di Raffaele Lungarella, lavoce.info -
Il mercato dell’affitto dopo l’Imu
La paternità dell’Imu è già stata rinnegata, in misura minore o maggiore, da tutte le forze politiche che ne hanno votato l’istituzione o la regolamentazione operativa, tanto da prometterne, nella recente campagna elettorale, l’eliminazione o almeno la riduzione sulle prime case di abitazione. La politica non si è finora preoccupata di valutare l’impatto di questa imposta patrimoniale sul mercato delle abitazioni in affitto e delle sue conseguenze sui canoni (e, quindi, dei suoi effetti sociali).
L’effetto combinato dell’incremento del 60 per cento della base imponibile e delle aliquote elevate, applicate alle abitazioni in locazione, che possono variare dallo 0,76 all’1,06 per cento, comporta una rilevante lievitazione dell’ammontare dell’imposta rispetto all’Ici. La ripartizione tra locatore e locatario del maggiore onere, dipenderà dallo stato del mercato.
Man mano che i contratti in essere arriveranno a scadenza, se la domanda di alloggi sarà elevata, i proprietari recupereranno con un aumento immediato dei canoni l’aggravio dovuto all’Imu. Nel caso di domanda fiacca, in ragione del pesante onere costituito dall’imposta, molto verosimilmente i proprietari non ritireranno i loro alloggi dal mercato e si accontenteranno anche di canoni che garantiscano rendimenti molto bassi. Ma se questa situazione di mercato dovesse protrarsi nel tempo, i bassi rendimenti scoraggerebbero gli investimenti, con conseguente contrazione dell’offerta di abitazioni in affitto e aumento della tensione sui canoni. A soffrirne sarebbero soprattutto gli investimenti delle persone giuridiche, che non possono cercare di recuperare redditività applicando la cedolare secca.
L’impatto complessivo delle attuali condizioni di applicazione della nuova imposta sul mercato delle abitazioni in affitto potrà essere misurato tra sette anni, quando cioè giungeranno a termine tutti i contratti stipulati nel 2012, primo anno di applicazione dell’Imu (la nostra legislazione prevede contratti della durata massima di otto anni). Nel frattempo qualche simulazione può contribuire a valutarne i possibili effetti su entrambe le parti del rapporto contrattuale.
La perdita di reddito dei proprietari
Le tabelle qui sotto riportate sintetizzano le elaborazioni relative a un alloggio tipo affittato a un canone mensile di 800 euro, la cui rendita catastale è di 1.500 euro (si ipotizza sostanzialmente che l’appartamento, ubicato in una città di media dimensione, abbia un valore intorno ai 300mila euro). Calcolato con un’aliquota dello 0,7 per cento (quella prevalentemente applicata dai sindaci agli alloggi locati), l’importo dell’Ici incassata dal comune era di 1.103 euro; mentre quello Imu è di 1.915 euro con aliquota (standard) 0,76 per cento, e di 2.671 euro con aliquota (massima) 1,06 per cento.
Il passaggio dall’Ici all’Imu comporta per il proprietario dell’alloggio una riduzione dell’importo del canone, al netto dell’imposta sul reddito e di quella patrimoniale, tanto maggiore quanto più elevato è il suo reddito. Nel caso di canone di mercato, con Imu allo 0,76 per cento, la riduzione oscilla tra un ottavo per i proprietari collocati nel primo scaglione Irpef e un quinto per quelli con i redditi più elevati. Se i comuni applicano l’aliquota dell’1,06 per cento, le quote si elevano rispettivamente a un quarto e un terzo.
Le perdite di reddito netto sono percentualmente più contenute per il canone concordato. L’applicazione dell’Imu risulta, tuttavia, più penalizzante per i proprietari delle abitazioni ubicate in quei comuni – e non erano rari – che esentavano dall’Ici quelle affittate a canone concordato.
La traslazione dell’Imu sui canoni
In presenza di condizioni di mercato favorevoli, i proprietari degli alloggi riverseranno sui loro inquilini l’aumento dell’Imu, con l’obiettivo di mantenere invariato il reddito che ricavano dal canone al netto delle imposte.
Se il reddito da canone è tassato con l’Irpef, quando il comune applica l’aliquota Imu più bassa, per non sopportare il maggior peso dell’imposta patrimoniale, i proprietari devono aumentare i canoni di libero mercato in essere in una misura che oscilla tra l’11,2 e il 14,9 per cento, a seconda dei loro redditi; e i canoni concordati nell’ordine del 10-12 per cento. Le percentuali più o meno raddoppiano con l’aliquota pari a 1,06 per cento. I più penalizzati sarebbero gli inquilini a canone libero di proprietari ricadenti nello scaglione di reddito più elevato, i quali potrebbero dovere pagare un affitto maggiorato di quasi il 30 per cento.
Nel caso di applicazione della cedolare secca (21 per cento sul canone libero, 19 per cento sul canone concordato), per entrambi i regimi contrattuali, l’aumento è intorno al 10 per cento con l’Imu allo 0,76 per cento e del doppio con l’aliquota dell’1,06 per cento. Nel caso di alloggi ubicati in comuni che non applicavano l’Ici alle abitazioni affittate a canone concordato, l’aumento diventa rilevante con entrambe le aliquote Imu: rispettivamente di un quarto e un terzo.
Tabella 1. Percentuale di cui deve aumentare il canone lordo a seguito dell’introduzione dell’Imu per ottenere il canone al netto dell’imposta calcolato con il regime Ici (con aliquota 0,7 per cento)
Tabella 2. Percentuale di cui deve aumentare il canone lordo a seguito dell’introduzione dell’Imu per ottenere il canone al netto dell’imposta calcolato con il regione Ici
Gli effetti della legge di stabilità 2013
In misura più o meno accentuata, l’impatto dell’Imu sul mercato delle abitazioni in affitto peggiora il rendimento degli investimenti e l’home affordability, a seguito dell’aumento dei canoni. Le modifiche introdotte dal comma 380, articolo 1 della legge 228/2012 (legge di stabilità 2013) non sembrano offrire spazio per un una riduzione dell’imposta sulle abitazioni in locazione.
La norma citata ha stabilito che, per il 2013 e il 2014, l’intero gettito dell’Imu derivante da tutti gli immobili, sui quali operava una riserva statale (determinata con un’aliquota dello 0,38 per cento), sia incamerato dai comuni, mentre lo Stato incasserà l’intero gettito dell’imposta derivante dagli immobili della categoria catastale D, calcolato con un’aliquota standard dello 0,76 per cento (incrementabile dai comuni di uno 0,3 per cento).
Il gettito che si ricava dalla tassazione di questi ultimi immobili è indicato intorno ai 4,5 miliardi di euro. Dello stesso ordine di grandezza può essere stimato il gettito 2012 derivante dalle abitazioni locate. (1) Si può sostanzialmente ritenere che il gettito che i comuni “guadagnano” dalla tassazione delle abitazioni in locazione, bilancia quello che “perdono” dalla tassazione degli immobili produttivi (nel 2012 hanno incassato una parte del loro gettito).
Di conseguenza, se per contenere un possibile aumento degli affitti, i comuni volessero alleggerire il peso dell’Imu sulle abitazioni in locazione, anche solo di quelle locate a canone concordato, dovrebbero compensare la perdita di gettito che ne deriverebbe con un aumento delle aliquote sulle altre categorie di immobili, se non sono già state applicate ai livelli massimi, oppure finanziarlo con altre entrate o tagli di spesa. Tutte soluzioni difficilmente praticabili.
(1) Elaborazioni della Confesercenti stimano, su dati del dipartimento delle finanza, Anci e Agenzia del territorio, in 6,2 miliardi di euro il gettito derivante da tutte le abitazioni non classificabili come abitazione principale; la cifra comprende, pertanto, sia il gettito degli alloggi affitti sia di quelli sfitti e delle case a disposizione.