di Giuseppe Grosso -
Il governo del Pp, che aveva vinto le ultime elezioni al grido di «abbatteremo la disoccupazione», si trova ora a dover fare i conti con la quota di disoccupati più alta della storia del paese. A quasi due anni dall’insediamento del governo, i proclami di Rajoy si sono frantumati contro un muro di 6.202.700 senza lavoro. Un dato colossale: il 27,16% della popolazione attiva – secondo lo studio trimestrale dell’Instituto nacional de estadistica pubblicato ieri – non ha un lavoro; ben l’1,14% in più rispetto al quarto trimestre 2012.
E intanto ieri una concentrazione di indignados convocata dalla piattaforma ¡En pie! è partita dalla centrale Plaza de Neptuno con l’intenzione di portare la sua «protesta di resistenza attiva» alle porte del Parlamento. In serata la mobilitazione era ancora in corso, e tra i manifestanti si contavano già quattro arrestati e 15 fermi preventivi.
Con il primo maggio alle porte, i sindacati maggioritari (Ugt e Ccoo) annunciano battaglia e chiedono l’abbandono delle politiche di austerità, che il Pp ha applicato con uno zelo senza precedenti. Di certo – nonostante il governo faccia acrobazie circensi per convincere del contrario – il loro effetto sull’occupazione è nefasto. Da quando Rajoy è alla Moncloa, la percentuale dei senza lavoro è aumentato di 7 punti (dal 20 al 27% circa).
Ma dal Pp arrivano surreali dichiarazioni in senso contrario: «L’economia spagnola si riprenderà molto prima del previsto», ha dichiarato il ministro dell’Economia De Guindos, che – nonostante i 1.172.800 posti di lavoro bruciati sotto il governo dei popolari – continua a ripetere lo slogan con impassibilità. Venuto meno il secondo dei due termini del binomio sombrilla-ladrillo (ombrellone-mattone) che ha retto per troppo tempo l’economia spagnola, il paese si trova a dover affrontare il problema (inimmaginabile fino a prima del 2007, cioè dello scoppio della bolla immobiliare) dell’esclusione sociale e del dilagante aumento della povertà.
Quasi due milioni di famiglie spagnole hanno tutti i componenti disoccupati: 1.906.100 nuclei familiari, per l’esattezza; cioè 72.400 in più rispetto ai dati dell’ultimo trimestre dell’anno scorso. Molte di queste famiglie vivono (anzi malviven, come si dice molto efficacemente in spagnolo) con l’assegno di disoccupazione o con la pensione di qualche parente anziano. Per ora. Perché le prossime sforbiciate del governo potrebbero abbattersi proprio sul sussidio per i disoccupati (che già ha subito pesanti ritocchi) e sulle pensioni di anzianità, con grande soddisfazione della Commissione Ue. Bruxelles, con il comissario Olli Rehn, ha ricordato che «in Spagna esistono ancora grossi squilibri macroeconomici» che devono essere ristabiliti «con il consolidamento fiscale, necessario per contenere l’aumento del debito».
E se i pensionati tremano, i giovani continuano a essere la categoria più penalizzata: tra i minori di 25 anni il tasso di disoccupazione schizza al 57,22%, scoprendo uno dei lati più inquietanti dell’emergenza lavoro in Spagna. Un altro preoccupante allarme arriva dai parados de larga duración, cioè dai disoccupati che non lavorano da più di un anno: se ne contano 2.901.100, a conferma della condizione cronica che ha ormai assunto il problema. In questo desolante quadro la via di fuga verso l’estero è sempre più battuta dai giovani.
Molti se ne vanno in cerca del primo lavoro, mentre altri inseguono un miglioramento delle condizioni lavorative, che in Spagna è poco meno che un’utopia: basti dire che in tre mesi il numero dei contratti a tempo indeterminato è diminuito di 385.300 unità. Il governo la chiama flessibilità, ma si tratta di precarietà, fomentata dall’ultima riforma del lavoro del Pp. Ma non sono solo gli spagnoli a lasciare il paese. Emigrano anche persone di altre nazionalità (soprattutto sudamericani), che, arrivate in Spagna nell’epoca dorata, tornano nei paesi d’origine alimentando il fenomeno – indicativo del clima che si respira – dell’emigrazione di ritorno.
il manifesto 26 aprile 2013