di Giacomo Bottos

Si va formando una corposa corrente di opinione che propone di uscire dalla crisi essenzialmente con misure di stampo liberista: liberalizzazioni, privatizzazioni, deregolamentazioni.

Si tratta di una ricetta che affonda le sue radici in una lettura della realtà italiana ormai da tempo consolidata: l'Italia non avrebbe mai avuto una sua riforma liberale, sarebbe ingessata da corporativismi, veti incrociati, privilegi, "diritti acquisiti", elevata tassazione e spesa pubblica improduttiva che inibirebbero le potenzialità di crescita del paese.

Certamente esistono alcuni tratti di verità in quest'analisi, e la responsabilità di questo stato di cose è condivisa non solo dalla politica ma anche in buona parte dalla classe imprenditoriale (che ha investito in misura assolutamente inferiore rispetto agli omologhi esteri negli ultimi 20 anni) e dirigente in generale.

Tuttavia limitarsi a quest'analisi, in questa fase storica, ripetendo sostanzialmente ciò che si è detto sempre negli ultimi 20 anni, rischia di essere drammaticamente insufficiente.

In primo luogo lo è perchè prescinde dal fatto che la "Seconda Repubblica" ha visto, rispetto al passato, notevoli provvedimenti di liberalizzazione, e sopratutto di privatizzazione. Il bilancio di questa esperienza è, a essere gentili, fallimentare. L'Italia è cresciuta in questi vent'anni meno che in tutta la sua storia repubblicana.

A questa realtà, troppo macroscopica per essere negata, in genere si ottiene la risposta che le privatizzazioni e le liberalizzazioni non furono veramente tali, o furono fatte male. E si potrebbe anche convenire con questo rilievo.

Ma allora si potrebbe rispondere: cosa fa pensare che questa volta verranno fatte meglio, la buona volontà? E sopratutto, perchè questa pazienza, questa disponibilità a dare seconde e terze chance a una politica male applicata viene impiegata così volentieri per questo genere di provvedimenti e non invece per l'industria di Stato? Industria di Stato che, a differenza di quella privatizzata (che ha visto pressochè ovunque incrementi di tariffe, stagnazione degli investimenti ecc.) nella nostra storia ha dato, accanto a prove negative, anche ottime performance. Si pensi alla all'eccellenza italiana nella siderurgia nel primo dopoguerra, alla grande parabola dell'Eni (di cui ho parlato in un articolo precedente), al fatto che le industrie italiane più internazionalizzate oggi, nel 2012 sono due industrie a partecipazione statale (come risulta da questo grafico). Nei confronti del pubblico non si pensa mai che la gestione possa migliorare, non si fa mai notare come già esistano esempi di gestione virtuosa accanto a quelli negativi. Prevale solo il cupio dissolvi, una sentenza di irrimediabile e inevitabile destino di corruzione.

Il che è quanto meno singolare, perchè sembra astrarre completamente dalla situazione storica in cui ci troviamo, sembra indulgere a una serie di significative dimenticanze.

  1. Che la crisi finanziaria del 2007-2008, le cui conseguenze ci troviamo ancora a vivere è stata caratterizzata da un atteggiamento irresponsabile del settore bancario privato e da una commistione perversa tra operatori del settore e agenzie di rating. Si era realizzata una pervasiva situazione di collusione, corruzione e conflitti d'interesse.
  2. Che solo l'intervento e il salvataggio pubblico ha impedito che la crisi globale degenerasse in un collasso generale del sistema.
  3. Che molti dei deficit e dei debiti statali che ora sono al centro della cosidetta "crisi del debito sovrano" sono stati creati proprio salvando le suddette banche.
  4. Come se non bastasse lo scandalo Libor sta rivelando sotto i nostri esempi un altro enorme esempio di corruzione, non episodico (come magari si poteva sostenere per altri scandali passati, come Enron, Madoff, Worldcom) ma assolutamente sistemico e tanto più grave in quanto riguardava un tasso d'interesse centrale nel "meccanismo di autoregolazione del mercato". Questo significa che il mercato che credevamo libero non lo era affatto ma era invece controllato da un cartello.

Tutto ciò non è avvenuto nella "statalista" e "corporativa" Italia, ma avuto il suo epicentro negli Stati Uniti e in Gran Bretagna ovvero nei paesi del "liberismo reale". Naturalmente a questi scandali, ben più gravi e pervasivi di quelli in salsa italiana, non viene riservata la stessa attenzione dalla nostra stampa.

Ora tutto ciò dovrebbe quantomeno indurre a domande, dubbi, interrogativi. Un sistema che, anche nelle sue applicazioni suppostamente più riuscite si rivela essere un ricettacolo di corrutela e manipolazione, non può semplicemente essere difeso dicendo che si è abusato di esso. Purtroppo noi abbiamo a che fare con la realtà e non con idealizzati modelli teorici. Posto che l'imperfezione agisce in qualunque opera umana ci si dovrebbe almeno chiedere se al "controllo dei mercati" di cui vediamo ora tutti i limiti non sarebbe preferibile, pur impegnandosi per migliorarlo e riformarlo il "controllo degli elettori".

Difatti in tutto il mondo ci sono discussioni di questo tipo. Ma i liberisti di casa nostra, quand'anche ammettono questo aggiungono che "per noi è diverso". Nessun tentativo di analizzare in maniera più sfumata e complessa il grande esperimento di "economia mista" della prima Repubblica. Nessuno scrupolo di rendere le narrazioni storiche più sfumate e di arricchirle di nuances. Nessuna analisi che provi a discutere il processo di costruzione europea al di fuori della sterile contropposizione di europeismo e antieuropeismo militante.

Se così insistentemente tutti da noi sostengono questa tesi della "inferiorità ontologica italiana" non dobbiamo poi stupirci se manca nei nostri confronti la considerazione e il riguardo che spetta alla seconda potenza manifatturiera europea.

 

da L'Inkiesta.it

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