di Gianni Mula
È di qualche giorno fa l’appello contro il “Furto di informazione” pubblicato dal Manifesto (il 24 luglio, in prima pagina) e ripreso dal Fatto quotidiano e dal Corriere della sera. L’appello, che riportiamo in appendice, denuncia la "intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell'opinione pubblica" che si genera quando si rappresentano le recenti scelte di austerità dei governi europei e delle autorità comunitarie come "comportamenti obbligati ("non-scelte"), immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell'eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare". In tal modo "Viene nascosto all'opinione pubblica che, lungi dall'essere un'evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori", così che "i maggiori mezzi di informazione (ivi compreso il servizio pubblico)" si rendono di fatto colpevoli di un "un furto di informazione e di conoscenza gravido di devastanti conseguenze per la democrazia".
L'appello ha suscitato un vivace dibattito, alimentato inizialmente dalle interviste a Luciano Gallino sul Fatto e a Giorgio Lunghini sul Corriere della Sera, e successivamente da altri interventi, tra cui quelli di Alfonso Gianni sul Manifesto, e Giuliano Ferrara sul Foglio. Quest'ultimo la butta come al suo solito in caciara e parla di “un appello incredibile, almeno quanto furono incredibili certe motivazioni del comunismo in età adulta del mondo di fine Novecento”, concludendo con “Altre culture hanno fatto la fatica di capire i cambiamenti del mondo: sono le culture confuciane, protestanti e cattolico-liberali che ragionano su eguaglianza e libertà senza necessariamente perdere in lucidità. Alcune crescono, altre sono in recessione, ma senza di loro non si fa il pil.” Lascio al lettore l’arduo compito di trarre qualche senso compiuto da queste parole. Gianni osserva invece che anche la sinistra è coinvolta nell'operazione di mascheramento della realtà denunciata dall’appello, perché “La separazione della critica dell'economia politica dalla sinistra è stata sicuramente una delle cause principali della crisi e dello stato miserevole dell'attuale condizione di quest'ultima. Il Corriere e il Foglio si sono sentiti chiamati in causa dall'appello e a modo loro hanno risposto. Non, o non ancora, e significativamente, Repubblica.”
Qui il discorso si fa più interessante, perché in effetti Repubblica ha risposto, per quanto tardi e indirettamente. Ha risposto senza minimamente citare l'appello, né tanto meno il Manifesto, ma pubblicando il 30 luglio un articolo di Luciano Gallino nel quale si ribadisce il fatto, irrilevante per i neoliberali, che l’inaridimento delle finanze pubbliche, causa dichiarata delle politiche di austerità, è dovuto principalmente ai “4 trilioni di euro spesi o impegnati nella UE al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso”. Si potrebbe quindi pensare che poiché Repubblica pubblica regolarmente articoli di Paul Krugman e Joseph Stiglitz, citati indirettamente nell'appello, come anche di Luciano Gallino, uno dei suoi primi firmatari, non dovrebbe essere considerata tra i destinatari dell’accusa di mascheramento della realtà fatta nell’appello.
In realtà il furto di informazione di cui si parla nell’appello non sta tanto nella censura materiale delle notizie quanto nel lasciare intendere che sì, ci sono le diverse opinioni dei neoliberali e dei neokeynesiani, ma si tratta principalmente di divergenze tra addetti ai lavori mentre il quadro complessivo, indiscusso e indiscutibile, è quello fornito dalla teoria neoliberale. Gallino può dire quanto vuole, anche su Repubblica, che la UE sta spendendo 4000 miliardi di euro per salvare le banche ma il suo messaggio non arriva correttamente al lettore medio, che ancorché colto, non può fare rapidamente le opportune e necessarie valutazioni e distinzioni. E quindi non può cogliere l’enormità di quel dato e collegarlo, come dovrebbe fare per capire davvero, alle cifre in confronto ridicole delle misure di austerità che ci vengono imposte come ineluttabili. Altrimenti finirebbe col chiedersi perché l’UE ci impone di far bene i nostri compiti a casa mentre di suo procede a uno sperpero così colossale a favore delle banche.
Perché proprio questa è la notizia che ci viene negata: l’economia internazionale è in mano ai sostenitori di una teoria economica cosiddetta neoliberale che da trent'anni toglie ai poveri per dare ai ricchi, per rendere il lavoro più debole e il capitale più forte. Chi trova eccessivo e immotivato questo giudizio legga Nove su dieci, di Mario Pianta, Laterza 2012, € 12, e avrà tutte le informazioni necessarie per formarsi un’opinione personale. Chi ritenesse che Mario Pianta, professore ordinario di economia politica all’università di Urbino, sia, per via della sua vicinanza alla CGIL, un pericoloso comunista da cui prendere le distanze, potrà trovare considerazioni del tutto indipendenti ma perfettamente concordanti nell’articolo di Vittorio Cristelli Il boomerang è tornato su di noi, pubblicato sull’ultimo numero del settimanale diocesano Vita trentina. In esso è spiegato chiaramente come il Fondo monetario internazionale presti denaro ai paesi in difficoltà a condizione che a) si rovinino rinunciando a spendere sulla sanità e l’istruzione e b) se per caso questo non fosse sufficiente investano il denaro ottenuto in prestito (che va ovviamente restituito pagando l’interesse dovuto) in beni per l’esportazione, trascurando la produzione di beni di prima necessità per la popolazione autoctona e quindi provocando un incremento pauroso della fame.
Ma anche il Fatto, come Repubblica, può essere accusato di tenere nascosta questa notizia. Infatti il pubblicare articoli di Michele Boldrin, giusto per fare un nome, a fianco di articoli di Luciano Gallino, senza fare un’ombra di commento sulle abissali differenze esistenti tra questi due autori, significa comportarsi come Repubblica. Basti ricordare che sia Gallino che Boldrin criticavano la politica di Tremonti, ma mentre Gallino lo faceva sostenendo che la sua politica era qualitativamente sbagliata Boldrin lo criticava perché non aveva il coraggio di andare fino in fondo. È ignorare queste differenze che ha reso possibile ai commentatori cosiddetti indipendenti di interpretare la chiamata al governo di Monti come la soluzione tecnica necessaria per tirare l’Italia fuori dai guai creati dalle politiche economiche del governo Berlusconi, mentre in realtà era la soluzione politica concordata a livello internazionale per poter continuare, anche in assenza di un Berlusconi rivelatosi per varie ragioni note a tutti inadeguato a proseguirla, l’opera di spoliazione denunciata da Nove su dieci.
Che poi Repubblica e il Fatto abbiano linee politiche molto divergenti (si vedano le loro posizioni sulla polemica Quirinale-Procura di Palermo) non impedisce di constatare che le loro scelte editoriali, benché spesso molto diverse, si traducono in questo caso nella stessa manipolazione dell’opinione del lettore. Che lo facciano in buona fede mi sembra indubbio per entrambi i quotidiani, ma dubito che venire licenziati da persone in buona fede sia meglio che venire licenziati per avidità. Purtroppo scelte diverse non significa affatto che la ragione debba stare da una parte e il torto dall’altra, perché può benissimo capitare che entrambe le posizioni, pur motivate dalla difesa di valori condivisibili, non colgano l’essenza della trasformazione in corso. Che è appunto quella di una trasformazione redistributiva che aumenta, e non diminuisce, le disuguaglianze sociali.
Perciò usare la polemica sul furto di informazione per alimentare risse verbali tra keynesiani e liberisti duri e puri non è utile a nessuno, un po’ come ridurre i problemi della chiesa cattolica allo scontro tra le due cordate cardinalizie che attualmente si contendono il potere in Vaticano non è utile a chi auspica un rinnovamento della chiesa costruito sullo spirito del Vaticano II. È invece molto più interessante partire dal problema del furto di informazione per allargare il discorso a problematiche più ampie, come ha fatto Carlo Freccero in un intervento pubblicato dal Fatto di cui propongo qui di seguito alcune parti (l’originale si può trovare qui)
Gli italiani sembrano in preda a una forma di depressione che li porta a non reagire, mentre il loro mondo affonda e il benessere costruito dal dopoguerra viene sacrificato sull’altare della necessità economica. Cos’è che ha cambiato le nostre capacità di reazione, ha annullato il nostro spirito critico? La censura, la mancanza di informazione, i tagli alla scuola e alla ricerca. Ci è stata instillata in questi anni la convinzione che la cultura non conta nulla, che il pensiero è inutile, che l’unico valore è il benessere economico. E la morte del pensiero critico non ha prodotto benessere, ma disastro e miseria. Per questo l’appello pubblicato dal manifesto sul “furto di informazione” riguarda, prima ancora delle politiche economiche il tema dell’informazione. Una politica economica non è “naturale”, presuppone una scelta tra più alternative. E la scelta politica presuppone informazione.
Qualche anno fa il neoliberismo veniva chiamato “pensiero unico”, definizione che evocava la possibilità di altri pensieri possibili. Oggi il neoliberismo si chiama semplicemente “economia” e non importa se esistono teorici come Paul Krugman o Joseph Stiglitz che vedono le cose da un altro punto di vista. Il neoliberismo non è più una tesi economica discutibile e relativamente recente, ma un dato di natura. La crisi del 1929 è stata affrontata con politiche keynesiane ed è stata superata. La crisi attuale viene curata con politiche neoliberiste e non fa che peggiorare. È come se a un paziente disidratato venissero praticati salassi anziché fleboclisi: morirà.
Abbiamo oggi un governo tecnico sostenuto da entrambi gli schieramenti. E l’unica alternativa è costituita da una reazione contro la politica, che viene accusata (a ragione) di sperperi, nepotismo, privilegi. Mentre per il governo la causa della crisi è il debito pubblico e l’azione dissennata dei governi precedenti, per i gruppi anticasta la causa della crisi sta nella corruzione della politica che impedisce al mercato di funzionare. Formalmente contrapposte le due tesi aderiscono nella sostanza a un'unica tesi: questo è l’unico mondo possibile, possiamo migliorarlo ma non cambiarlo.
Ai tempi de “Il Capitale” di Karl Marx il proletariato aveva valore per il suo lavoro. Ai tempi de “La società dello spettacolo” di Guy Debord per la sua capacità di consumo. Oggi non ci resta che il voto, per questo l’economia globalizzata limita l’autonomia degli Stati. E per questo la politica vuole controllare l’informazione. Dobbiamo ricreare una libertà di informazione, studiare nuovi canali e possibili veicoli di informazione perché si rompa l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità. Siamo realisti, chiediamo l’impossibile.
Si vede bene che per Freccero il problema del furto di informazione è soprattutto un segno del l’appiattimento sul presente che sempre più caratterizza la società occidentale. In essa infatti, pur nata dall’illuminismo e dal considerare la libertà individuale come bene primario, l’era della globalizzazione si contrassegna come l’era della resa alle forze impersonali del mercato. Non diversamente dai tempi premoderni nei quali l’intera società, credente o non credente, viveva in un mondo “incantato” popolato da forze naturali e spirituali misteriose, buone o cattive, comunque ineluttabili, oggi la società occidentale vive in un mondo popolato da forze che sfuggono al suo controllo e anche alla sua comprensione, e sono quindi altrettanto misteriose e ineluttabili di quelle di prima. Che oggi si chiamino con parole laiche come mercato, progresso, competizione, globalizzazione non può mascherare il fatto che quasi sempre queste forze concordino nell’inchiodarci al presente, nel toglierci anche la più piccola possibilità di pensare un futuro diverso da questo presente.
Il punto di vista di Freccero è un punto di vista chiaramente laico, ma non è un caso che le stesse tematiche emergano con altrettanto forza nel pensiero religioso. Già una ventina d’anni fa, in vari articoli oggi molto opportunamente ripubblicati (Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile, Chiarelettere 2012, € 7), uno dei grandi cattolici del secolo scorso, Ernesto Balducci, affrontava la situazione di crisi che si avvicinava con accenti profetici che denunciano la società in maniera non dissimile da quella di Freccero. Proponiamo qui una breve selezione di brani tratti dal libro.
Siamo spettatori da mesi e mesi di un comportamento degli organi dello Stato che getta discredito sul principio fondamentale dell’ethos civico, quello della legalità. In questa disgregazione dello Stato l’unica speranza viene non dallo Stato ma dalle innumerevoli iniziative di enti, chiese locali, di gruppi e movimenti che si fanno portatori di un’altra cultura. È vero: la nostra è una società competitiva, nella quale si entra e si persevera solo accettando le regole della competizione. Ed è vero anche che, da quando la civiltà prese il cammino, la competizione, come scrisse l’antico Eraclito, è madre di tutte le cose. Ma se la competizione è riuscita fino a oggi a rivestirsi di valori che la rendevano omogenea alla coscienza morale, oggi quei valori suonano vuoti, il nichilismo della società competitiva è ormai allo scoperto e funziona senza più la necessità di mascherarsi di principi universali.
I giovani d’oggi fanno la scoperta che non era nelle previsioni dei padri: a un livello più alto di sviluppo corrisponde un livello più basso di felicità. E così alle nuove generazioni è venuta meno la sicurezza che ci sarà un futuro, non solo, ma è venuta meno la sicurezza che il futuro possa essere diverso dal presente. Il nichilismo dissimulato dei padri diventa nichilismo scoperto nei figli, il cui sbocco è sempre il suicidio: se non quello che estingue la vita nel suo fondamento biologico, quello che la estingue al livello nel quale di continuo rampollano le sue ragioni, che sono le ragioni della dedizione agli altri, della speranza di rendere più umano il mondo, della solidarietà con gli umiliati e offesi, del gioioso scambio dell’amore.
Verrebbe voglia di dire che ormai è troppo tardi. Il tempo dello Stato è già passato. Il collasso dello Stato è un fenomeno generale, dagli Urali all’Atlantico, anzi all’oltre Atlantico. Ci vorrebbe, dice la Centesimus annus, un patto sociale di secondo livello, quello in cui gli Stati, come individui collettivi, rinunciano alla propria sovranità per conferirla a un’autorità mondiale. È certo necessario mettere in moto i meccanismi della giustizia, ma essi rimarranno inceppati su quella soglia che divide la società e lo Stato fino a che non avremo creato una nuova cultura che espella le suggestioni della violenza sia dal villaggio che dal pianeta. L’angoscia nasce dalla misura spropositata di questo programma. Ma oggi solo chi cerca l’impossibile riuscirà a produrre ciò che è possibile. [Si tratta di testi tratti da quattro articoli di Ernesto Balducci pubblicati su Rocca, 1 aprile 1992, sul Secolo XIX, 28 dicembre 1988 e 26 maggio 1991, sull’Unità, 13 settembre 1990.]
Si sente spesso dire che il problema delle nuove generazioni è quello del debito che si ritrovano sul groppone: ma c’è di molto peggio, ed è la distruzione della speranza che si verifica quando si impone il pagamento di tutto il debito, per di più a condizioni capestro, a chi ne ha usufruito solo marginalmente, se pure ne ha usufruito. Perciò avere la possibilità di pensare a un futuro diverso dal presente (Balducci), rompere l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità (Freccero), è il vero problema della condizione umana, di oggi e di sempre. Di questo devono essere consapevoli le nuove generazioni, imparando a diffidare di chi gli propone una realtà semplificata a misura della convenienza del momento, ridotta a un’alternativa tra due possibilità, una forse appena meno peggio dell’altra.
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