di Gianluigi Pegolo
Il risultato del voto amministrativo è stato ormai ampiamente commentato. Quello di cui vi è bisogno ora è una riflessione più approfondita e più ampia per consentirci di cogliere tendenze più profonde che hanno agito e che ci possano essere di guida nell’azione politica. A tale proposito, a me pare che l’esito elettorale modifichi radicalmente la situazione, sconvolgendo equilibri politici e mettendo in luce dinamiche delle quali solo in parte vi era percezione. In ciò sta il suo carattere dirompente. In termini generali, il risultato del voto registra, sul piano politico, la “crisi del ruolo di governo”. Una crisi di tale portata da produrre un quadro molto instabile e suscettibile di evoluzioni imprevedibili.
All’origine di questo sommovimento vi sono molti fattori, ma quello decisivo è il prorompere della crisi economica e sociale, la cui progressiva acutizzazione, oltre a provocare enormi danni sociali, si riverbera sul sistema politico delegittimando i soggetti politici che hanno avuto responsabilità di governo. Il vero e proprio crollo del PdL – al di là degli scandali che hanno accompagnato la vicenda di Berlusconi - si produce a seguito del venir meno di una capacità di governo nella crisi, sull’onda dell’attacco della speculazione finanziaria. Lo stesso, in ultima analisi, avviene per la lega, il cui blocco sociale comincia a entrare in fibrillazione nel momento in cui salta l’impianto federalista, lievita la pressione fiscale, entra sempre più in difficoltà quel tessuto di piccole e medie imprese che ne hanno rappresentato l’anima.
Ma ciò vale anche per le forze che sostengono il nuovo governo. Il voto ce ne offre un primo riscontro significativo nelle difficoltà che registra il PD un po’ dovunque, ma soprattutto nei suoi luoghi tradizionali di insediamento, dove entra in crisi il sistema di welfare e il complesso sistema di sostegno alle imprese. Il successo iniziale del governo Monti s’infrange, appunto, sull’inadeguatezza ad affrontare la crisi. Non a caso, sono in difficoltà anche l’UDC e le forze centriste. Il loro disegno ha perso la sua potenzialità egemonica e, infatti, il crollo delle destre alimenta astensione e protesta populista, una scelta opposta al moderatismo in salsa liberista. Il PD dovrebbe prenderne atto: questo voto segnala che il liberismo moderato illusoriamente cavalcato dal PD nella speranza di scavallare la crisi, non tiene.
La crisi macina. Non solo mette in fibrillazione i partiti di governo incapaci di affrontarla, ma alimenta il disagio, cambia il rapporto fra cittadini e istituzioni e induce modifiche profonde negli orientamenti politici e culturali. Il voto registra - a saperlo leggere - tutto questo e ci restituisce, in primo luogo, l’immagine di un paese diviso che tende verso due prospettive diverse in ragione del diverso peso che società civile e società politica hanno nei territori. Al nord, dove più denso è il tessuto sociale e meno totalizzante il ruolo delle istituzioni, si compie una rottura fra cittadini e politica. Se l’astensione celebra il rifiuto della politica, il grillismo ne esalta la crisi. Di per sé non è decisivo analizzare in dettaglio il programma dei grillini. Vi si trovano proposte condivisibili, insieme a fughe qualunquiste e talvolta reazionarie. Il punto è che essi non offrono un’alternativa di governo, ma il “sovvertimento” del sistema politico-istituzionale. In questo senso il fenomeno è qualitativamente diverso dalla Lega che pure, sul piano dell’antipolitica, ha diverse superfici di contatto.
La Lega, infatti, ha avuto nel “particolarismo territoriale” la sua ragion d’essere. Le forti venature antipolitiche erano funzionali alla delegittimazione dei soggetti che contrastavano l’istanza localistica. Qui siamo in presenza di un fenomeno molto diverso, le cui basi sono programmaticamente poco determinate e le finalità anche e che ha come riferimento unico è chiaro la demolizione del sistema politico esistente. Per questo si può presagirne uno sviluppo tanto più forte quanto più forte è il disagio sociale, ma anche un’intrinseca debolezza.
Al sud il quadro è completamente diverso. Anche in questo caso, beninteso, la crisi delegittima i partiti (prima e dopo) di governo, ma i comportamenti politici sono molto diversi. Qui la crisi, che colpisce duramente, agisce su un tessuto sociale debole, già vessato da una condizione materiale precaria. In assenza di alternative, il sistema politico locale resta il primo interlocutore del cittadino. Per questo le reti di relazioni politiche, con il corollario determinante del voto di scambio, restano in piedi. Semmai evolvono secondo lo schema classico del trasformismo, oppure attraverso il fenomeno della frammentazione politica. E’ il caso del proliferare delle liste civiche.
Dietro a tutto, c’è – a differenza del nord – il riconoscimento del ruolo (anche se distorto) delle istituzioni e una domanda (anche questa distorta) di governo. E’ questa la ragione - a me pare - della difficoltà della penetrazione del grillismo al sud e anche del capovolgimento del peso delle varie regioni nella partecipazione alle elezioni, con quelle del sud che ormai sopravanzano quelle del nord. Entrambe le tendenze evocano scenari inquietanti. Il primo è il dilatarsi sull’onda della crisi di una protesta dissacrante e distruttiva, il secondo è lo snaturamento ulteriore della politica, ridotta a puro strumento di accaparramento di consensi e scambio di favori.
Naturalmente, proprio perché queste dinamiche sono fortemente connesse con lo sviluppo della crisi, e con gli effetti che questa produce sia sui soggetti sociali che sulle istituzioni, la loro azione è fortemente condizionata dai suoi tempi e dal suo grado di acutizzazione. Non è detto, tuttavia, che questi elementi vengano percepiti nella loro rilevanza. Il PD, per esempio, esce trionfalmente da queste elezioni per aver ribaltato i rapporti di forza con il centro destra nei governi locali. In realtà, ha perso consensi, ma il sistema elettorale, unito alla capacità di costruire alleanze, gli ha permesso di ottenere un grande vantaggio che può spendere in più direzioni.
Può proseguire sulla linea di liberismo centrista che ha condiviso finora nel governo Monti, costruendo un asse con le forze di centro e governando domani su quella linea. Un sostanziale continuismo insomma. Oppure può scegliere di cambiare prospettiva, tenendo conto degli elementi che ho prima indicato. Nel primo caso contribuirà ad accelerare la disgregazione sociale e la crisi delle istituzioni e creerà le condizioni per un proprio logoramento, aprendo falle nel suo insediamento, anche in quello tradizionalmente più radicato, come già si è visto in queste elezioni. Nel secondo darebbe una prospettiva di cambiamento al paese. Nulla ci fa dire per ora che la strada che imboccherà sarà la seconda, mentre e’ probabile che percorrerà la prima.
Il problema, allora, si ribalta sulle forze della sinistra. Il risultato elettorale non le premia, ma neppure le penalizza. Ottimisticamente, si può sostenere che sono le meno colpite dagli effetti politici della crisi in quanto forze di opposizione, ma in realtà la loro tenuta equivale in una fase così dinamica a una perdita di peso. Anche la sinistra, e forse più del PD, è posta di fronte a rischi. L’insidia sta, in primo luogo, nella devastazione che la crisi produce, non solo nella condizione sociale, ma anche nelle culture e nei comportamenti politici. Senza un cambiamento nelle scelte di fondo il paese precipita e la sinistra viene letteralmente schiacciata fra qualunquismo e pratiche clientelari. Anzi, proprio perché - pur tenendo elettoralmente - non ha la massa critica necessaria a imporsi ed è molto più esposta del PD nel caso di una collocazione di governo, essa rischia la dissoluzione prima dello stesso PD.
A sinistra, tuttavia, questa consapevolezza stenta ad affermarsi per due ragioni fondamentali. La prima è l’enorme condizionamento che esercita il sistema maggioritario che, costringendo a convergere sulla coalizione per competere in uno schema bipolare, depotenzia ogni aspirazione all’autonomia e induce ad assumere come centrale non il progetto di società, ma lo schieramento potenzialmente maggioritario. La seconda è la sfiducia nel cambiamento e, in ultima analisi, la convinzione che una sinistra si afferma prioritariamente nel circuito della politica e che non esista altrimenti modo di far valere un progetto alternativo.
Entrambi questi timori hanno dei fondamenti e lo si può riscontrare anche nei recenti esiti elettorali. Infatti, è vero che il meccanismo del voto utile continua ad esercitare il suo condizionamento ed è vero anche che la sinistra, pur contestando le politiche governative, non trae da ciò un particolare beneficio. Tuttavia, il voto mette in risalto anche altri aspetti. Il primo è che la sinistra è comunque indispensabile. Lo è, per esempio, per determinare la vittoria dello stesso centro-sinistra, come è avvenuto in molti comuni. Ciò significa che essa dispone comunque di una forza di condizionamento, che però scompare nel momento in cui assume il vincolo dello schieramento a priori. In secondo luogo, che il suo orizzonte, per quanto non espresso compiutamente in un progetto, ha un potere di attrazione che si coglie, ad esempio, nel successo di diversi candidati sindaci, che si collocano su posizioni autonome dal PD, come nel caso di Orlando a Palermo e di Doria a Genova.
Ma il potenziale della sinistra si esprime anche in altri modi come, per esempio, nella capacità di tenuta che essa dimostra anche in presenza di un’offensiva populistico/qualunquista. Non a caso i migliori risultati, sia di SEL che della FdS, si hanno in generale al nord, guarda caso nella realtà territoriale in cui più forte è l’astensionismo e più forte è il movimento Cinque stelle. Non solo, è la sinistra che riesce anche meglio a reggere la deriva clientelare/trasformista quando mette in campo candidature forti e si caratterizza per la volontà di discontinuità. Vale ora per Orlando e la volta scorsa per De Magistris.
Il potenziale egemonico della sinistra si gioca, quindi, sul piano dell’”alternatività”. Non solo in merito alla proposta per combattere la crisi, ma anche al modo con cui contrastare le derive politiche che essa induce. Infatti, la crisi della politica si combatte in due modi. Un modo è quello della ricostruzione di un protagonismo sociale, attraverso il coinvolgimento diretto dei cittadini in percorsi partecipativi, che consenta agli stessi partiti di ristabilire, per questa via, una connessione con i soggetti sociali. L’altro è la riproposizione di una dialettica vera fra punti di vista diversi, riscoprendo nella crisi la differenza fra la destra e la sinistra e quindi facendo saltare il consociativismo, primo fattore di delegittimazione dei soggetti politici e di perdita di senso della politica.
La sinistra, quindi, è l’unica forza che può dare una risposta alla crisi e che può agire efficacemente nella ricostruzione di una cultura politica e nel risanamento delle istituzioni. Per tradurre questa potenzialità in fatti occorre, però, che essa disponga di una adeguata massa critica e ciò significa che le forze anti liberiste devono convergere in una soggettività unitaria. Anche in questo caso il voto ci dice qualcosa. Ormai è finita l’illusione che qualcuno a sinistra possa autonomamente affermarsi. I potenziali elettorali, come si è visto, non sono molto diversi. Inoltre, se è vero che il successo della sinistra a livello locale si gioca spesso sulla scelta di alcune candidature, è ormai chiaro che sul piano politico generale lo strumento delle primarie è sempre meno praticabile e che comunque è facilmente aggirabile, dilatando il perimetro dell’alleanza o compattando l’elettorato del PD.
Il problema, quindi, è quello di un salto di qualità verso l’unità, ma l’unità non basta. Ancora una volta il voto amministrativo ci dice che la semplice aggregazione di forze non produce un ’”effetto moltiplicativo”, non determina cioè la polarizzazione di nuove forze. Occorre ben di più. Occorre un progetto che metta a valore una proposta autonoma per il paese, in grado di incidere sulla materialità della condizione sociale. Il punto di forza di una sinistra di alternativa oggi sta proprio nella crisi delle forze di governo e del loro progetto liberista. Peraltro, solo così una sinistra può resistere al rischio di una mortale subalternità ad un progetto moderato ed influire positivamente anche sulla evoluzione della sinistra moderata.