di Raniero La Valle

La Chiesa che si appresta a celebrare i 50 anni dall'inizio del Concilio Vaticano II dovrà ora fare a meno anche di lui. Martini non aveva partecipato al Concilio, ma tutta la sua vita è stata intrecciata alla straordinaria novità con cui la Chiesa del Novecento aveva saputo ripensare se stessa, la fede e il mondo; di questa novità egli è stato il più lucido e coraggioso interprete nell'episcopato italiano, e a una delle conversioni più decisive della Chiesa conciliare, quella del ritorno alla Bibbia e della sua restituzione alla preghiera e alla riflessione dei credenti, ha dato strumento e voce, sia con i suoi studi biblici e la sua riedizione dal greco del Nuovo Testamento, accolta e usata da tutte le Chiese cristiane, sia con la generosa somministrazione della Sacra Scrittura nella «Scuola della Parola» e nelle sue catechesi e letture bibliche ai fedeli di Milano.

Malato da tempo di Parkinson, il cardinale Martini, come ha narrato il neurologo che lo ha avuto in cura e assistito, ha escluso per sé ogni accanimento terapeutico, argomento di cui del resto aveva parlato in termini sereni e oggettivi per tutti in un lungo dialogo con Ignazio Marino. In questa notizia tuttavia l'aspetto più importante non è che egli non abbia considerato acqua da bere quella immessa col sondino, né cibo per vivere quello introdotto direttamente nell'addome (che è l'attuale oggetto del contendere) ma la motivazione che tutta la sua vita rivela di questo gesto. Sicché non tanto facilmente egli può essere usato come una bandiera nel fiero conflitto intorno ai modi del morire e a ciò che significhi «morte naturale», quando vita e morte sono ormai nelle mani di tecnici intesi come medici.
La vera motivazione di questo morire senza accanimento, per il cristiano Martini non può essere stata se non l'idea che non c'era ragione di ritardare oltre misura il suo incontro col Padre, la ragione non poteva non stare nel fatto che nel suo magistero, nel quale aveva sempre valorizzato la vita, aveva pure annunciato un'altra vita in Dio, senza più limiti di spazio e di tempo, e che la fede nella resurrezione, se era stata oggetto della sua tesi di laurea, tanto più doveva animare e motivare l'ultimo tratto della sua vita terrena.
E questa, la fede, era stata la sua vera profezia. Perché molto, su tutte le sponde, si parla della Chiesa, e molto parlano e si fanno parlare di uomini di Chiesa. Ma troppo spesso, se non quasi sempre, si dimentica che la vera posta in gioco non è una scienza, non è una politica, non è una legislazione, non è una morale, ma è la fede. La questione, la vera questione, è quella di Dio e del suo rapporto con ogni vivente.
La fede, in che cosa credere, come credere, come raccontare la fede, è stato anche il vero contenuto e il vero assillo del Concilio, ben al di là delle questioni riguardanti ministeri e primati. E ancora questa è la questione che resta, se si vuole ancora parlare con l'uomo di oggi, all'altezza dei suoi problemi. E questo era precisamente ciò che spingeva Martini a parlare a tutti e ad andare a scuola da tutti, credenti e non credenti, laici e consacrati, cattolici e altri cristiani, uomini di altre religioni e senza religione. Perché la questione non è l'appartenenza, la questione è l'amore di Dio.
Nel febbraio 1992 il cardinale Martini presiedette alle esequie del padre David Maria Turoldo, un altro cristiano libero come lui. Troppo libero perché l'istituzione ecclesiastica non ce l'avesse con lui, e infatti Turoldo, che aveva partecipato a tutte le battaglie civili e religiose, dalla Resistenza al referendum sul divorzio ai bollori del rinnovamento postconciliare, era stato perseguitato, tenuto in sospetto e messo in disparte dagli ecclesiastici in esercizio di autorità. Martini, arcivescovo a Milano, qualche mese prima che egli morisse, l'aveva accolto e stretto nell'abbraccio della Chiesa, conferendogli il Premio Lazzati e dicendo: «La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi». Morendo, nella sua ultima omelia, Turoldo disse ai fedeli che si erano venuti ad accomiatare da lui: «La vita non finisce mai».
È lo stesso annuncio che, con la sua morte, Martini dà a tutti noi. La profezia non finisce, e nemmeno la vita. E non si tratta di accanirsi o non accanirsi, si tratta del dono di Dio che a nessun uomo o donna è negato. Questo, e non altro, deve dire «un uomo di Dio», gesuita, cardinale o papa che sia. Martini lo ha detto e lo ha testimoniato fino alla fine.

 

il manifesto 1 settembre 2012

 

 

 

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