di Paolo Giordano
Il pullman che ci porta a Sabra e Shatila è di quelli turistici: bianco, nuovo, lucidato in ogni parte — così ingombrante che al primo tentativo di svolta nelle stradine anguste del campo rimane incastrato in diagonale, bloccando il traffico nelle due direzioni. Una pessima figura. Noi passeggeri — una ventina, di nazionalità diverse e per la maggior parte di carnagione chiarissima — scendiamo in fila, imbarazzati, e abbandoniamo l’autista al suo destino, mentre una folla di abitanti innervositi gli cresce intorno. Il nostro ingresso nell’area palestinese di Beirut non è stato dei più appropriati, né dei più sobri. Certo, non l’atteggiamento che si dovrebbe adottare varcando la soglia di uno dei luoghi di più grave sofferenza al mondo.
Nei giorni precedenti la visita mi domandavo quale senso avesse una gita tanto macabra, in un quartiere dove — intuivo — non avrei trovato altro che condizioni di vita esasperate e dove avrei avvertito la presenza della morte violenta aleggiare ancora greve nell’aria. Se non fosse stato qualcun altro a propormi l’esplorazione, è probabile che non l’avrei neppure considerata fra le numerose attività da svolgere in pochi giorni a Beirut. Sapevo del massacro, emi accorgevo di quanto vicino in linea d’aria fosse accaduto rispetto al quartiere chiassoso di Hamra dove alloggiavo, ma non mi sarei mai sognato di andarne a cercare le tracce. Eppure, quando la proposta è stata avanzata, la curiosità è esplosa forte in me, figlia di quel connubio micidiale fra ripugnanza e fascino oscuro che la contemplazione della mostruosità umana sa creare. Ho scelto dalla valigia i vestiti meno appariscenti e lasciato in stanza la macchina fotografica.
Nel settembre del 1982 ero ancora immerso nel tepore del liquido amniotico, dentro il ventre di mia madre. In quella fine estate diedi prova di una fretta eccessiva e, per scongiurare un parto al quinto mese, lei venne costretta a letto, a riposo assoluto, per il resto della gravidanza. Mio padre decise di ospedalizzarla in casa: trasformò la camera matrimoniale in una clinica arrangiata, medicinali e siringhe in ordine sopra il comodino, la boccetta della flebo appesa a una scala di alluminio. Ignoro se tra i comfort di cui aveva dotato la stanza vi fosse anche un televisore e, quindi, se il 13 settembre mia madre poté vedere le immagini delle ultime truppe italiane che, insieme a francesi e americani, si allontanavano dalle coste del Libano per rientrare in Italia, liete di lasciarsi alle spalle una nazione abbastanza stabile. Di sicuro, alcuni giorni più tardi, ricevette con il resto del mondo la notizia di ciò che nel frattempo era accaduto al riparo dallo sguardo di tutti dentro il cuore palestinese di Beirut. Quando le ho domandato se si ricordasse del massacro di Sabra e Shatila, mi ha risposto pronta: certo che me ne ricordo. Ero incinta di te.
Ecco, a grandi linee, che cos’era successo a molti chilometri di distanza dall’ospedale arrangiato dove io giocavo ad afferrarmi i piedi. Dopo la partenza delle forze internazionali, il Libano passa sotto il controllo d’Israele, che ha ricevuto mandato di preservare la sicurezza nel Paese e, contestualmente, il divieto di entrare nella parte ovest della capitale. Il 15 settembre, quando i nostri militari sono già a casa a scrollarsi di dosso il Medio Oriente, accade qualcosa d’imprevisto: un ordigno esplode nella sede del partito falangista e il suo leader, nonché neoeletto presidente del Libano, Bashir Gemayel, muore nell’attentato. L’esercito israeliano infrange l’accordo e sconfina in Beirut ovest, affermando il buon proposito di contenere i disordini seguiti all’omicidio. Il campo palestinese di Sabra e Shatila, dal quale erano già stati allontanati molti dei combattenti e buona parte degli uomini in generale e dove pertanto restava una popolazione indifesa, viene circondato dalle milizie di Ariel Sharon, che non lasciano più entrare o uscire nessuno. Solo 250 falangisti (che si dice attendessero il loro momento da prima della morte di Gemayel) attraversano con disinvoltura i posti di blocco e la sera del 16 si sparpagliano per il campo, illuminato a festa dai razzi israeliani che piovono lentissimi dal cielo. Per quaranta ore i soldati passano di casa in casa e arrestano, stuprano, torturano, ammazzano, smembrano ogni essere umano che riescono a stanare. Per quaranta ore, il tempo infinito di un giorno e due notti, danno libero sfogo alla fantasia nel compiere ogni sorta di nefandezze, con l’agilità di un branco di tigri che impazza in un pollaio. Poiché sanno che non sarebbe educato lasciarsi dietro tutto quel disordine, si affrettano a scavare delle fosse comuni e le inzeppano di cadaveri, altri li ammassano sui camion agricoli diretti verso il confine — verranno trovati sui bordi delle strade, come sassi per segnare la via. La notizia dell’eccidio in atto trapela piano in un mondo ancora sprovvisto di Internet e, comunque, gli israeliani vietano a chiunque l’accesso al campo fino alla mattina del 18. Con tutta calma, viene ucciso un numero imprecisato di persone, soprattutto anziani, donne e bambini: a oggi, quel numero è stimato senza troppa accuratezza come superiore a 3.000.
La nostra guida al campo, un mio coetaneo con i capelli a spazzola luccicanti di gel, non ricostruisce per noi la cronistoria, dà per scontato che la conosciamo bene. Non sa quanto si sbaglia: poche realtà creano più confusione nelle nostre menti delle intricatissime vicende mediorientali—andremo tutti a ripassare su Wikipedia, più tardi. La prima domanda che gli rivolgo mette a nudo l’ignoranza generale: qui siamo a Sabra o a Shatila? Sorride, vagamente rattristato, come se fosse uguale con tutti. Il campo ormai è uno soltanto, ci spiega, e si chiama così: Sabra e Shatila — e così, al singolare, io sceglierò di riportarlo, nonostante la dicitura corrente. Poi la guida ci raccomanda di fare attenzione al groviglio di cavi elettrici che passa una spanna sopra le nostre teste, fitto come un secondo cielo. Fra le principali cause di morte a Sabra e Shatila, dice, la più frequente oggi è la folgorazione.
Il solo luogo di memoria del massacro si trova in un garage, dietro un portone marcio chiuso con un lucchetto, il genere di serramento che da noi nasconderebbe una carrozzeria abbandonata. L’interno è spoglio, uno stanzone intonacato di bianco interrotto da alcune colonne squadrate. Il massetto in rilievo lascia a disposizione un percorso strettissimo per i piedi, quindi alcuni di noi ci salgono sopra. Quando la guida avvisa che sotto il cemento sono impilati 700 cadaveri — impilati per mancanza di spazio —, scendiamo in fretta, sconvolti, e ci stringiamo nel corridoio.
Ascoltiamo il racconto di un uomo. Parla piano, rivolto al pavimento. Tutta la sua famiglia è stata uccisa la notte del 16 settembre 1982: genitori, fratelli e sorelle, a eccezione di una, malmenata al punto che ora è in sedia a rotelle. Quanto a lui, riuscì a scappare e nascondersi, dopo essere stato rincorso a lungo per i vicoli da un soldato con un’ascia. Inseguito. Con un’ascia. Sarà questa la visione che mi resterà attaccata addosso per il resto della mattina. Un ragazzo inseguito con un’ascia. Mi balena stupidamente la sequenza finale del film Shining: l’ho sempre trovata insopportabile, da bambino mi era costata una settimana di incubi.
Per allontanare l’orrore mi concentro sul luogo: i vasi di fiori in plastica mezzo rovesciati, le fotografie sbiadite dei defunti e quella ripetuta ossessivamente di Yasser Arafat; le finestrelle frantumate e sporche, il disordine. È un cimitero indegno. D’un tratto riconosco il senso onnipresente di precarietà, di mancata cura che fin dal primo momento ho avvertito a Sabra e Shatila. Una comunità vive qui da sessant’anni, ma sembra che la gente sia appena arrivata o sia pronta per andarsene. Se vincessi il timore di offendere e ne domandassi ragione alla guida, senz’altro mi risponderebbe che ai palestinesi non viene data la possibilità di creare alcunché di stabile. Se, invece, interrogassi uno dei molti antipalestinesi residenti a Beirut — ce ne sono a volontà e per ogni confessione, basta scegliere —, direbbe che loro sono fatti così, che campano da parassiti. Quando si parla di Palestina, per ogni domanda vengono offerte due risposte antitetiche, così noncuranti l’una dell’altra, così inconciliabili, da farti sorgere il dubbio che, dopo gli innumerevoli travasi e rovesciamenti, la verità sia andata perduta.
Ne ho presto un altro esempio. Durante il tragitto in pullman, una ragazza libanese mi ha informato che il campo è sotto il controllo di Hamas, facendo tanto d’occhi alla mia reazione, come se fosse qualcosa di risaputo. Chiedo conferma alla guida. La risposta arriva lapidaria: non c’è Hamas, qui. Qui c’è soltanto l’Olp.
Sarà come dice lui, tuttavia, usciti dalla tomba collettiva e inoltrandoci fra le case, c’imbattiamo in decine di manifesti simili tra loro: mostrano i volti dei martiri incorniciati da ghirlande floreali, accanto a mani che impugnano con forza i kalashnikov e a slogan il cui significato non è troppo difficile immaginare. Sembra che tutto il dolore di Sabra e Shatila, tutto il lutto e l’ira dei superstiti siano stati trasformati in propaganda a favore della guerriglia antisraeliana. Più di un intellettuale pone nel 1982 il principio dell’azione terroristica islamica come la conosciamo, della moda kamikaze, le cui conseguenze non hanno fatto che amplificarsi fino a oggi. A sentire loro, il trentennale che ricorre fra pochi giorni è anche il trentennale di una guerra: di tutte quelle presenti sul pianeta, forse la più longeva e di certo la più vitale.
E in effetti, se torno indietro con la memoria, mi accorgo di come il conflitto palestinese mi abbia accompagnato come un rumore di fondo, fin dal principio. Tra i ricordi d’infanzia più remoti riesco a pescare alcune immagini sparse della prima Intifada, trasmesse all’ora di cena dal televisore Grundig che possedevamo all’epoca. Quei servizi del telegiornale segnarono il mio contatto iniziale con l’idea di lotta fra popoli e mi portarono a considerare per lungo tempo la guerra in generale come qualcosa che avveniva laggiù. I bollettini si ripetevano, giorno dopo giorno sempre simili, e comemolti mi domandavo quando sarebbe finita. Non so dire se la risposta a quel dubbio nacque spontanea nella mia testa o se invece la udii da altri, se chi la pronunciò stesse parlando proprio con me — per anni, comunque, costituì la mia sostanziale comprensione del fenomeno e dei suoi possibili sviluppi: finirà quando si saranno ammazzati tutti.
Soltanto al liceo feci qualche passo avanti, quando assumere una posizione netta riguardo alla politica d’Israele divenne un obbligo morale fra i miei coetanei. Ai concerti dove andavo sventolavano sempre un paio di bandiere verde-bianco-rosso-nero, ma era facile rendersi conto che per la maggior parte degli sbandieratori, e così per i loro antagonisti, la convinzione discendeva più che altro come corollario di un’appartenenza politica più ampia. Quasi nessuno, torchiato sulle realtà di Gaza e della West Bank, sarebbe stato in grado di darne anche solo una collocazione geografica precisa. Quando Ariel Sharon passeggiò con la sua scorta nella Spianata delle Moschee, scatenando l’estenuante seconda Intifada, non si avvertiva alcuna frenesia fra i corridoi della mia scuola. Nonostante ciò, e per quanto confusa, la questione mediorientale fu per la mia generazione, accusata di scarso impegno prima ancora di poterne dimostrare uno, il banco di prova del pensiero politico.
Entriamo in un labirinto di viuzze ancora più strette, percorse al centro da un rigagnolo sospetto. Gli edifici sui due lati non sono che sovrapposizioni di cubi di cemento, mai ultimati e privi di serramenti. La nostra guida sembra sollevata dall’avere esaurito l’argomento massacro. Sa bene che siamo stati attratti lì da quello, ma lui è più interessato a illustrarci com’è la vita a Sabra e Shatila oggi. Perciò ci mostra il mercato, la scuola — l’unica, per oltre cinquemila bambini e in grado di non accoglierne neppure la metà —, la clinica — unica anch’essa e sfornita di attrezzatura medica che permetta di andare oltre l’asportazione di un’unghia incarnita. Quindi elenca i problemi che accomunano Sabra e Shatila agli altri campi: il modo in cui la polizia ostacola i movimenti delle persone anche quando è in corso un’emergenza e lo spionaggio continuo a cui la zona è sottoposta — proprio adesso ci stanno guardando, ci mette in guardia, hanno memorizzato le vostre facce e comunicheranno gli spostamenti. Ma chi? Gli informatori, gli agenti segreti israeliani, potrei indicartene due o tre giusto qui, alle nostre spalle.
Ha un’esuberanza un po’ snervante ogni volta che menziona la tenacia e la gaiezza del suo popolo, la vastità del suo spirito. Quando giura che ogni loro sforzo sarebbe teso verso la convivenza pacifica, se solo si fermasse quello stillicidio di soprusi, mi scopro sospettoso. E tutti i manifesti?, vorrei obiettare. Sbirciando nelle case, però, devo in parte ricredermi: le scene cui assisto fanno davvero pensare all’anelito a una qualche normalità, più che a famiglie rabbiose di sfollati dove cova il terrorismo. Se accanto alla strada principale si aprono slarghi colmi di immondizia e chi di noi ha scelto di venire con i sandali cammina in modo strano, come in punta di piedi, all’interno dei cubi di cemento sembra svolgersi una vita assai più decorosa e quieta, provvista di arredamento e tecnologia.
Al termine di un percorso circolare ritroviamo il pullman, allo stesso incrocio dove lo avevamo lasciato ma miracolosamente girato nella giusta direzione. È pronto a riportarci al cospetto dei grattacieli mastodontici della Corniche, in mezzo agli alberi fioriti di melograno, e alle buganvillee, che insinuano liane fra i pochi fori di pallottole risparmiati dalla furia restauratrice: appena trenta minuti di viaggio, traffico permettendo, per allontanarsi di anni luce da Sabra e Shatila.
La guida ci congeda con una profezia inquietante. Ci raccomanda di ricordarci del campo, perché ne sentiremo presto parlare. Perché?, domandiamo. Perché la guerra della Siria verrà esportata lì. Succede sempre, le ostilità iniziano altrove e poi trovano sfogo in Libano, soprattutto nei campi, dove non danno troppo fastidio e dove c’è abbondanza di capri espiatori. Gli chiedo se ne è sicuro. Al cento per cento, risponde. La prossima volta che darò un’occhiata alla cartina del Medio Oriente, la Siria mi apparirà diversa, simile a una testa di cane messa di profilo, le fauci spalancate mentre azzanna il Libano.
Nel giorno in cui scrivo si parla di un probabile massacro a Daraya, giusto in Siria, pochi chilometri a sudovest di Damasco. Sono stati trovati circa duecento cadaveri, fra cui bambini e una famiglia intera. Per il momento non ci sono giornalisti sul posto ma, anche dopo che avranno verificato, non potranno fornire molto di più che la conta puntuale dei corpi. È strano: c’è sempre tanto da raccontare su un singolo omicidio — intrighi, moventi, complicità —, ma non altrettanto da dire su una strage. Neppure su quella di Sabra e Shatila. Non esisteva relazione intima fra chi uccise e chi fu ucciso, nessuna storia pregressa, soltanto dei fattori astratti e impersonali, dei contenziosi ideologici, collegavano le vittime ai carnefici. Al di là della perversa concatenazione di eventi che innescò la rappresaglia e che possiamo ripercorrere avanti e indietro centinaia di volte, senza che aggiunga una virgola alla nostra comprensione, restano solo la somma totale dei morti e la descrizione raccapricciante delle modalità con cui la violenza venne applicata. Jean Genet, nel testo più celebre riguardante quel settembre, Quattro ore a Shatila, replica ossessivamente le stesse immagini: i dettagli delle mutilazioni, il puzzo della carne che imputridisce al sole, gli sciami di mosche che le vorticano attorno.
Quando scoprii del massacro di Sabra e Shatila avevo ormai ventisei anni. Comemolti della mia età, recuperai quel pezzo di storia grazie a un film di animazione, Valzer con Bashir, che all’inizio mi attrasse soprattutto per la sua forma originale. Al termine del lungometraggio, i disegni lasciano improvvisamente spazio alle fotografie scattate nel campo dai primi osservatori che vi entrarono. Mostrano corpi lacerati, seminudi, nella postura di chi implora pietà. Ricordo che uscii dal cinema infastidito da quell’irruzione di realismo dentro un film così aggraziato e implicito, la trovai ricattatoria, un pugno nello stomaco che il regista Ari Folman ci sferrava gratuitamente. Ho cambiato idea. È grazie a quella sequenza cruda che ho spinto la mia curiosità fin dentro il campo di Sabra e Shatila, solo per ascoltare altre testimonianze atroci, per vedere un uomo commuoversi anche l’ennesima volta in cui rievocava i suoi fratelli e la notte in cui fu inseguito con un’ascia. In mancanza di giustificazioni più profonde, di retroscena sensati cui affidarci, non si può che contare sulla riproposizione dell’orrore, sui compleanni osceni della tragedia, per tenere vivo nella memoria ciò che accadde, ancora e ancora.
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