della guerra mondiale erano e sono ancora regole giuste e che tutte le meschine liti sul sistema di rappresentanza, sul numero dei parlamentari, sul ruolo delle due camere e sulla loro necessità di vita sono esegesi non da costituzionalisti ma, questi sì, da rappresentanti del vecchio potere di casta.

Non mi sembra, dunque, per nulla utile centrare il problema dei problemi su una riforma costituzionale che leghi il cambiamento al numero dei parlamentari o ai loro stipendi. Lo dico da precarissimo quale sono e quindi spero di non essere tacciato, anche qui, per amico degli "stipendi d'oro".

I privilegi da rompere sono altri, anche se una ritoccata alle remunerazioni dei deputati e dei senatori e di tutto l'apparato statale non è di certo sconsigliabile. Anzi. Ma si dovrebbe parlare degli stipendi dei manager, delle titaniche liquidazioni che vengono percepite quando uno di questi va in "pensione". E suona beffardo lo stesso termine se usato per un lavoratore o una lavoratrice, ad esempio, della Fiat.

Ed è proprio qui che il manifesto non da una soluzione non tanto di lungo termine, quanto di medio termine: si arrampica sul municipalismo, sulla partecipazione a livello comunale delle persone individuando proprio nel potere territoriale più piccolo in cui è ripartito il territorio della Repubblica la leva per muovere al cambiamento, facendosi forza sull'esperienza "benecomunista", sui beni comuni dunque.

Non c'è dubbio che le esperienze di Milano e di Napoli rappresentino due fari a cui guardare per comprendere come far evolvere la politica nel senso più pregnante del termine.

Perché è certamente vero che la degenerazione dei partiti ha castrato e mortificato la voglia di milioni di persone se non di essere militanti di una forza politica, anche solo di recarsi al seggio per votare. Ma il manifesto non chiama tutto questo "degenerazione dei partiti" ma "i partiti" e nell'indistinzione commette l'errore di analisi che lo porta poi a produrre un altro errore: nel tentativo anche sacrosanto di andare oltre la semplice "delega" istituzionale, il manifesto esalta l'inclusione come fondamento del nuovo soggetto politico che si vorrebbe costruire.

Ma mi domando e vi domando: forse di errori ne abbiamo fatti tanti, anzi tantissimi, ma nella ventennale storia di Rifondazione Comunista solo per pigrizia mentale, per pigrizia morale, per mancanza di volontà nell'entrare in un processo con l'intento di cambiarlo qualcuno può essere stato spinto a non aderire o a costruirsi, con qualche scissione, il suo partito personale.

Caspita se c'è una degenerazione della forma partito! Esiste, vive tra noi e la vediamo tutti i giorni.

Visto che la mia risposta a tutto questo è il rafforzamento della sinistra e di Rifondazione Comunista come partito anticapitalista capace, insieme alle altre forze ecologiste, socialiste di sinistra fuori dal Parlamento di poter dar seguito ad un polo alternativo per contribuire alla stabilizzazione di una nuova opposizione sociale all'asse trasversale che governa oggi il Paese dal punto di vista delle banche e dei poteri forti, ebbene visto tutto ciò vengo alla domanda finale: perché il manifesto non fa appello a tutta la sinistra affinché si sieda attorno ad un tavolo o a più tavoli di lavoro ed elabori almeno una strategia comune per fronteggiare insieme la crisi economica da un punto di vista politico?

E ancora: perché costruire un nuovo soggetto politico su base assembleare, dando così l'illusione di creare qualcosa di nuovo, quando bene si sa che anche questo soggetto, qualora volesse concorrere al cambiamento del Paese, dovrebbe dotarsi di strutture e regole proprie di un partito, almeno di un partito con parvenze da movimento (come fanno i grillini, ad esempio...).

E infine: perché ci si ferma sempre e solo ad una critica superficiale dei partiti e si da una risposta davvero di destra a tutto questo malessere politico e sociale che viviamo, a questo profondo distacco tra proposta e partecipazione, tra delegato e delegante, tra palazzo e piazza? Perché per una volta non si salva la forma e si tenta di cambiare il contenuto? Perché non si riconosce che qualunque cosa, qualunque strumento non è di per sè buono nè è cattivo, ma che diventa tale dopo l'uso che se ne fa?

Faccio queste domande perché le mie risposte sarebbero definite "conservatrici" a priori, visto che non si trova più nulla di buono nell'attualità e nel passato e visto che si vuole superare il tutto con qualcosa dai tratti molto sottili, dai confini incerti.

da Lanterne rosse, martedì 3 Aprile 2012

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