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di Angelo D'Orsi

Ci avevano detto che il Mercato (con la maiuscola) aveva vinto la sua plurisecolare battaglia contro lo Stato. Che il denaro era ormai virtuale, e che l'economia era solo sequenze di numeri su un desktop.

Ci avevano fatto credere, negli ultimi decenni, che di operai non ve ne fossero più. Che tutto stava diventando ceto medio (e che Bernstein aveva ragione, tanto quanto Marx aveva torto). E che, in definitiva, stavamo diventando, irresistibilmente, inevitabilmente, e addirittura facilmente, tutti più ricchi e dunque più felici, mettendo nel dimenticatoio la lotta di classe.

Poi il giocattolo (di colpo, solo per chi non sapeva scorgere i sintomi di un malessere crescente) si è rotto. E innanzitutto abbiamo scoperto che gli operai esistono, e che svolgono un lavoro fisico, sfibrante, spesso pericoloso: furono i poveri corpi carbonizzati del dicembre 2007, negli altiforni delle Acciaierie ThyssenKrupp di Torino, a ricordarcelo, impietosamente. Con l'anno seguente il capitalismo entrò in crisi e si capì, da parte di qualche osservatore più perspicace, che non si trattava di una semplice crisi ciclica, e un po' alla volta si fece strada la percezione che si era dinnanzi a una crisi di civiltà. E che, gli operai e le operaie rimanevano figure essenziali, che senza il loro lavoro l'economia si ferma. Ma intanto gli stessi speculatori responsabili della crisi si dedicavano al ruolo di «fallimentatori» di aziende sane, di «delocalizzatori» in paesi esentasse e a manodopera a bassissimo costo, e, se si degnavano di rimanere là dove le fabbriche erano state create, e fatte crescere con il sudore, e spesso il sangue, di tanti lavoratori e lavoratrici, lo facevano mettendo in atto una politica di ricatto, di minacce, di compressione dei salari, di riduzione dei diritti acquisiti, di drastico peggioramento delle condizioni di lavoro.

A tutto questo, però, si cominciò a opporre una sempre più accanita resistenza. Furono gli operai issati sulle ciminiere, le loro mogli incatenate ai cancelli, furono i blocchi stradali, le piazze ribollenti di umanità in marcia, furono insomma le mille forme vecchie e nuove di contrasto e di attacco. E se all'inizio quest'azione composita e diffusa si dové a minoranze, rapidamente, con l'incancrenirsi della crisi, da una parte, e con il crescere dell'arroganza dei padroni (che intanto cominciarono di nuovo a essere chiamati di nuovo così) e l'ostentazione del lusso e della dissipatezza, la pratica della corruzione, la «normalizzazione» della disonestà, dall'altra, strati sempre più ampi di popolazione capirono che la lotta di quegli uomini e quelle donne era la loro lotta. Era una lotta non semplicemente in una vertenza sindacale, ma per la sopravvivenza dello stesso tessuto sociale, per la salvezza dell'economia, e, magari, per cominciare a porre seriamente il problema della sua necessaria trasformazione in senso sociale, solidale e sostenibile. Ossia, la lotta di classe, ritornata centrale, dimostrava vistosamente che gli operai difendendo se stessi, difendevano (e difendono) interessi generali, che la loro causa era la causa di tutti, o se si vuole, della stragrande maggioranza della popolazione.

Perciò oggi, ancora una volta, come tante volte abbiamo fatto negli ultimi anni, dobbiamo stare dalla parte della Fiom, che è diventata l'avanguardia cosciente e forte di quella classe operaia, la sola «classe generale», per dirla con Marx. E che solo battendoci, dietro gli stendardi della Federazione degli impiegati e degli operai metalmeccanici, per la loro causa, noi possiamo concretamente contribuire a dare una speranza di salvezza all'Italia: a chi ha il lavoro ma vede ogni giorno peggiorare le condizioni fisiche e contrattuali; a chi il lavoro aveva e ha perso, conservando al massimo l'illusione di riottenerlo; ai tanti, troppi giovani disoccupati senza prospettiva; a tutti coloro che lavorano in condizioni di assoluta precarietà; a tutti gli italiani e le italiane che intendono evitare, con la bancarotta economica, il tracollo sociale, e la catastrofe civile e morale del paese.

Per un giorno, il 9 marzo, facciamoci tutti e tutte operai e operaie. E lottiamo, ciascuno nel suo ambito, con i suoi mezzi e capacità, e tutti coloro che potranno si rechino a Roma, ad esprimere alla nazione la volontà di testimoniare il significato pregnante dell'articolo 1 della nostra Costituzione, che parla, com'è noto, di una Repubblica «fondata sul lavoro».

da MicroMega 1/2012

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