di Federico Guerrini
Povero tecnofringuello, ma che diamine gli avrà fatto ai giornalisti italiani? Mai come in questi giorni, sulla carta stampata e online è un susseguirsi di accuse nei confronti di Twitter – e talvolta dei social network in generale – accusati di fomentare superficialità e narcisismo, di generare rumore più che suono, insomma, di essere l'equivalente telematico del bar sport.
A dare il via al fuoco incrociato, è cosa nota, è stato nientemeno che Michele Serra su Repubblica, con un corsivo assai polemico. In sintesi: su Twitter l'eccessiva concisione fa sì che prevalga l'emotività sul ragionamento, va bene per sfogarsi, ma la cultura è altro. Il che, a pensarci bene, fatto salvo il fatto che è evidente che il medium non serve solo a sfogarsi ma anche a informarsi, creare consapevolezza, mobilitare l'opinione pubblica (si pensi al caso degli ultimi referendum o delle amministrative a Milano) e molto altro, sarebbe anche ovvio.
Se cerco la grande cultura non vado certo su Twitter, ma magari grazie ai suggerimenti di una persona che "seguo" posso scoprire dei pensatori che altrimenti avrei fatto molta più fatica a rintracciare.
Va detto che poi, in un articolo più lungo, Serra ha precisato meglio il suo pensiero che – ironia – era stato in parte frainteso proprio a causa della concisione dell'Amaca. Passano pochi giorni e lunedì, sempre dalle pagine di Repubblica, tocca a Giuseppe Smorto prendersela con l'egocentrismo imperante nei social: "Io sono felice – scrive Smorto - di diventare follower di un parlamentare, ma non per questo obbligato a sorbirmi le sue battute sul tempo e sui figli: in una parola, il suo privato. Seguo un prof che scrive articoli efficaci sulla situazione della scuola, ma in compenso devo leggere anche che è molto raffreddato, e di questo non mi frega nulla".
Qua, in realtà, si ripropone una vecchia polemica: è senz'altro vero di molti twit e di molti post su Facebook – se non della maggioranza – se ne potrebbe fare a meno. A chi non dà fastidio il tizio che ci propina ogni dettaglio del suo pranzo, solo magari con lo scopo, neppure troppo velato, di informarci che ha ordinato una mezza dozzina di ostriche perché lui, può? Il punto è: se ne può davvero fare a meno? Evidentemente no, perché vorrebbe dire castrare il mezzo e togliergli la peculiarità che più lo differenzia dai media tradizionali: il fatto che nei social chiunque può prendere un microfono alzarsi e dire la sua. Il giornalista non può intervenire alla fonte e pretendere che questa dica – meglio, twitti – solo quello che interessa a lui. Meglio forse farebbe ad attrezzarsi per filtrare il rumore.
Esistono le liste tematiche, su Listorious se ne trovano una quantità, che servono proprio a capire chi conviene seguire per evitare l'insostenibile leggerezza del cicaleccio. Esistono Grader e altri siti che aiutano a capire chi sono gli influencer, brutta parola, ma che significa solo quelli che fanno tendenza, che dicono cose che molti ritengono interessanti (anche se non sempre è vero, a essere onesti). E se il politico twitta la partita di calcio mentre si parla delle riforme, non sarà una notizia ma forse aiuta a capire meglio la sua personalità. Viene il sospetto che i cronisti temano quasi di non essere in grado di tenere il passo del cinguettare compulsivo dei Vip o chi per loro o peggio ancora, di essere, in qualche modo, esautorati nella loro funzione dal cinguettio.
È quello che viene in mente leggendo un articolo uscito invece ieri, sul Corriere della Sera, a firma di Maria Teresa Meli. La riunione di " Direzione del Partito democratico a porte chiuse, quella di ieri, come sempre. Peccato che quasi tutti i componenti di quell'organismo abbiano una certa confidenza con Twitter. Ragion per cui, parola per parola, hanno reso pubblica la riunione del Pd ", attacca Meli. Sembrerebbe quasi una cosa positiva: qualcosa emerge, dove prima c'era solo silenzio e omertà. Ma, e qui sta il punto del pezzo, "manca il filtro dei giornalisti".
Sarebbe facile liquidare la chiusa come una difesa pro domo sua di un giornalista preoccupato di venire sostituito da uno smartphone; in realtà qui viene toccata una questione importante: è vero che i social media possono essere adoperati da chi governa come strumento per bypassare le redazioni e rivolgersi direttamente all'opinione pubblica; è una logica tipica dei regimi plebiscitari e autoritari, ma lo fa, tanto per dire, anche Obama quando comunica con gli elettori attraverso YouTube o i videoritrovi di Google, e non è che ai reporter di Oltreoceano la cosa faccia tanto piacere.
Appare però assai improbabile che i politici nostrani riescano a plasmare le coscienze grazie a un uso sapiente e luciferino dei twit; se non altro per difetto di competenza. Cara Maria Teresa Meli, aspetti a lanciare allarmi che rischiano di sembrare l'ennesimo attacco ai social network e vada di persona alla prima riunione a porte aperte: ma li ha visti bene?
da daily.wired.it, 28 Marzo 2012