mafaidi Luciana Castellina

Miriam Mafai è morta ieri e mi sembra impossibile perché era giovanissima, nello spirito, nella vitalità, perfino nell'aspetto, con quei suoi capelli corti e neri che eludevano l'età. Invece era perfino un po' più vecchia di me, e dunque, come me, «era di leva».

Miriam faceva parte di quel gruppo di donne che per via di qualche anno in più quando la mia generazione si iscrisse al Pci, alla fine del '47, erano già «grandi».

Grandi non solo di età, ma perché erano già grandi figure nel partito, che avevano già grandi responsabilità e facevano grandi cose ed erano perciò per noi l'esempio di quanto avremmo dovuto fare anche noi, di come avremmo dovuto diventare. L'ho seguita con rispetto e quando mi è capitato di incontrarla, intimidita, non ho avuto il coraggio di scambiare con lei più di qualche parola. Era a capo dell'Unione delle donne marsicane, dirigente di una delle lotte straordinarie di quegli anni, quella per strappare ai principi Torlonia il lago del Fucino.

Più tardi, in trasferta a Pescara per non so quale iniziativa dell'Fgci in cui militavo, la ritrovai, adesso moglie di Umberto Scalia, segretario regionale dell'Abruzzo, uno dei quadri contadini che allora capitava spesso diventassero dirigenti politici di primo piano. Miriam, a Pescara, aveva continuato il suo impegno ed era, ricordo, consigliere comunale della città. Fui collocata a dormire a casa sua - gli alberghi, all'epoca, ci erano quasi sconosciuti - e in una lunga serata di chiacchiere a briglia sciolta scoprii che c'era anche un'altra Miriam.

Scoprii, intanto, che era figlia di un grande pittore che amavo molto, Mario Mafai. E anche di Antonietta Raphael, la scultrice venuta dall'estremo est europeo carica del fantasioso immaginario delle avanguardie russe. Miriam era cresciuta nell'ambiente bohème degli intellettuali antifascisti, poi conquistati dal comunismo: che avesse scelto la milizia politica era allora naturale, la politica era, in quegli anni, intessuta di cultura; e viceversa.

CONTINUA |PAGINA 5 E questo dava, all'una e all'altra, una ricchezza particolare cui l'intera famiglia Mafai dava un grande contributo.

Il Pci aveva fatto anche questo miracolo. Non il Pci, allora si diceva semplicemente «il partito»; e lo ricordo perché una notte in un vagone a cuccette non so di quale treno ci trovammo senza saperlo nello stesso scompartimento, io sopra che parlavo con un altro e dicevamo sempre «il partito» e, da sotto, ad un certo punto, sentii una fragorosa risata. Era Miriam che ci interruppe per dirci: «Siete del Pci, naturalmente, perché solo noi diciamo il partito».

Poi Miriam cambiò vita perché erano anche cambiati i tempi e in tanti fummo impegnati in altri campi: ambedue nel giornalismo. Lei, da Parigi - perché il suo compagno era stato inviato lì per qualche anno - cominciò a scrivere per la gloriosa Vie Nuove, il settimanale per cui continuò a lungo a lavorare prima di diventare direttrice di Noi Donne (ci siamo molto incrociate: io sono stata sua redattrice, e lei ha scritto spesso per Nuova Generazione, che io dirigevo). Più tardi passò a Repubblica di cui divenne una delle figure più illustri.

Quando, per via della radiazione, i rapporti con tanti compagni «del partito» divennero difficili anche sul piano umano, con Miriam continuammo ad essere amiche: era laica ed aperta, non si sarebbe sognata una rottura per il fatto che eravamo diversamente comuniste.

Non fu facile in quei tempi tesi, tanto più perché lei era nel frattempo diventata la compagna di Giancarlo Pajetta, che verso noi de il manifesto aveva conservato uno speciale rancore.

Ricordo l'imbarazzo, a il Cairo, dove ambedue eravamo volate assieme da Beirut da dove scrivevamo del «Settembre Nero» (io per la Rivista) - era il 1970 - e Nasser morì improvvisamente.

Nella capitale egiziana, dove le cerimonie funebri, seguite da milioni di egiziani piangenti, durarono parecchi giorni io e Miriam, appartenenti a due giornali poveri, avevamo preso una stanza assieme. Da cui dovetti fuggire come un'amante clandestina quando, inaspettato, arrivò Pajetta a capo della delegazione del Pci alle esequie.

Finì anche questa fase e in un modo curioso. Un giorno, era il '79, in redazione non trovavamo la notizia adatta su cui uscire. Capita, come si sa.

Finché venne l'idea, azzardata allora, di far scrivere il responsabile internazionale del Pci sulla neonata unione di gauche costruita in Francia fra Psf e Pcf. Si trattava proprio di Giancarlo Pajetta.

Fino ad allora nessun dirigente del Pci aveva scritto su il manifesto, come chiedere di farlo proprio a lui? Incaricammo della telefonata Franz Koeffler, il nostro compagno sudtirolese che allora dirigeva il desk degli esteri al giornale. Dopo un po' Franz torna mortificato dicendo che Pajetta voleva parlare con me. «Dopo tanti anni mi fai telefonare proprio da un tedesco?» Mi investe. «E dovrei essere il primo a scrivere su il manifesto? E poi, dove dovremmo incontrarci per l'intervista, certo non tu a Botteghe Oscure, tanto meno io al manifesto». Poi, dopo un attimo di esitazione, dice: «Beh, forse adesso viene buona l'amicizia tra te e Miriam. Ci facciamo invitare a pranzo da lei».

E così quell'amicizia mai interrotta ridivenne pubblica.

Poi, poi accaddero tante cose, prima di tutto lo scioglimento de «il partito». Che abbiamo vissuto in modo diverso. Sempre con amicizia e reciproca simpatia.

Ci divertivamo molto insieme perché la qualità più alta di Miriam, fra molte altre, era di essere straordinariamente simpatica. Ciao Miriam.

Ai familiari di Miriam Mafai e alla nostra compagna Giovanna Pajetta, che molto le era legata, l'abbraccio di tutto il collettivo del manifesto.

da Il Manifesto, Martedì 10 Aprile 2012

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