di Alberto Lucarelli

Il recente deposito in Cassazione dei quesiti referendarie delle relative firme (circa un milione), a tutela del lavoro e dei lavoratori, che rischia di non produrre effetti sul piano giuridico, dimostra come il sistema di democrazia diretta e quindi di partecipazione popolare sia subordinato a regole e procedure che ne sviliscono la portata democratica. Facciamo un passo indietro. La legge n. 352 del 1970 (legge sul referendum) all'art. 31, prevede che non può essere depositata richiesta di referendum «nell'anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali per l'elezione di una delle Camere medesime».

Così come richiesta di referendum, ai sensi della medesima disposizione, non può essere depositata a Camere sciolte. Nel caso specifico cosa è successo? Alla fine del mese di dicembre il Capo dello Stato, ai sensi dell'art. 88 della Costituzione, ha esercitato il potere di scioglimento anticipato delle Camere. Il Comitato referendario, che aveva raccolto le firme nel 2012 per depositarle, in armonia con il dettato normativo nel 2013, prima dei comizi elettorali, quindi presumibilmente nella finestra apertasi nel mese di gennaio, ha visto così svanito il proprio lavoro quanto meno sotto il profilo giuridico-istituzionale. Lasciando stare l'attuale normativa, troppo restrittiva per l'esercizio dei referendum, figlia di una stagione che aveva voluto, anche oltre la volontà dei costituenti, sostanzialmente esaurire le dimensione della democrazia nella rappresentanza, e che comunque imporrà da parte del prossimo parlamento un serio ripensamento, soprattutto per i latenti profili di illegittimità (penso soprattutto ai gravosi vincoli sostanziali e procedurali), occorre aprire una seria riflessione sul potere di scioglimento del Capo dello Stato e sua incidenza sui processi referendari. L'esercizio di un «potere neutro», qual è appunto il potere di scioglimento del Capo dello Stato, organo politicamente irresponsabile, dispiega effetti sull'attività dei promotori del referendum che, come più volte evidenziato dalla Corte costituzionale, hanno posto in essere una funzione costituzionalmente rilevante e garantita, attivando la sovranità popolare nell'esercizio dei poteri referendari. Insomma, il potere di scioglimento anticipato esercitato nel mese di dicembre, piuttosto che nella prima settimana di gennaio, ha sostanzialmente impedito il ricorso al popolo sovrano. Occorrerà impegnarsi in parlamento affinché il referendum possa qualificarsi come espressione di pura democrazia diretta, piuttosto che costituire un sotto modello della democrazia rappresentativa, a parte pochi casi in cui battaglie della cittadinanza attiva e dei territori sono stati in grado di interrompere il monopolio del sistema dei partiti e più in generale dell'establishement istituzionale. Dunque tutte le limitazioni alla funzione referendaria, al di là dei limiti espliciti posti dalla Costituzione, non riconducibili alle esigenze di chiarezza, omogeneità, univocità e coerenza non appaiono legittime in quanto configurano piuttosto un'arbitraria compressione di un potere che la stessa Carta costituzionale attribuisce al popolo sovrano. Inoltre occorre ricordare che né l'art. 75 della Costituzione, né la giurisprudenza del giudice costituzionale, pur delineando uno spazio per il referendum di natura integrativa, ma non alternativa al sistema parlamentare, hanno inteso l'istituto come un sotto modello della rappresentanza. Certo il prossimo parlamento dovrà impegnarsi a modificare il IV comma dell'art. 75 Costituzione, laddove afferma che la proposta soggetta a referendum è approvata soltanto se abbia partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto. Questo quorum, così alto, che in Italia si traduce in oltre 25 milioni di cittadini (50% dell'elettorato attivo) è troppo punitivo e restrittivo e andrebbe modificato abbassandolo almeno al 30%. Nel caso dei referendum sul lavoro il prossimo parlamento dovrà impegnarsi ad approvare una leggina tesa a salvare la proposta referendaria e la raccolta delle firme, intervenendo con effetti abrogativi retroattivi sulle norme che ne stanno impedendo l'esercizio. Dopo gli straordinari risultati referendari del giugno 2011, quando 27 milioni di cittadini impedirono il saccheggio dei beni comuni e dei servizi pubblici locali essenziali, votando contro le privatizzazioni, sembra quasi che sia scattata oggi una reazione a tale strumento, come se il referendum abrogativo sia percepito come uno strumento potenzialmente oppositivo e avversativo nei confronti del circuito della rappresentanza, o, per meglio dire, del circuito decisionale partitico-parlamentare. Si tende a trasformare il referendum da strumento partecipativo e di controllo da parte della società sullo Stato e, dunque, sulle sue istituzioni rappresentative, a strumento che i partiti tendono ad interiorizzare, al fine di non determinare traumi sulla forma di governo rappresentativa. I referendum sul lavoro oggi davano fastidio al circuito della rappresentanza e del mondo dell'impresa, e quindi il combinato disposto di una norma del 1970, eccessivamente restrittiva nelle forme e nelle procedure, ed il ricorso al potere di scioglimento anticipato, ne hanno di fatto impedito lo svolgimento, tradendo il principio che la sovranità appartiene al popolo. Il neo-costituzionalismo per il quale ci battiamo, attraverso nuove forme della politica e soprattutto attraverso una declinazione della democrazia più ampia, informata, sul piano dell'effettività, soprattutto dalle emergenti categorie della partecipazione e dei beni comuni, deve fondarsi anche sulla valorizzazione dell'istituto referendario quale espressione di democrazia diretta ed erosione di una sovranità autoritaria e calata dall'alto.

 

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