di Guido Iodice e Daniele Palma

Si è ormai diffusa in questi ultimi anni di crisi economica l’idea che il recupero del degrado ambientale e la lotta al cambiamento climatico possano offrire un’ottima opportunità per il rilancio dell’attività produttiva. “Green economy” e “green growth” sono così diventati termini di uso corrente, impiegati per indicare l’elaborazione di strategie di sviluppo economico che concorrano alla salvaguardia dell’ambiente e che segnino l’inizio di una nuova (e sempre più attesa) stagione di crescita dell’occupazione.

Non è in effetti difficile immaginare il ruolo che un progetto così ambizioso quale è quello della riconversione ambientale dei sistemi produttivi, potrebbe avere per le economie più avanzate attualmente più coinvolte nella spirale della recessione. Tuttavia è alquanto arduo immaginare come questo processo di riconversione possa iniziare a funzionare a pieni giri in presenza delle crescenti incombenze finanziarie che fanno seguito alla crisi finanziaria delle maggiori economie occidentali e ai piani di austerity che vengono predisposti ai fini di una (presunta) riduzione dei “debiti sovrani”. E se da un lato nel corso dei più recenti Summit internazionali sul Clima (incluso Rio+20) sono state poste le basi per piani di intervento pubblico per la realizzazione di investimenti in infrastrutture e tecnologie orientate all’ambiente, allo stato dei fatti siamo ancora in presenza di “scatole vuote” , che tali sembrano essere destinate a rimanere non si sa bene per quanto tempo.

C’è però qualcosa di più importante, che ancora non emerge con sufficiente forza da tutta questa storia e che dovrebbe diventare parte del senso comune, almeno quanto tutto quell’ “immaginario” che con la crescere di rilevanza dei temi ecologici si è fatto giustamente strada nella popolazione. Senza la possibilità di attuare quegli investimenti di cui si è detto, la “green economy” è destinata a rimanere un mantra al quale è davvero impossibile affidare le sorti dello sviluppo dei prossimi anni, e dell’uscita dalla crisi più nell’immediato. Di tanto in tanto, invece, la “green economy” viene evocata (anche in consessi istituzionali) quasi come si trattasse di uno strumento “magico” capace di imprimere all’occasione una possibile svolta alle difficoltà. Il consenso intorno al tema si è fatto così sempre più ampio, ma in parallelo sembra essere cresciuta una sorta di “dimensione esoterica” dell’intera questione, profondamente scollegata dai fatti dell’economia e delle sue dinamiche.

C’è da dire, per altri versi, che quel che sta accadendo nel circuito della “green economy” replica una schiera di errori che sono stati compiuti nelle “politiche” di sviluppo di tutti i paesi dell’economia mondiale, nella misura in cui quest’ultimo si è dovuto confrontare con la disponibilità di risorse naturali. La questione è stata nuovamente sollevata poco tempo fa da Joseph Stiglitz su Project Syndicate, in merito alla mediocre capacità di sviluppo che hanno saputo creare i paesi tipicamente più ricchi di risorse naturali, appartenenti alle aree mondiali meno industrializzate.

Il punto centrale sul quale Stiglitz richiama l’attenzione è che le risorse non possono costituire una sorta di “rendita di posizione” dalla quale lo sviluppo sgorghi grazie alla presenza di un “vantaggio comparato”. Ogni “vantaggio comparato” deve costituire il punto di partenza di una politica dello sviluppo divenendo in questo modo “vantaggio dinamico”, in quanto consenta al singolo paese di confrontarsi con gli altri paesi su una base di requisiti che caratterizzano lo sviluppo nelle sue forme avanzate. Questo la storia delle economie di più recente industrializzazione lo insegna molto bene: «Quaranta anni fa, la Corea del Sud aveva un vantaggio comparato nella coltivazione del riso. Se il paese si fosse arrestato su quel punto di forza, non sarebbe diventato il gigante industriale che oggi è. Sarebbe stato il produttore di riso più efficiente al mondo, ma tuttora povero», ci ricorda Stiglitz. E tutto questo non è avvenuto per “magia”, ma attraverso imponenti piani di investimento pubblico.

Gli aspetti che toccano attualmente lo sviluppo della “green economy” nelle economie più industrializzate sono solo apparentemente diversi da quelli richiamati da Stiglitz per le economie più arretrate. In questo caso è infatti importante sottolineare come la riconversione ambientale dei sistemi produttivi industriali vada ad attivare una consistente domanda di tecnologie, che, se non prodotte sul territorio nazionale, debbono essere necessariamente importate. La libera disponibilità di risorse rinnovabili quali ad esempio sole e vento, che è dunque piena disponibilità di risorse naturali per ciascun paese, non potrà mai costituire un vantaggio in assenza di proprietà (almeno in parte) delle tecnologie. E lo sviluppo di tecnologie, per quanto specifiche, non nasce mai come un fiore nel deserto, ma a seguito di un lungo processo di investimento nei campi della conoscenza e nella sua applicazione ai diversi ambiti della produzione.

La storia delle fonti di energia rinnovabile, e della “green economy” più in generale, può dirsi oggi al suo inizio, eppure sono già tangibili i segni di quelle differenze tra paesi che segnano la differenza tra l’intrapresa di un cammino virtuoso e quella di un cammino incompatibile con i dettami dello sviluppo, al limite distruttivo. Esempi significativi se ne trovano anche in Europa, e mostrano come quegli stessi squilibri che aggravano le tensioni nell’area euro, possono essere alimentati da un’errata considerazione dell’”economia verde”.

Lo stato di dipendenza tecnologica, in quanto sono necessarie sempre più importazioni, aggrava il debito commerciale e in ultima analisi la situazione debitoria di un intero paese. Un caso limite, in quest’ambito, può essere riferito alla stessa economia italiana che è arrivata nel 2010 a conseguire un deficit nelle tecnologie per la produzione di energia fotovoltaica pari a circa undici miliardi di dollari correnti. Non è paradossale, dunque, affermare che in assenza di politiche di investimento orientate allo sviluppo tecnologico di un paese, lo spazio guadagnato dalla “green economy” può perfino limitare lo sviluppo e distruggere occupazione. Tutto questo dovrà diventare di dominio comune, al più presto.

 

da Keynes blog

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