costi-della-politica

di Edoardo Biancardi*

Risultano ormai frequenti i momenti in cui l'impopolarità di una tematica diventa accesa a tal punto da trasformarsi in pensiero unico a favore, esclusivamente a favore, oppure contro, indiscutibilmente contro. Il sistema dei partiti, la loro utilità e il costo della politica è attualmente una di queste tematiche. Ovviamente nel senso che non se ne può parlare senza cadere nella retorica del tutti uguali.

Già. In tempi di tecnici che commissariano de facto una classe dirigente è assunto come dato acquisito che, quando occorre risolvere i problemi, la politica esce di scena alla chetichella, senza eccessivi scalpori, pronta ad emergere in momenti più favorevoli. Le colpe si rimpallano, si vagliano le opportunità e si attende uno squarcio di sole. Nulla di più lontano dall'idea di politica come vocazione, di weberiana intuizione. E però, occorre dirlo, nulla di più vicino a quella che è stata la percezione comune di ampi strati della popolazione. Ma si dovrebbe essere ancora in grado di obiettare che quando questo genere di temi risultino ingestibili dal punto di vista della comunicazione, quello è il campo dove la politica dovrebbe entrare, assumendo pienamente il senso di una responsabilità che le è propria: a maggior ragione se, come già successo in passato, c'è chi sta tentando di cavalcare una diffusa e legittima percezione per riprodurre all'infinito lo schema del finto "nuovo che avanza". E allora all'interno di un esistente dove coabitano le legittime percezioni, l'opportunismo di alcune posizioni anti-casta e l'aspettare che passi "a nuttata", la politica dovrebbe invece creare la sua strada, provare ad analizzare il perché della degenerazione e proporre qualche idea sul come stimolare nuovamente la partecipazione collettiva, considerato che la fase che attraversiamo si caratterizza per una costante: il progressivo restringimento degli spazi democratici.

Potremmo definirla la fase "tecnica". Non occorre ribadirne l'aspetto costituente, ovvero il fatto che la transizione post-berlusconiana non sarà probabilmente breve né sicuramente indolore. In più, la crisi, l'uscita dalla crisi, la gestione della crisi si sono trasformate da oggetto immateriale di un ipotetico seminario, in materia viva, pulsante, che riguarda tutte e tutti. Resta il fatto che stiamo assistendo ad un governo tecnicamente nominato dal politico Napolitano e politicamente autorizzato da un Parlamento tecnico perché di fatto commissariato. Al di là delle differenze concernenti la forma e l'estetica rispetto al predecessore, il governo del prof. Monti nasce esclusivamente per eseguire un dettato esterno. E non c'è da stupirsi, dunque, se i primi a valutare il compito siano soggetti esterni (che si chiamino Europa o più impersonalmente mercati, quelli cioè che hanno imposto il dettato), e non il Parlamento italiano. Non è soltanto un enorme problema di democrazia, la quale si basa su regole materiali e sostanziali che ora vengono aggirate o eluse: è la cifra della progressiva verticalizzazione del potere in qualsiasi ambito della cosa pubblica, italiana o europea che sia. Anche a livello planetario, in una fase caratterizzata dalla spinta alla concentrazione di capitale e dalla crisi strutturale del capitalismo, assistiamo alla formazione di un nuovo scacchiere entro cui presto potrebbe affermarsi l'ennesima tensione imperialista, fra l'altro mai spenta (in un quadro di stato di guerra permanente globale). E, tuttavia, l'estetica del potere si fa regola: il limite palese di rappresentanza dei vari summit (prima G20, poi G8, ora bi-trilaterali, domani chissà) diviene persino secondario dinanzi al gesto mediatico del leader. Si pensi ancora alle reazioni, clamorosamente differenti, di fronte alla risata Merkel-Sarkozy, da un lato, e alla chiusura di Termini Imerese dall'altro, eventi recenti che si sono verificati contestualmente: nel primo caso è il dramma dell'italianità offesa e vituperata a causa di una scarsa credibilità internazionale, è il dramma delle fluttuazioni di borsa, lo spettro dei nuovi mostri pagani, lo Spread e il Bund; nell'altro caso, è il mercato bellezza. Punto.

L'articolo 18 è ormai divenuto l'archetipo di tutti i diritti del lavoro, anche quelli che non disciplina: la volontà profonda non è tanto di modificarlo in un senso tecnicamente più restrittivo, ma di mortificarlo nel suo simbolo di classe, in questa sua funzione di trincea limite, superata la quale si va avanti tornando indietro. E' la voragine che si è aperta tra il senso comune e l'immagine che viene proposta della realtà, l'inconciliabilità tra lo stipendio base di un neo-assunto e quello del suo amministratore delegato. E' l'assenza di limiti nell'attacco alle basi di quello che un tempo si chiamava patto sociale. Questa incomprensibile distanza dalla realtà vissuta da tutte e tutti noi nel nostro quotidiano, che è destinata ad ampliarsi in presenza di ulteriori manovre inique, genera e amplifica le contraddizioni che già osserviamo in questi giorni. Ve ne sono molte che ci parlano delle difficoltà del cerchiobottismo: come quando si parla contemporaneamente di equità e di riforma delle pensioni, di sviluppo e pressione sui salari, di trasparenza e privatizzazione dei beni comuni. Non è difficile individuarle, sono tutte altamente palesi. Ma - e qui sta il punto della riflessione - tali contraddizioni non chiameranno in causa soltanto chi proverà, fallendo, a gestirle. Toccheranno anche quelle forze che con coerenza hanno continuato a denunciare prima la deriva e poi hanno lottato per contrastarla, ma senza produrre azioni politiche conseguenti e rilevanti. Le comuniste e i comunisti in buona sostanza non potranno accontentarsi di indicare cosa non funziona, né di rivendicare "noi l'avevamo detto": nella fase tecnica, lo spazio per la semplice posizione politica è infatti annullato.

Ma quanto costa abbattere le mura del recinto, ovvero fermare il progressivo restringimento dello spazio, oppure anche solo tenere aperto un piccolo cancello? In buona sostanza, ciò richiede di rispondere a due domande: quanto costa la democrazia e quanto una società in un dato momento del suo sviluppo intenda investire per salvaguardarla. Se si parla genericamente di costo della politica, la risposta è già scritta: il recinto è chiuso. In quest'ottica, infatti, la politica è vista come nebulosa indistinta, dove ogni atto è prodotto per riprodurre solo l'immagine di se. Se la percezione è questa - ed è ovviamente negativa - aggiungervi un ulteriore elemento negativo (ovvero un costo) non può che produrre un esito scontato. Se invece si affronta il tema del costo della democrazia, allora ciò significa riconoscere, anzitutto, che non esiste sistema perfetto, che non siamo il migliore dei mondi possibili, che il rischio della degenerazione della politica, così come di altri settori della società, è vivo e lotta insieme a noi. Ma significa evidenziare anche, in seconda analisi, che investire in democrazia equivale a riconoscere che il costo che oggi pago per garantire la possibilità d'espressione a più voci mi tutela da derive oligopolistiche, autoritarie, dittatoriali. E' evidente che stiamo parlando di un investimento, di qualcosa di molto più intangibile dell'acquisto di un bene; e che, come per tutti gli investimenti, occorre che quanto costruito sia migliore di quanto lasciato. Su quest'ultimo punto si apre la discussione di questi giorni: Il caso Lusi ha aperto il classico vaso da cui escono tutti i mali, mostrando, allo stesso tempo, verità e opportunismi mediatici.

Partiamo dalle verità. Il referendum del '93 c'è stato ed è stato chiaro. Non convince molto la tesi che il risultato era stato in qualche forma "pilotato" dall'ampia e ancora fresca drammatizzazione della tematica di Tangentopoli: tale giudizio assomiglia troppo a quello di coloro che hanno detto che il recente referendum sul nucleare era discutibile perché c'era troppa enfasi su Fukushima. Tuttavia, il fatto che successivamente il rimborso elettorale sia stato impostato su un rapporto sbilanciato tra spese sostenute e quantum riconosciuto (a vantaggio di quest'ultimo) dimostra che il referendum aveva sì sollevato il problema, ma non lo aveva risolto. L'obiezione, che ha una sua logica, è che il referendum non ha il compito di sostituirsi alla politica. E allora un primo passaggio dovrebbe essere proprio quello di affrontare il tema, seppure scomodo dal lato mediatico. Inoltre, una verità da dire è che una formazione politica che non esiste più come soggetto politico (vedi la Margherita), non può continuare a percepire finanziamento pubblico. Ulteriore verità è che se il rimborso è legato a una legislatura e quest'ultima finisce, deve finire anche il finanziamento ad essa legato. Fin qui le considerazioni sul come finanziare la democrazia; occorre poi ragionare sul come sono investiti tali fondi. E allora credo che sia doveroso prevedere non solo la diffusione dei bilanci, primo atto indispensabile, ma anche rendere le informazioni sulla destinazione delle proprie risorse il più possibile accessibili. La rete offre molte possibilità in tal senso.

Questo è un elemento decisivo, in particolare per quelle formazioni politiche che fanno della trasparenza della cosa pubblica un tratto distintivo di molte loro battaglie.

Se è vero quanto detto in precedenza, ovvero che questi sono temi rispetto ai quali la politica non dovrebbe nascondersi, allora è bene cercare di rompere da subito il recinto del "tutti uguali". Anche perché in realtà quello che si sta verificando, sfruttando il clamore mediatico dei casi di malaffare, è un ulteriore restringimento del recinto. I difensori dell'esito referendario sul finanziamento pubblico, che talvolta paradossalmente coincidono con i maggiori detrattori degli esiti dell'ultimo referendum sui beni comuni, si appellano al caso Lusi per sostenere la fine definitiva del finanziamento pubblico ai partiti. Si invoca il modello statunitense, fatto di grande contribuzione privata (ma anche di fondi pubblici) e di ampia visibilità su chi, come e quanto ha speso per il sostegno di questo o quel candidato. In linea di principio - questa è l'idea forte che viene avanzata dai difensori di questo modello - se ho tutte le informazioni su chi finanzia il mio candidato, posso allora giudicare se fidarmi o meno di quello che mi sta dicendo.

Questo ragionamento, però, si focalizza soltanto su uno degli elementi della competizione elettorale: cioè esclusivamente sull'elettore. Restano sullo sfondo l'effettiva varietà di posizioni, i candidati, e, cosa ancora più importante, le scelte che questi ultimi potranno concretamente porre in essere. Prendiamo ad esempio la campagna per le presidenziali Usa del 2008: complessivamente ed esclusivamente per quelle elezioni, furono raccolti oltre 1 miliardo di dollari e Obama spiccò per la miriade di contribuzioni private. Fu posto in risalto il fatto che moltissime di queste erano inferiori ai 25 dollari, aspetto che denotava una vasta partecipazione popolare all'investitura a presidente. Meno risalto invece è stato dato all'analisi dei grandi contributi, ovvero a quelle decine di soggetti che di fatto hanno consentito di raggiungere i budget minimi con i quali potersi presentare a competere per le elezioni. Infatti, se volessimo muovere verso il modello statunitense, oltre alla personalizzazione, alla spettacolarizzazione della politica e alla disaffezione complessiva (in Usa, nei momenti di massima partecipazione, la percentuale dei votanti supera di poco il 60% degli aventi diritto), dovremmo iniziare a introiettare il concetto di budget minimo. Questo consiste nel principio che ancor prima di parlare di programmi, di idee, di persone, occorre saper trovare i soldi: se li hai puoi iniziare a parlare, altrimenti è inutile.

Ma andando a vedere davvero chi sono i grandi finanziatori della campagna per le presidenziali del 2008, si osserva che, per quanto riguarda i due principali candidati di allora, quasi tutti i settori - quello finanziario in testa - non hanno fatto sostanziale differenza fra Democratici e Repubblicani. Stiamo parlando ovviamente di centinaia di milioni di dollari. Ma allora avrebbe potuto esserci qualche dubbio, ad esempio, sul fatto che, a prescindere da chi fosse realmente eletto, uno degli interventi pubblici di più vasta entità al mondo si sarebbe concretizzato nel salvataggio del sistema bancario statunitense a spese del contribuente? Eravamo all'inizio della crisi, quando si scommetteva ancora sulla salute del sistema e si indicava la necessità di mettere un freno a qualche deviazione finanziaria; si passò poi dal "too big to fail" ai disastri dei mutui e della Lehman Brothers, fino al panico internazionale. Di fronte a quella situazione, la scelta fu di dare soldi pubblici alle banche, sollevandole da partite tossiche al loro interno: esempio dell'ormai tristemente famosa pratica della socializzazione delle perdite. Il risultato è stato che, nel biennio successivo, quando la crisi ha svelato la sua vera e strutturale natura, uno dei pochi settori a continuare a macinare profitti è stato il sistema creditizio: non la banca cooperativa che presta soldi alla piccola e media impresa, magari scontando crediti che questa non riesce ad avere dallo Stato in crisi di liquidità, bensì le poche multinazionali del ramo, ovvero i grandi attori della speculazione. Il paradosso conclusivo della svalutazione del rating Usa da parte di quegli stessi soggetti è stato poi il degno finale della storia.

Ma il punto qui non è di ripetere cose ormai note sul potere infinito di alcuni soggetti transnazionali. Il fatto è che quando si parla di altri sistemi di finanziamento della politica occorre tenere presente tutti gli aspetti, e cioè ragionare anche sull'effettivo livello della libertà di scelta. Provando anche a fare esempi concreti. Ipotizziamo che il sistema di raccolta fondi statunitense venga introdotto in Italia nella sua versione più "radicale". Negli Usa esiste la possibilità di creare dei grandi comitati che hanno lo scopo di raccogliere fondi (illimitati) o a favore di un candidato o per fare campagna contraria ad un altro: comitati "fiancheggiatori" di una campagna. Stiamo parlando dei cosiddetti Super-PAC (Political Action Committee).

Se immaginiamo la creazione di alcuni comitati che possono raccogliere fondi illimitati per una campagna elettorale in Italia, dobbiamo pensare, in primo luogo, ai grandi gruppi bancari-assicurativi (UniCredit, Mediobanca, Generali etc.) e ai grandi destinatari di appalti pubblici (da una futura Finmeccanica privatizzata ai furbetti del quartierino). E dobbiamo ipotizzare che nel medio periodo tali entità, da un lato, finanzino in pari misura l'intero arco delle forze politiche presenti nel Parlamento e, dall'altro lato, risultino in molti casi i destinatari delle scelte effettuate da quello stesso sistema politico. Alla tradizionale concentrazione in pochi soggetti del capitalismo nostrano, quindi, si andrebbero ad aggiungere ulteriori e tali intrecci da far impallidire il concetto di conflitto d'interessi così come l'abbiamo conosciuto nella versione berlusconiana. Si produrrebbe nei fatti un sostanziale bipolarismo sempre più sfumato nelle differenze sulle grandi scelte.

E' questo il modello sul quale puntare? Prima rispondere a tale domanda sarebbe bene tenere a mente che nello stesso Paese dove è in vigore questo sistema, già da diversi anni, sono emerse fortissime perplessità. Basti, ad esempio, notare al riguardo il titolo di un recente editoriale de The New York Times sulle prossime elezioni presidenziali: Another Campaign for Sale, un'altra campagna in vendita. Nello specifico dell'articolo, si critica il fatto che nel 2008 Obama aveva definito i Super-PAC "una minaccia per la democrazia", salvo piegarsi per necessità al loro fascino per la campagna di quest'anno. Oppure si guardi a cosa scriveva pochi giorni fa il britannico The Guardian: "L'arrivo dei superPACs ha permesso alle grandi corporazioni di prendere il controllo dei processi della campagna elettorale ad un livello che non ha precedenti (...) Oggi più che mai la politica statunitense è una politica in vendita ai grandi donatori. La politica europea può essere frustrante in molti modi, ma è bene non avvicinarsi a questo esempio americano". Di questo si tratta. Se s'introduce il modello del lobbismo trasparente, s'introduce un ulteriore restringimento dello spazio. Come detto - ma è bene ripeterlo - chi può accedere al budget minimo partecipa, chi non riesce a raccogliere non partecipa.

Sarebbe certo sbagliato difendere l'esistente, perché come già detto la percezione diffusa è l'inutilità complessiva del sistema e l'iniquità del sostenimento pubblico del suo costo. E la deriva è pericolosa, in particolare in un Paese sempre alla ricerca dell'evento messianico. Occorre reagire subito, introducendo maggiori vincoli e rigidità dal lato del controllo e maggiore trasparenza nei metodi dell'operare. Recuperando anche l'orgoglio di far vedere la propria casa e come viene gestita, come prova di quello che si è voluto fare e come esempio di ciò che si potrebbe proporre, ripristinando il senso di fiducia oggi mancante. Ma torniamo alla fase tecnica; e aggiungiamo a questo scenario due ulteriori elementi: la riforma del sistema di contribuzione per l'editoria e la nuova legge elettorale. Con la prima si compie un'azione speculare all'ipotesi di riforma del finanziamento pubblico ai partiti: siccome esistono casi in cui false testate hanno rubato soldi pubblici, eliminiamo il sistema. Il risultato, colpevolmente agevolato anche dai vari Grillo, è stato quello di mettere in difficoltà se non di far chiudere - si spera solo provvisoriamente - testate vere e libere come Liberazione, il Manifesto e altre realtà meno note, senza minimamente scalfire la posizione di chi possiede una sua fonte di finanziamento illimitata (appunto il modello super-PAC). Con la legge elettorale, invece, si proverà a andare verso una soluzione che cerchi di tenere insieme la presenza di pochi soggetti grazie a un forte sbarramento, la possibilità del terzo polo di affermarsi e del PdL di non perdere definitivamente l'alleanza con la Lega. A fronte dell'inevitabile restringimento degli spazi democratici, ovviamente sarà offerta all'opinione pubblica l'idea del tornare a scegliere in prima persona tramite l'indicazione dei candidati.

Come in tema di finanziamento pubblico alla politica, anche sulla riforma dell'editoria vanno condotte contestualmente due decisive battaglie: per il ripristino del diritto soggettivo delle testate ad accedere ai fondi e per la difesa del senso profondo dell'investimento in democrazia che lo stato deve compiere per tutelarsi nei confronti della degenerazione oligarchica. Pretendere un diritto e verificare l'utilizzo di quel medesimo diritto vanno di pari passo.

*segreteria Federazione romana Prc

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