linda gallinari2di Giovanni Russo Spena
Con Prospero Gallinari ho avuto, dall'inizio degli anni '90, un rapporto intenso. Le scelte politiche ed il vissuto di Prospero erano, certo, molto differenti dalle mie scelte. Prospero fondatore e dirigente delle Brigate Rosse; io, comunista pacifista e libertario, che ho sempre pensato il conflitto, anche il più radicale, come totalmente «altro» rispetto alla lotta armata. Eppure ho imparato a comprendere la dignità di Prospero, a maturare rispetto nei suoi confronti.
Lo conobbi all'inizio degli anni '90, in una delle frequenti visite in carcere. Soffriva molto di patologia cardiaca, ma rifuggiva da autocommiserazioni e vittimismi. Nacquero settimanali discussioni, tra due percorsi di vita differenti. Da un lato un pacifista che riteneva il cortocircuito della lotta armata un sostitutismo, una espropriazione dei movimenti, la prospettazione implicita (nel raccordo tra mezzi e fini) di una società comunista autoritaria.

Dall'altro una persona che aveva sacrificato la vita propria ed altrui scegliendo la lotta armata, convinto che fosse l'unico mezzo per il fine rivoluzionario. Una scelta di cui non si pentiva (aborriva benefici giudiziari e penali), da cui non si dissociava strategicamente. Ma riteneva la lotta armata sconfitta, finita; diceva spesso: «è una storia che non c'è più; quella di oggi è un'altra storia».
Ricordo quei colloqui, a volte aspri, con umana tenerezza. In essi si articolava la complessa grammatica di quell'«album di famiglia» di cui parlò Rossana. Avvertivo che, comunque, Prospero faceva parte della mia storia, pur nei diversi vissuti comunisti. Io giovane universitario che andava a scuola di lotta di classe dai delegati di fabbrica dell'Italsider di Bagnoli e dell'Alfa Sud; Prospero, giovane comunista proletario cresciuto in una sezione reggina del Pci emiliano.
Mi preme qui ricordare che la cosa che lo faceva incazzare (l'unica, che io ricordi) era la dietrologia (nata intorno al processo Moro) che descriveva la lotta armata come eterodiretta, proiezione di apparati dello Stato italiani o stranieri. E l'uccisione di Aldo Moro come azione voluta dalla Trilaterale, all'interno della quale i brigatisti erano stati solo manovalanza incolta ed inconsapevole. Mi ripeteva spesso: «Abbiamo fatto certo molti errori, anche di incomprensioni ed ingenuità, come il non aver compreso fino in fondo l'importanza delle accuse di Moro prigioniero ai poteri istituzionali, ma sempre fummo autonomi, non eterodiretti».
Intorno a Gallinari (e Ricciardi) nacque un'ampia e difficile iniziativa garantista che vide Rossana Rossanda, il manifesto, molti intellettuali battersi perché la pena carceraria venisse sospesa per la grave malattia, che rendeva insopportabile la condizione di detenzione. Ponemmo un tema rilevante dello Stato di diritto, l'«habeas corpus», la fedeltà alla concezione costituzionale della pena: risocializzazione, non vendetta di Stato. Alla fine Prospero uscì dal carcere. Ebbe un primo infarto qualche anno fa.
Quando ero, per assemblee a Reggio o dintorni, veniva a trovarmi. Ma ora parlavamo di politica, di conflitti, di sindacato, di organizzazione dei movimenti. I rancori, le demonizzazioni personali sono pessima politica, che non va confusa con giudizi storici e politici pur molto differenti. Anche per questo Prospero mi manca.

Il Manifesto - 15.01.13

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