di Marco Zerbino

Ufficialmente non esistono. Eppure ci sono. Lavorano sotto il sole delle nostre campagne per quindici, sedici ore consecutive. Raccolgono angurie e pomodori in Puglia, agrumi nel siracusano e nella piana di Gioia Tauro, pesche e ortaggi nel casertano, uva in Veneto, mele in Trentino. Dormono nei campi o vivono stipati in condizioni di fortuna all’interno di capannoni e casali abbandonati, lontani dai centri abitati e da qualsiasi tipo di servizio. Sottoposti alla dura legge dei caporali, dipendono in tutto dai loro aguzzini: cibo, acqua, trasporto sul posto di lavoro, un medico quando ne hanno bisogno.


Il tutto per pochi spiccioli. Sono invisibili, ma senza di loro i pomodori e le arance che finiscono sulla nostra tavola non muoverebbero un passo.

Sono i braccianti, per lo più stranieri, in gran parte africani e magrebini, che lavorano stagionalmente nei campi degli imprenditori agricoli italiani, ed è per farli uscire da questa condizione di isolamento e di anonimato che la Flai, l’organizzazione che riunisce i lavoratori dell’agroindustria della Cgil, ha dato vita ai primi di luglio al progetto «Gli invisibili delle campagne di raccolta».

A «Fiumana 2012», la festa della Fiom in corso a Torino, è il lavoro ad essere al centro. Tutto il lavoro, anche quello che non risulta nelle statistiche ufficiali. Non poteva dunque mancare un momento dedicato a questa categoria di lavoratori ipersfruttati e costretti all’illegalità. Lo si è avuto con il dibattito «Le voci del lavoro migrante», organizzato dall’associazione Officine Corsare, cui hanno partecipato il comitato antirazzista saluzzese, Jean-René Bilongo, del dipartimento immigrazione della Cgil nazionale, e Yvan Sagnet.

Con quest’ultimo, ex bracciante agricolo e responsabile della campagna messa in piedi dalla Flai, abbiamo avuto modo di scambiare qualche battuta sia sull’iniziativa che coordina sia sull’episodio che ne è all’origine: lo sciopero dei braccianti di Nardò. Quella vertenza, sviluppatasi nelle campagne della provincia di Lecce ad agosto 2011, ha rappresentato di fatto il primo esperimento di organizzazione collettiva e di lotta vincente nel settore della raccolta agricola svolta da lavoratori immigrati. Originario del Camerun, trasferitosi in Puglia per lavorare come bracciante dopo aver perso, a causa della crisi, il lavoro che svolgeva precedentemente in nord Italia, Yvan era fra coloro che, a Nardò, hanno incrociato le braccia e si sono rifiutati di sottostare al diktat di caporali e proprietari.

Partiamo da quanto successo un anno fa. Perché l’esperienza di Nardò è stata tanto importante da indurre la Cgil a mettere in piedi una campagna che ne raccogliesse in qualche modo il testimone?

Quell’esperienza è stata un modello. La campagna «invisibili» vuole soprattutto dare ai lavoratori stagionali del settore agricolo, che sono nella stragrande maggioranza stranieri e lavorano quasi sempre in nero, la possibilità di prendere consapevolezza dei propri diritti. I lavoratori di Nardò hanno dimostrato che si può lottare per i propri diritti e ottenere dei risultati. Hanno insegnato, molto semplicemente, che la lotta paga e che i problemi degli immigrati non si risolvono con l’assistenzialismo e con il paternalismo. Gli immigrati sono in Italia perché lavorano, perché gli imprenditori italiani hanno bisogno del loro lavoro, e quindi non possono non avere dei diritti. Direi che l’importanza di Nardò è stata proprio questa: scoprire che si possiedono dei diritti e che è possibile farli valere.

Com’è nata quella vertenza?

È nata essenzialmente perché, ad un certo punto, abbiamo deciso di non accettare più le condizioni di lavoro disumane che eravamo costretti a subire. Lo sciopero ha coinvolto, a partire dalla fine di luglio 2011, 700 lavoratori impiegati nella raccolta di pomodori in Puglia, nel leccese. Per due settimane abbiamo bloccato completamente la produzione, creando un danno notevole alla controparte. In quei giorni, lo sciopero ha avuto un’adesione massiccia, più del 90% dei lavoratori.

Poi si è continuato in totale per circa un mese, anche se con una partecipazione minore. Per un bracciante immigrato non è facile scioperare. C’è un fattore che, fortunatamente, tocca di meno i lavoratori italiani, che hanno dei diritti di cittadinanza, una famiglia e degli amici che possono sostenerli, ecc. Isolato com’è dal resto del mondo, in balia di padroni e caporali, il lavoratore immigrato, se decide di scioperare, si trova in breve a dover fare in conti con un problema molto concreto: la fame.

Fortunatamente, oltre a ricevere da un certo punto in poi l’aiuto della Cgil, attorno a noi si è creata una rete di solidarietà animata da varie associazioni e dalla popolazione locale. È anche grazie a quest’aiuto e alla cassa di resistenza che abbiamo creato se lo sciopero è potuto continuare fino a farci ottenere dei risultati importanti.

Prima hai accennato a delle condizioni di lavoro disumane. Potresti descriverci brevemente come vivono gli stagionali che lavorano nelle campagne italiane?

Innanzitutto va detto che questo tipo di lavoratori sono spesso in balia dei caporali. Vivono lontano dai centri abitati e da qualsiasi tipo di servizio, e dipendono in tutto da queste figure di intermediari. Ai 20, massimo 25 euro giornalieri che guadagnavamo a Nardò, dovevamo togliere i soldi che davamo al caporale per comprare da lui il panino, la bottiglietta d’acqua, per pagare il servizio di trasporto, per vedere un medico se ne avevamo bisogno, ecc. Alla fine, dopo una giornata di lavoro, ci restavano in tasca più o meno 15 euro…

Questo dopo aver lavorato quante ore?

Spesso anche 16. Dipendeva dal numero di camion che bisognava riempire. La giornata incominciava alle tre del mattino, perché il lavoro di sradicamento delle piantine lo si fa prima che esca il sole. Poi, a partire dalle sei, dopo l’alba, passavamo a riempire i cassoni, e rimanevamo impegnati in questa attività almeno fino alle quattro del pomeriggio, ma talvolta anche fino alle sette di sera. Tutto questo ovviamente è possibile perché nelle campagne si lavora in nero, in una situazione di ricatto permanente. Calcola che, secondo il contratto di settore, la paga giornaliera dovrebbe essere di 58 euro, per un numero di ore lavorate che va da un minimo di sei ore e mezza ad un massimo di dieci.

Secondo te, per quale motivo questa situazione intollerabile è esplosa proprio l’estate dell’anno scorso, e non prima?

Un fattore determinante è stato il fatto che, a causa della crisi, molti immigrati che vivevano in nord Italia, e che magari avevano lavorato in fabbrica, o comunque in posti di lavoro più strutturati, dove c’era il sindacato, ecc. negli ultimi anni si sono trasferiti al sud per lavorare nel settore agricolo. Io stesso, l’anno scorso sono andato a lavorare in campagna a Nardò ma prima avevo lavorato in Piemonte e Lombardia.

Poi ho perso il lavoro e, consigliato da un amico, sono andato giù a fare la raccolta. Ecco, direi che il nucleo duro dello sciopero, quello che ha preso l’iniziativa e si è preso la responsabilità della direzione della lotta, era fatto per lo più da lavoratori di questo tipo, che magari avevano già un’esperienza sindacale alle spalle. All’inizio abbiamo ovviamente faticato un po’ a coinvolgere gli altri compagni di lavoro, che o venivano direttamente da Lampedusa o erano già da qualche anno lavoratori in nero del settore agricolo.

Però posso dire che alla fine ci siamo riusciti, con la forza dell’esempio e coinvolgendoli nelle nostre discussioni, nelle assemblee. Alla fine, come dicevo, siamo riusciti a bloccare completamente la produzione per due settimane, cosa che non avremo potuto fare senza una grande unità.

Che risultati ha prodotto lo sciopero?

Sul piano legislativo, ha prodotto l’introduzione, all’interno del codice penale italiano, di un nuovo articolo, il 603bis, che punisce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cioè il caporalato. Inoltre, anche se non è un effetto diretto della nostra battaglia, lo sciopero di Nardò ha accelerato il processo di approvazione della legge che in Italia ha recepito la direttiva comunitaria 52.

In base a quella legge, oggi al lavoratore straniero che denuncia il padrone che non lo mette in regola viene dato un permesso di soggiorno della durata di sei mesi. La regione Puglia ha approvato un provvedimento che introduce delle liste di prenotazione, una sorta di collocamento, in modo che i proprietari delle terre su cui lavorano gli stagionali non abbiano più l’alibi secondo il quale non riuscirebbero a trovare manodopera con mezzi legali, vedendosi così costretti a ricorrere ai caporali.

Se non ci limitiamo al piano strettamente legislativo e sindacale, ma consideriamo anche quello, necessario, della repressione dei comportamenti illeciti da parte di chi assume, va infine segnalato che la magistratura, sulla base di nostre denunce, ha fatto arrestare un paio di mesi fa alcuni imprenditori e diversi caporali, accusandoli del reato di riduzione in schiavitù.

Ma, soprattutto, la cosa più importante che abbiamo ottenuto l’anno scorso, alla fine dello sciopero, è stata l’applicazione del contratto per un buon numero di lavoratori. Stiamo infatti parlando di un settore in cui il 90% del lavoro è svolto in nero.

Veniamo ora alla campagna della Flai Cgil di cui sei responsabile nazionale. Com’è nata l’idea di metterla in piedi?

L’idea è nata proprio sulla spinta dei fatti di Nardò, che hanno chiarito a molti braccianti che uscire da una condizione di ricatto permanente, di sfruttamento e di illegalità è possibile. Ma una rondine non fa primavera, e quindi abbiamo pensato che fosse il caso di tentare di rendere più stabile quell’esperienza, di mettere in piedi una campagna che desse agli stagionali del settore agricolo la possibilità di replicare quell’esperienza.

A Nardò, ad esempio, quest’anno il comune ha deciso di non far riaprire la masseria che ci ospitava l’anno scorso e in cui si era sviluppata la lotta. Quindi quest’estate i lavoratori che sono andati a fare la raccolta si sono trovati nuovamente divisi, sparsi in piccoli gruppi nella campagna anziché concentrati in un unico posto in cui avrebbero avuto la possibilità di confrontarsi, di condividere le proprie frustrazioni e, eventualmente, di organizzarsi.

Quella dell’amministrazione comunale è una scelta molto strana, non giustificata e che, di fatto, fa l’interesse dei padroni agricoli della zona, che spesso hanno contatti con la criminalità organizzata. Con la nostra campagna cerchiamo proprio di sottrarre i lavoratori all’inevitabilità di questa condizione che continua a riprodursi.

Come si articola, nel concreto, il progetto della Flai?

La campagna è nazionale e durerà complessivamente due anni. Quello che facciamo è fondamentalmente andare in giro nei luoghi della raccolta, seguendo la transumanza degli stagionali, offrendo loro assistenza sindacale, legale e sanitaria e chiamando in causa anche le istituzioni locali e nazionali. Soprattutto, ci interessa che i braccianti stranieri diventino consapevoli di essere provvisti di diritti.

In Italia c’è un quadro legislativo che, di fatto, favorisce il lavoro nero e la ricattabilità dei lavoratori stranieri. Pertanto, riteniamo che la cosa più importante sia che questi lavoratori comprendano che hanno un ruolo produttivo, e che quindi hanno anche potenzialmente un potere contrattuale da far valere. Questo è il cuore dell’insegnamento di Nardò: la consapevolezza che si hanno dei diritti, che non è scontato vivere e lavorare in determinate condizioni. E, soprattutto, che uniti si può vincere.

 

pubblicogiornale.it

 

 

 

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