di Dino Greco

Reperto archeologico”. Con questo lapidario e irrevocabile giudizio, Luca Nivarra (il manifesto del 10 gennaio) suggerisce di mandare in soffitta la Costituzione del ’48, arnese ormai esausto, utile un tempo che fu, ma di cui si sono perse le tracce, tanto sono mutate struttura e sovrastruttura della società italiana.vIrriducibili vestali”, “anime belle”, presenti “a legioni” soprattutto a sinistra, sono per Nivarra quanti – in compagnia di qualche “guitto televisivo” – si ostinano a riesumare i fasti della Carta, ormai ridotta a feticcio adorato da ingenui e da ipocriti.

La tesi di Nivarra è semplice: il mondo è cambiato. Lo è il fondamento normativo dell’adesione all’Unione europea, con il dogma del pareggio di bilancio che fa fuori, in un sol colpo, la sovranità dei paesi membri e, appunto, mezza Costituzione; lo è il lavoro fordista, “soppiantato da una nuova e inedita composizione della forza lavoro”; lo è perché “i partiti di massa e il sindacato sono evaporati come nebbia al sole, sostituiti da oligarchie dedite alla riproduzione di se stesse”; lo è – ancora – per la torsione in senso maggioritario della legge elettorale che ha stravolto i meccanismi della rappresentanza.

Insomma, la Costituzione avrebbe perso ogni “significato emancipatorio” perché non in grado di “legittimare pratiche di conflitto sociale nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico”, quella che – continua Nivarra - ha per forze propulsive i movimenti.

Osservo, di passaggio, che per pura coincidenza, altrettante legioni, accampate questa volta nei quartieri della destra e dei poteri forti, invocano a loro volta la messa al macero della Carta, nell’insieme e nelle parti ma, soprattutto, con invidiabile lungimiranza, nel suo TitoloIII, quello che si occupa dei “rapporti economico sociali”, che afferma il primato dell’interesse sociale su quello privato e che prevede – ove il primo sia sopraffatto – l’intervento dello stato, l’esproprio di attività produttive o di servizi condotte in termini lesivi della libertà, della sicurezza, della dignità umana e la consegna di quelle attività a gruppi di lavoratori, a comunità di cittadini, o allo stato medesimo perché sia ripristinato l’interesse comune vulnerato. Una cosetta da niente, insomma, come la facoltà di intervenire dentro i rapporti di proprietà, cosa considerata dal pensiero liberale niente più niente meno che un’usurpazione, un’aberrazione ideologica mutuata dal pensiero socialista e marxista, contro la quale si è battuto senza soste Berlusconi (ce lo ha ricordato anche ieri sera, nel Circo Barnum di Santoro ) oltre che (e più di ogni altro) Mario Monti, il quale, senza indugiare in proclami, ha in quest’anno praticato con grande coerenza e maggiore efficacia lo stesso obiettivo.

Ora, è evidente a chiunque che la costituzione materiale impostasi nel tempo si è totalmente divaricata da quella formale e ne ha nei fatti divelto gran parte dell’impianto. E lo è altrettanto che il referendum celebrato anni or sono per impedirne lo stravolgimento ha difeso la lettera della Costituzione, senza poter compiere il miracolo politico di farne rivivere la sostanza, consegnata com’è a rapporti di forza fra le classi che hanno drammaticamente spostato il pendolo dalla parte del capitale.

E’ persino superfluo procedere ad una pur sempre istruttiva analisi del testo, articolo per articolo; basta uno sguardo d’insieme per capire quanto la situazione reale sia cambiata , quanto la produzione legislativa abbia tradito precetti e prescrizioni costituzionali, sino al punto da rendere irriconoscibile la fonte normativa di cui avrebbe invece dovuto nutrirsi.

Del resto, la Costituzione, questa Costituzione, non è stata solo il risultato della guerra patriottica contro l’occupante nazista, né solo l’esito della guerra civile ingaggiata per liquidare il fascismo, ma anche – per dirla con le parole dello storico Claudio Pavone – il prodotto di una guerra di classe che ha avuto per protagonisti gli operai e il Partito comunista.

Dire che non siamo più lì e che oggi, come ci ricorda il miliardario Warren Buffet, la lotta di classe la stanno facendo (e vincendo) i ricchi contro i poveri è un’ovvietà inopinabile.

Ma allora? Perché mai si dovrebbe concludere che la Costituzione ha cessato di dire quel che aveva da dire e che ancora oggi può ispirare? Non solo perché non è stata mai davvero attuata, ma neppure esplorata in tutte le sue straordinarie potenzialità. E perché si dovrebbe trarre dalla sconfitta – questa sì storica – del movimento operaio, l’autolesionistica conclusione che il progetto politico che vive nella Costituzione debba essere consegnato all’oblio, nuovo capitombolo dell’interminabile damnatio memoriae che perseguita la sinistra malata di recidivante pentitismo? Forse perché la Costituzione è oggi fuori dal mercato delle ideologie correnti? E cosa vuol dire che “siamo entrati in una fase costituente” che obbliga a rivedere tutto? Forza, chi ha qualcosa di meglio da offrire? E per andare dove?

Postcomunisti, postmoderni ed ora postcostituzionali. Francamente, ho l’impressione che dietro la particella “post” si nascondano furbizie opportunistiche che a loro volta preparano ancor più sostanziali abiure e rinunce.

Nel tempo che registra la fioritura di agende e agendine, dove ogni pensiero robustamente innervato è considerato un retaggio ideologico del Novecento, dove ai partiti organizzati ed espressione di classi sociali si sono sostituiti comitati elettorali funzionali all’occupazione del potere fine a se stessa, dove il dogma della competitività e del profitto ha derubricato tutti i fondamentali diritti di cittadinanza, è bene che ci teniamo ben stretta la nostra Costituzione, non per affidarla a vuote esercitazioni retoriche, ma per tornare a farne un formidabile strumento di lotta politica.

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