di Pierfranco Pellizzetti

«Negli anni Venti, il partito comunista sudafricano si batteva con lo slogan ‘Lavoratori di tutto il mondo unitevi per un Sudafrica bianco!’. Non era poi così assurdo: il movimento politico che alla fine impose l’apartheid aveva forti radici popolari e persino socialiste» Paul Krugman [1]
In principio fu MicroMega, con quel suo lodevole “fuoco amico” (cioè senza guardare in faccia nessuno) che talvolta la porta a puntare l’arma della critica proprio contro i soggetti meno lontani dalla sua collocazione politica. La nostra rivista già lo fece con Idv, quando Antonio Di Pietro ne era probabilmente il principale referente, smascherando

l’infima qualità di buona parte del suo personale dirigente e l’attitudine del leader a imbarcare personaggi assai poco raccomandabili (da Scilipoti a Paladini, passando per i De Gregorio). Operazione verità in anticipo sull’intero universo dei “prudentissimi e intimamente corrivi” media nazionali. Più di recente la stessa operazione demistificante si è ripetuta con il fenomeno “grillismo”; esplorato nei suoi inquietanti aspetti segreti quando ancora era moneta corrente criticarlo parlandone nei termini superficiali del folklore genericamente denigratorio (populista… criptofascista… qualunquista… e così via). Da micromeghiano di lungo corso mi piace sottolinearlo: ancora una volta esempio, prezioso quanto inusuale, di come si possa fare analisi politica militante senza vassallaggi psicologici e/o condizionamenti vari.

Infatti, ben prima del maggio 2012, data dell’esplosione del fenomeno, nel numero 5 del 2010 MicroMega apriva una finestra sul MoVimento guidato da Beppe Grillo: dopo un intervento furbetto dell’acrobata con la rete di sotto Andrea Scanzi («Grillo è urticante, manicheo, esagitato, ma sa di cosa parla. Conosce la materia, anzi le materie. Ha fonti di prima mano» … anche quando afferma che l’AIDS non esiste?), l’indagine di Pietro Orsatti – “Grillo e il suo Spin Doctor” – che proferiva il nome dell’eminenza grigia sino ad allora defilatasi nell’ombra: Gianroberto Casaleggio. Poi quest’anno – sul numero 4 – ecco la sfilata di tre reduci dal successo elettorale sotto le insegne grillesche diventate Cinquestelle: Riccardo Nuti, Davide Bono e Paolo Putti. Un confronto da cui emerge con chiarezza un solo dato: l’estrema prudenza intimidita di questi politici (apparentemente) di nuovo conio nel tenere profilo basso e non incorrere nelle reprimende del/dei boss; che non tollerano gli si faccia ombra. Pena la scomunica.

In questi giorni arrivano in libreria i saggi sul fenomeno del momento scritti proprio da due giovani blogger del sito micromeghista: Giuliano Santoro (classe 1976) e Matteo Pucciarelli (classe 1984). Il primo (Un Grillo qualunque, Castelvecchi) offre una riflessione tra l’antropologico culturale e la semiologia del web che privilegia il laboratorio delle idee, l’altro (L’armata di Grillo, ed. Alegre) è autore di un’inchiesta attenta alla cronaca e ai personaggi, dunque ai fatti; anche se il postfatore di Pucciarelli – Marco Bracconi – ci propone una suggestiva lettura misticheggiante della trimurti venerata dai grillini (o – politicamente più corretto – dai “grillisti”: prestare molto attenzione alle terminologie, appurata la loro permalosità…): «nella retorica della nuova Era se internet vale Dio, allora l’ex comico è solo il profeta. E non serve un fuorionda per capire in questa metafora intrinsecamente totalitaria che Casaleggio è lo Spirito santo».

Se ne consiglia la lettura congiunta per trovare risposta a un quesito di non facile soluzione: il grillismo come estrema metamorfosi o definitivo superamento del ventennio berlusconiano?

Qui dico la mia: al di là degli arcisgradevoli connotati biografici del Cavaliere di Arcore, che ne è stato l’indiscusso interprete nazionale, la forma assunta dalla politica nei due decenni trascorsi è stata quella che (il citato da entrambi i nostri autori) Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”, in cui ««partiti tendono a diventare strumenti al servizio del leader… i mass media favoriscono determinate qualità personali… ciò che chiamiamo figure mediatiche» [2]. La scena politica si trasforma nel set di un reality dove ai cittadini/spettatori rimane solo il diritto ad applaudire. Un altro maître à penser dei nostri saggisti – Gianpietro Mazzoleni – parla di “politica pop”, in cui si assiste al «dominio dell’immagine e dell’emozione sulla parola e sul ragionamento» [3].

In questa mutazione della rappresentanza in rappresentazione, che determina la sovrapposizione del regno del falso con quello del finto, non si colgono effettive soluzioni di continuità tra il tycoon della televisione e la star televisiva che scelse l’esilio nel web: dalla rimessa a nuovo del comizio senza contraddittorio (per l’uno la videocassetta registrata, per l’altro la performance scenica) all’alimentazione di una mistica del personaggio (l’unzione del signore o la studiata lontananza interrotta da improvvise apparizioni) che aggrega folle di adoratori inneggianti al taumaturgo. Folle la cui condizione psicologica è quella dello smarrimento in cerca di approdi nelle attuali involuzioni del contesto sociale ed economico; sicché – riguardo ai grillini – il nostro Santoro parla di «emozione connettiva».

Ulteriore elemento comune è la necessità di ghost writer che forniscano contenuti al loro essere “personaggi in cerca di autore”, sebbene connotati da una iomania all’ennesima potenza: Baget Bozzo o Giuliano Ferrara per Berlusconi; Antonio Ricci, Michele Serra e Stefano Benni per il Savonarola di Sant’Ilario. E poi arriva Casaleggio…

Ma prima di affrontare quest’ultima faccenda, ancora una considerazione: la totale inutilizzabilità nei confronti di entrambi delle categorie “destra/sinistra”. Visto che le loro prese di posizione obbediscono esclusivamente a una attitudine quasi animalesca di coltivare il proprio vantaggio. Anche se – in effetti – la questione risulterebbe accantonata da quando le organizzazioni politiche di massa del dopoguerra si trasformarono in “partiti omnibus” (solo che allora il pudore e la Guerra Fredda trattenevano dall’esplicitarlo).

Tralasciando il carnevale continuo berlusconiano, Grillo può essere al tempo stesso iperliberista in materia di giornali, xenofobo in materia di figli di immigrati, perdonista in materia di mafia (che non strangolerebbe le proprie vittime…), decrescizionista felice in materia di sviluppo, statalista in materia di acqua pubblica, propugnatore della democrazia diretta in materia di riforma delle istituzioni, élitista oligarchico in materia di gestione del proprio movimento e così via. Ma sempre facendo passare pensierini banali e facili da ricordare per punti programmatici.
Un eclettismo che gli consente di pescare in tutti gli stagni. Come riferisce Pucciarelli: non voto 24%, IDV 18%, Popolo della Libertà 15%, PD 13%, Lega 7%, Terzo Polo 7%, sinistra radicale 5% (pag. 117).

Se proprio vogliamo individuare il vero bersaglio in una rincorsa all’acchiappatutto, questo si chiama establishment, tanto di destra come di sinistra. Quell’establishment che era anche la bestia nera di Berlusconi o di Bossi; entrambi arrampicatori sociali carichi di risentimenti e voglie di rivalsa. Questo dato sociologico vale anche per Grillo (e magari per il feticista del capello Casaleggio)?

A questo punto aggiungo alle analisi di Santoro e Pucciarelli un dato che solo io posso conoscere, in quanto genovese e per di più affetto da qualche tic alla Bourdieu.
Beppe Grillo – riferiscono i nostri amici – nasce a Savignone e cresce nel genovese quartiere di San Fruttuoso. Savignone? Trattasi di un ameno paesino sulle propaggini dell’Appennino ligure, dove dalla fine dell’Ottocento la borghesia genovese delle buone maniere costruiva le sue ville e coltivava le proprie reti di relazione. Ancora negli anni Settanta del secolo scorso qui villeggiavano e socializzavano tra loro le grandi famiglie (compresa quella di Fabrizio De André, il cui padre presiedeva Eridania Zuccheri). Ma nessuno dei villeggianti bennati avrebbe mai considerato i fratelli Grillo, uno dei quali di nome Giuseppe. Fratelli che a Genova abitavano in una zona semi-periferica da ceto medio basso, popolata da una piccolissima borghesia abbastanza di destra in quanto antioperaia e nevrotizzata dal presidio della propria modesta “distinzione” sempre a rischio. Tanto che il ragioniere Grillo (allora Giuse) i primi contatti con la politica li ha con un portaborse del futuro ministro Alfredo Biondi, esponente dell’ala goliardica del Pli malagodiano e specializzato nel comizio a battute (genere in cui ha sfogo il cattivismo ringhioso dell’ethos locale e che sarà riportato in auge dal futuro guru Cinquestelle). Un politico – il Biondi – che diceva agli amici: «fino all’ombelico sono liberale, sotto resto fascista». Qualcosa di questo percorso formativo è sedimentato nei retropensieri grilleschi? Il quale scopre l’anima gemella in Casaleggio, perito industriale con lo stigma del parvenu pretenzioso; la presunta mente finissima e acculturata di cui si conoscono le simpatie per quella scuola d’Atene della politica in sedicesimo rappresentata dalla Lega.

Chi scrive non è in possesso di elementi biografici anche per il consulente aziendale di web marketing riciclatosi a Beria (o Rasputin) di Beppe Grillo. Conosce – però – qualcosa del milieu in cui il Casaleggio opera: l’area della consulenza soft milanese. Ossia la galassia di aziende e aziendine specializzate a infiocchettare banalità per vendere pacchi, doppipacchi, e contropaccotti (sia per conto del cliente, sia al cliente stesso). E il prodotto si chiama “comunicazione”. Negli anni Novanta gli atelier meneghini consulenzialesi lavorarono alacremente per costruire la neolingua berlusconiana (“comunista” come sinonimo di infamia, “giustizialista”, “mettere le mani nella tasche dei cittadini” quale metafora terroristica per pagare le tasse, ecc.). Vent’anni dopo la stessa consulenza milanese inventa il lessico con cui costruire gli immaginari per gli adepti del nuovo che avanza nella rete: “psiconano”, “pdmenoelle”, “supercazzola”, e così via.

Gli intellettuali organici all’establishment sentenziano: “populismo” (che nella loro veterolingua sta per “fascismo”). Mentre – in effetti – il primo e autentico partito populista antiestablishment (prodotto americano di metà Ottocento) invocava il ritorno alla “vera democrazia” [4], in quanto sottratta ai maneggi e alle mistificazioni dell’élite plutocratica; e riusciva ad essere – al tempo stesso – proletario, di sinistra e perfino reazionario. Come quei comunisti populisti sudafricani di inizio Novecento, propugnatori dell’apartheid. Di cui alla citazione di Krugman in epigrafe.
A riprova che le schematizzazioni basate su meri presupposti ideologici spesso confondono le idee.

Intanto il consulente e il comico che vogliono abbattere l’establishment lavorano in perfetta sintonia, anche perché – come si dice a Genova – «hanno la loro bella convenienza». In termini di business.
Inutile criticarli troppo, accertato che l’establishment da rottamare è peggio di loro.

Matteo Pucciarelli, L’armata di Grillo, Alegre, Roma 2012
Giuliano Santoro, Un Grillo qualunque, Castelvecchi, Roma 2012

NOTE

[1] P. Krugman, La deriva americana, Laterza, Bari 2004 pag. 296
[2] B. Manin, Principio del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna 2010 pag. 244
[3] G. Mazzoleni e A. Sfardini, Politica pop, il Mulino, Bologna 2009 pag. 34
[4] M. L. Salvadori, L’Europa degli americani, Laterza, Bari 2005 pag. 264

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