conferenza programmaRelazione di Roberta Fantozzi - Conferenza di programma, 29 giugno 2013

Questa comunicazione riguarda la proposta di campagna da realizzare nei prossimi mesi.  Non è quindi riassuntiva del profilo programmatico generale che verrà invece costruito attraverso le tappe prima riepilogate.

È evidente che quest’ipotesi di campagna si colloca nel quadro che Ferrero descriveva, con le valutazioni che facciamo della crisi e degli effetti delle politiche europee.

Sull’Europa vorrei fare solo una battuta di ulteriore contestualizzazione: i giornali riportano il vertice europeo come un grande successo, un grande risultato: sull’occupazione quel vertice ha aggiunto 3 miliardi per un intervento complessivo di 9 miliardi su base pluriennale.

Ora, giusto per dare qualche elemento di confronto, gli stati europei hanno destinato 4500 miliardi dall’inizio della crisi al salvataggio del sistema finanziario, dato fornito da  Michel Barnier, commissario dell’Unione europea per il mercato interno, quindi da fonte assolutamente autorevole ed interna, e per altro verso l’Europa ha oggi 25 milioni di disoccupati!

Quella posta che è stata messa sulle politiche per l’occupazione è sostanzialmente il nulla, è il nulla anche se confrontato con la situazione che esiste nel nostro Paese.

Anche su questo faccio solo qualche richiamo, perché si tratta di dati noti a tutti noi e su cui Antonella Stirati si è diffusa moltissimo nella sua relazione al convegno sull’Europa: noi siamo in un contesto in cui i governi Monti e Berlusconi hanno deliberato un intervento  complessivo fra tagli alla spesa e aumento delle entrate di 125 miliardi per gli anni 2012-2013-2014. Quest’intervento è stato deliberato ma non è ancora attuato nella sua interezza.

A questo intervento dovrebbe aggiungersi a partire dal 2014 la destinazione di tre punti di Pil al rientro dal debito, cioè il famoso Fiscal compact.

Quindi le cifre esaltate e magnificate come cifre in controtendenza sul livello europeo e le cifre che sono esaltate come elementi in controtendenza rispetto al piano per il lavoro del governo, sono il nulla.  Inoltre siamo nuovamente all’invenzione del numero. Lo dico perché dopo i 50mila esodati prodotti dalla controriforma Fornero che poi invece erano 400mila, ora siamo ai 200mila posti di lavoro prodotti con 1,5 miliardi di incentivi, che è un’invenzione del numero. Tutto questo in una situazione in cui viene completamente sottaciuto nel dibattito pubblico il fatto che quella manovra sul lavoro del governo invece contiene, come sottolineava Ferrero, la liberalizzazione dei contratti a termine. I contratti a termine acausali che la riforma Fornero aveva già introdotto vengono resi prorogabili e l’aucasalità generale viene ammessa se prevista da un contratto collettivo anche aziendale. Sostanzialmente siamo in una situazione di generalizzazione completa e non vale dire, come giustamente osservava Nanni Alleva, che già ora la stragrande maggioranza delle assunzioni viene fatta in questo modo, perché ora per lo meno puoi ricorrere e puoi dimostrare che quell’assunzione non aveva i requisiti che ne giustificavano il carattere temporaneo. Questo intervento fra l’altro è contro la stessa Europa.  Perché la direttiva europea sui contratti a termine, in questo caso è più avanzata del quadro italiano perché prescrive che l’apposizione del termine venga giustificata.

Noi siamo dunque in un quadro in cui l’uscita dalla crisi è incompatibile con le politiche europee che anzi peggiorano gravemente la situazione. Do un ultimo dato, giusto per incrementare le nostre  argomentazioni:  è talmente tanto evidente che quelle politiche sono fallimentari che vengono falliti persino gli obiettivi dichiarati. Quando Monti si è insediato il rapporto tra debito e Pil era del 120%, alla fine era del governo Monti è del 127%: le politiche di austerità, essendo fortemente recessive, falliscono i propri obiettivi dichiarati e invece compromettono ulteriormente la situazione, disegnando scenari in cui il rischio di insolvenza si accentua piuttosto che diminuirsi.

Il primo punto della campagna dunque va nella direzione della necessità di una riappropriazione di sovranità democratica, dello scardinamento delle politiche europee e dell’impianto attuale dell’Europa. Ieri Fabio Amato ci diceva che in sede di Sinistra europea il documento su cui alla fine si è concordato è un documento che parla di rifondazione dell’Europa, cioè usa un termine forte. Il punto è che se si vuole ricostruire un orizzonte europeo come uno spazio agibile per il cambiamento della situazione, per una risposta progressiva alla crisi, si deve scardinare l’impianto di questa Europa.

Dunque proponiamo di intervenire per modificare l’articolo 75 della Costituzione. L’articolo 75 com’è noto nega la possibilità che si possano tenere referendum sui trattati internazionali. È  in virtù di quest’articolo che l’Italia diversamente da altri Paesi europei, a partire dalla Francia, non ha mai votato né su Maastricht né Lisbona ed ha anzi conosciuto un livello del dibattito pubblico sull’Europa palesemente inadeguato anche rispetto a quello che ha segnato la storia di altri Paesi.

Ovviamente questo è un punto delicato, perché da un punto di vista procedurale bisogna evitare in ogni modo di aggiungersi a chi vuole manomettere l’articolo 138 della Costituzione, come è negli obiettivi del governo Letta. Mentre da un punto di vista sostanziale va ribadito che una modifica della Costituzione di questo tipo, che renda possibile la riaffermazione della sovranità popolare è l’opposto delle ipotesi di scardinamento della Costituzione che sono in campo: ipotesi che mirano tutte a colpire definitivamente i contenuti sociali e democratici della Costituzione, il costituzionalismo del dopo guerra che è caratterizzato da questa connessione e che nella Costituzione italiana ha raggiunto un livello particolare di compiutezza. All’opposto il fatto di riacquisire una sovranità e di scardinare l’attuale impianto delle politiche europee è un elemento che difende e attua la Costituzione che è incompatibile con quelle politiche europee, perché come ci siamo detti e come è sotto gli occhi di tutti i diritti del lavoro, il welfare, la democrazia, sono assolutamente incompatibili con il proseguimento delle politiche di austerità.

Questo sarebbe oggetto di una prima proposta di legge.  E’ evidente che le proposte di legge servono nella misura in cui sono utili a strutturare un dibattito, nella misura in cui sono utili a riprendere l’iniziativa assolutamente necessaria di provare a spiegare a livello di massa quali sono le cause della crisi, e provare a delineare qual è la strada per uscire dalla crisi. E per altro verso le proposte di legge sono utili nella misura in cui incrociano le vertenze e vengono articolate, a livello locale, su obiettivi parziali.

La campagna non coincide con le proposte di legge in sé, riguarda invece la costruzione che ci si può fare intorno.

La seconda iniziativa che proponiamo è la presentazione di un piano per il lavoro che si traduce anch’esso in una proposta di legge di iniziativa popolare. Ora è chiaro che questo piano per il lavoro per quel che ci riguarda sta in connessione logica evidentissima con la prima iniziativa, nel senso che è possibile un intervento significativo per l’uscita dalla crisi solo nella misura in cui si disobbedisce ai trattati, solo nella misura in cui non si obbedisce al Fiscal compact, perché se 50 miliardi all’anno devono andare a finire nel ripiano del debito nessuna politica che si ponga l’obiettivo effettivo dell’uscita dalla crisi può inverarsi.  La connessione è strettissima.

Questo piano cerca di caratterizzarsi per essere in qualche modo una sintesi, una proposta organica di rovesciamento delle politiche neoliberiste che sono causa della crisi, dei paradigmi di fondo di quelle politiche. Questo ovviamente si colloca nella particolare situazione italiana, nel senso che io credo che noi dobbiamo aver presente che ci troviamo in Italia in una situazione di crisi dentro la crisi. E’ assolutamente vero che l’elemento determinante sono le politiche di austerità a livello europeo ma è anche vero che i dati della situazione italiana sono dati particolarmente negativi su scala europea per le scelte che hanno segnato il nostro Paese da un certo momento in poi e che poi si sono pienamente dispiegate negli anni Novanta. Accenno soltanto a questi dati. Un compagno, un economista, Roberto Romano, qualche tempo fa ha detto: l’Italia più che in una situazione di recessione è in una situazione di depressione vera e propria, nel senso che noi abbiamo una caduta del Pil tra il 2008 e il 2013 che sta come minimo all’8,9%, perché nel 2013 non sarà l’1,3 com’era scritto nel DEF, come minimo è 1,8 dice l’Ocse,  1,9 dice Confindustria. L’area euro a 17 ha un indice di caduta del Pil nel medesimo periodo tra 2008 e 2013 dell’1,6: c’è un differenziale negativo particolarmente rilevante.

Abbiamo una diminuzione della produzione industriale tra il 2008 e il 2012 al 21%, mentre la media dell’area dell’euro a 17 è al 10% e abbiamo una diminuzione del tasso di occupazione anche in questo caso particolarmente accentuato, in una situazione in cui l’Italia partiva già da livelli di occupazione significativamente più bassi rispetto alla media europea.
Quindi ci sono indicatori che disegnano la nostra situazione come particolarmente critica, il che non vuol dire, concordo con Ferrero, che siamo come la Grecia ma vuol dire che ci sono elementi che hanno segnato al negativo il modello sociale del nostro Paese per le scelte politiche che sono state fatte. L’Italia soprattutto a partire dagli anni Novanta ha accumulato elementi particolarmente negativi che spiegano questa situazione potremmo dire sia sul versante della domanda che sul versante dell’offerta. Cioè noi siamo in una situazione in cui i livelli di iniquità nella distribuzione della ricchezza, che come sappiamo sono incrementati ovunque per effetto delle politiche neoliberiste, hanno avuto un’accentuazione particolare nel nostro Paese. Nel 2008 il rapporto dell’Ocse che cito sempre – chiedo scusa ma ha due pregi, uno che è fatto diciamo da “parte avversa”, non è la fonte della Cgil, e due che faceva una comparazione di lungo periodo – diceva che dal 1976 al 2006 la quota dei redditi da lavoro era diminuita di 10 punti percentuali come media dei Paesi Ocse, in Italia erano quasi 15. Siamo in una situazione in cui l’incremento delle disuguaglianze è stato maggiore. Siamo anche in una situazione in cui il nostro Paese ha un problema di produttività vero, che non è un problema di produttività del lavoro, nel senso che è assolutamente vero che in Italia si lavora di più che in Germania, che in Francia, e anche che negli Stati Uniti, dal punto di vista dell’orario di lavoro, e i salari sono crollati tra gli ultimi in Europa.

È un problema che è relativo alla struttura d’impresa del nostro Paese. Gli anni Ottanta e Novanta sono stati anche quelli del “piccolo è bello”, sono stati quelli della distruzione della presenza pubblica dentro l’industria a cui non è seguita nessuna ipotesi di ripristino di una quale che sia politica industriale, abbiamo un tasso di investimento in ricerca e sviluppo che è quasi un terzo di quello della Germania… l’Italia è un paese che si è connotato per perseguire quella che viene chiamata la via bassa della competitività cioè un’idea per cui la precarizzazione del lavoro, e la svalutazione competitiva  finchè è stato possibile, erano gli elementi su cui tu costruivi la tua idea di struttura sociale.

Da questo punto di vista noi abbiamo questi problemi aggiuntivi con cui confrontarci.
Do gli ultimi dati e poi la smetto di disturbare coi numeri: il numero di persone che hanno perso il posto di lavoro dall’inizio della crisi è stimato in circa 700mila-800mila nel 2014 ma se il conto viene fatto sulle unità di lavoro perse, cioè se viene conteggiata la quantità complessiva di lavoro perso (compresa la cassa integrazione, le riduzioni d’orario..) siamo a 1,7 milioni di unità. La crescita della disoccupazione, riporto  i dati che ci venivano forniti da Linda Laura Sabbadini in quel seminario (seminario di Rifondazione svoltosi il 25 maggio scorso, sulla società italiana, ndR), ha colpito accentuatamente al Sud e accentuatamente  i giovani. Si sono persi più di 700mila posti nell’occupazione giovanile mentre invece gli ultra cinquantenni hanno perso meno, a causa della riforma delle pensioni, non per un dato virtuoso ma per l’elemento regressivo segnato da quella riforma. C’è stato nel 2012 anche un qualche aumento dell’occupazione delle donne perché in questa situazione l’elemento di rigidità della domanda continua a rimanere nei servizi di sostegno alle famiglie e in particolare rispetto alla non autosufficienza, ma è evidente che noi siamo un paese in cui i tassi di occupazione delle donne sono 11 punti sotto la media europea, 47% a fronte del 58% della media europea.

La situazione è caratterizzata da quasi 3 milioni di disoccupati, 3 milioni di scoraggiati, 600mila lavoratori in cassa integrazione, una forza lavoro potenziale di 6 milioni di persone.

Se questo è il punto di partenza, il punto in cui noi ci collochiamo, l’ipotesi su cui abbiamo lavorato parte da questa situazione e parte appunto da un’idea di ribaltamento di quelli che sono stati i paradigmi liberisti. Pensiamo che sia assolutamente necessario il ripristino di un’idea di intervento programmatorio dentro l’economia, il ripristino di un ruolo pubblico e la definizione di una missione di questa programmazione e di questo ruolo pubblicoe noi questa missione la definiamo nella produzione pubblica di beni collettivi, declinati sostanzialmente nei termini della salvaguardia della natura, dell’economia della conoscenza, della cura delle persone. Nel ragionamento che faceva Ferrero sulla incapacità di passare, alla fine del ciclo di lotte degli anni Sessanta-Settanta, ad un altro modello di sviluppo c’è questo nodo: cosa, come, per chi produrre. Da questo punto di vista con questa missione, si ipotizza la costituzione di un’Agenzia nazionale per il Lavoro e lo Sviluppo Ecologico e Solidale con funzioni di programmazione, quest’agenzia definisce un piano per il lavoro nazionale che si articola in piani di settore nazionali e piani regionali. C’è insistenza sull’elemento partecipativo della programmazione perché noi non abbiamo un’idea di un piano quinquennale centralizzato, ma un’idea in cui il profilo generale si raccorda con le specificità, le diversità esistenti a livello territoriale. Definiamo piani di settore nazionali su tutta una serie di ambiti, dall’agricoltura all’investimento in ricerca e sviluppo, all’investimento in settori industriali per cui esistono varie stime rispetto alla possibile creazione di posti di lavoro.  Ci sono stime dettagliate ad esempio per quel che riguarda la creazione di posti di lavoro nello sviluppo delle energie rinnovabili, più di 100mila al 2020 o nello sviluppo dell’efficientamento energetico – 700mila al 2020 – con particolari ricadute sulla meccanica e sull’edilizia, dentro un’idea in cui si fa un intervento significativo per la salvaguardia del clima, per preservare quel bene collettivo che è l’equilibrio naturale, la riproducibilità della natura da cui dipende in primis la riproduzione della specie.

Una serie di interventi su grandi ambiti, non li nomino tutti, che riguardano sia il terreno dell’industria , sia il terreno dell’ambiente, del territorio, della conoscenza e della cultura: noi investiamo in cultura pochissimo, solo lo 0,20% del totale della spesa pubblica in un comparto che per noi è assolutamente decisivo.

E c’è tutto l’ambito del welfare. Quest’idea di piano per il lavoro riprende in qualche modo la provocazione che faceva Gallino qualche tempo fa, però quella provocazione si declinava prevalentemente sul terreno del riassetto idrogeologico, della cura del territorio, era un po’ la ripresa dell’idea del New Deal com’era stata nel New Deal, ma fra il New Deal e oggi c’è stato il welfare. Quindi se uno fa un piano pubblico per l’occupazione ci deve metter dentro tutto, ci deve mettere la salvaguardia del territorio, l’economia della conoscenza ma anche il rilancio di settori che sono sottoposti a processi che ne mettono in discussione la stessa esistenza.
Quello che sta succedendo con la spending review nel settore della sanità, per dirne una, con 9 milioni di persone che hanno smesso di curarsi perchè non ce la fanno a pagare i ticket, ci parla di una crisi verticale del diritto alla salute e dentro ad un piano del lavoro ci deve essere il rilancio del sistema sanitario pubblico e del welfare.

La programmazione è triennale, e l’obiettivo assunto è la creazione di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro nel triennio, di cui almeno la metà nel settore pubblico. Il primo atto che si chiede è la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione, che sono 320mila secondo l’Aran, ad oggi solo per un terzo prorogati ma comunque non stabilizzati. Ovviamente questo comporta la rimozione del tetto alle assunzioni nel settore pubblico: una delle misure che hanno colpito durissimamente il  pubblico impiego, che  si accompagna però a un’idea di ridefinizione del pubblico nel senso dell’uguaglianza. Noi proponiamo che le retribuzioni più alte non possano essere più di 5 volte la retribuzione minima nel settore pubblico e questo riguarda anche le consulenze, un ambito che non viene mai investito particolarmente da critica,  ma che sappiamo ha a che vedere molittismo anche con logiche clientelari. L’agenzia nazionale si articola in agenzie regionali, ed ha accanto ai compiti di programmazione, anche un compito di acquisizione diretta di aree, impianti industriali interessati da processi di dismissione, fallimenti, delocalizzzioni e di tutte quelle situazioni in cui un intervento pubblico è necessario per assicurare il proseguimento di attività ritenute strategiche per il futuro del Paese.

C’è un riferimento evidente alla vicenda dell’Ilva. Nella proposta di legge si fa riferimento  alle procedure di esproprio per motivi di pubblica utilità come normate da Costituzione. Ed è poi favorita la trasmissione ai lavoratori costituiti in cooperative, con una serie di interventi di sostegno al lavoro cooperativo.

Sempre per quel che riguarda il settore pubblico chiediamo la moratoria di tutti i processi di dismissione dei servizi pubblici locali, terreno su cui i processi di privatizzazione continuano ad essere perseguiti nonstante i referendum. Mente per altro verso le risorse impiegate per il  piano stanno fuori dal patto di stabilità per i bilanci degli enti locali.

Accanto a quest’intervento di creazione diretta di lavoro nel pubblico c’è la proposta per i settori privati di creare occupazione fondamentalmente attraverso l’incentivazione a carico della fiscalità generale della riduzione dell’orario di lavoro. Richiamo per chi l’ha letto un intervento di qualche tempo fa di Nanni Alleva sui contratti di solidarietà espansivi, cioè quelli messi in opera non per gestire situazioni di crisi ma per la scelta di redistribuire il lavoro, previsti già a livello legislativo ma sostanzialmente inutilizzati, perché non prevedendo l’indennizzo delle ore di lavoro perse, la riduzione d’orario si traduce in una perdita salariale rilevante. Ma con una riduzione a 4 giornate, 32 ore dell’attività lavorativa, si potrebbero creare milioni di posti di lavoro. Nella proposta di legge si estende l’indennizzo previsto per i contratti di solidarietà difensivi ai contratti di solidarietà espansivi e di porta l’entità dell’integrazione all’80%. Ridurre l’orario di lavoro significa anche rimettere in discussione la controriforma delle pensioni della Fornero che ha comportato il più violento aumento dell’orario di lavoro della storia repubblicana. Sulle pensioni non ripeto se non per cenni alcune cose, recentemente c’è stata la presentazione dell’ultimo rapporto sul welfare fatta da Felice Roberto Pizzuti da sempre  impegnato su questi temi, che ci ha ricordato nuovamente come il sistema previdenziale in Italia fosse più che in equilibrio, come il rapporto fra contributi versati e prestazioni pensionistiche, al netto delle tasse, sia da molto tempo un rapporto in attivo. Un attivo che anche nel 2001 ha ammontato a 1,5 punti di Pil.

Per noi quell’incremento enorme dell’età di lavoro va rimessa in discussione perchè significa un incremento della disoccupazione, una barriera ulteriore per la possibilità di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Su questo vorrei dire anche che noi pensiamo che vada ripristinato un differenziale tra donne e uomini, non perché debba essere eternizzato il ruolo femminile nella riproduzione sociale, nel lavoro domestico e di cura, ma perché ad oggi è impensabile equiparare situazioni che in virtù di quella ruolizzazione di maschile e femminile sono segnati da un’asimmetria profondissima per tasso di occupazione, mansioni, livelli retributivi.
Sulle pensioni si propongono altre due operazioni: da una parte la possibilità per le lavoratrici ed i lavoratori di destinare il proprio risparmio previdenziale a un fondo per la previdenza integrativa pubblico, presso l’Inps, che avrebbe anche un effetto di incremento delle entrate dello Stato significativo perché sbloccherebbe chi non si fida giustamente della pensione integrativa privata. Dall’altro la messa a tema della necessità di definire meccanismi per utilizzare il patrimonio, consistente per quanto non enorme, dei fondi pensioni italiani, sul terriotrio e nell’economia del paese. Si tratta di un patrimonio di 100 miliardi di euro, con 12 miliardi di flusso annuo, che potrebbe essere speso assai più di quanto non avvenga sia nel sostengo ad attività produttive che per l’acquisto dei titoli di stato, che consentirebbero rendimenti vantaggiosi e sarebbe al tempo stesso parte di un processo di rinazionalizzazione del debito.

Il piano prevede anche una serie di interventi redistributivi a favore dei redditi bassi e da lavoro, con l’abbassamento della prima aliquota Irpef dal 23 al 20%, che va a beneficio di tutti i redditi ma in particolar modo dei redditi bassi, da lavoro dipendente e da lavoro autonomo, e la reintroduzione di un meccanismo di restituzione automatica del Fiscal Drag, previsto nell’89 da una legge e subito cancellato. Sul versante salariale si prevede anche l’introduzione di un salario orario minimo che interessi anche il lavoro parasubordinato, calcolato come media dei minimi contrattuali dei contratti collettivi nazionali: per eliminare la contrapposizione tra legge e contratto, facendo un’operazione di ricomposizione dentro il mondo del lavoro.

Come si finanzia tutto questo? L’entità è rilevante perchè a regime, l’ultimo anno, ipotizza uno spostamento di risorse di una novantina di miliardi. Un’entità rilevante anche se non molto distante da quella ipotizzata da chi come la Cgil ha a propria volta lavorato ad un piano del lavoro, quantificato dai 50 ai 75 miliardi di intervento annui.  Una posta molto significativa che tuttavia non recuperebbe neppure quella redistribuzione regressiva del reddito che si è operata a partire dagli anni Novanta, perchè dal ’90 ad oggi siamo per lo meno a 7 punti di Pil che si sono spostati dai redditi da lavoro a profitti e rendite e 90 miliardi è una cifra inferiore.

Come si finanziarebbe? Si finanzierebbe con un provvedimento di sostituzione dell’IMU con una patrimoniale sulle ricchezze immobiliari e finanziarie sopra gli 800mila euro con aliquota di base dell’1%, con un abbattimento dell’evasione e dell’elusione fiscale che viene ipotizzata al termine del periodo del 50%, con un innalzamento dell’imposizione sulle rendite finanziarie dal 20 al 23%, anche per arrivare finalmente a una situazione in cui i redditi da rendita siano tassati più della prima aliquota dei redditi da lavoro mentre ora siamo nella situazione inversa, la prima aliquota dei redditi dal lavoro è al 23, quella sulle rendite finanziarie è al 20. Si finanzia con la reintroduzione dell’imposta di successione, con una modifica delle aliquote più alte, con una eliminazione della cedolare secca sui redditi da locazione a canone libero. In aggiunta si prevedono una serie di interventi sulla spesa: il taglio della spesa militare, gli F35, ma anchegli  organici degli eserciti, la revisione complessiva non solo dell’alta velocità ma anche delle grandi opere. A questo si aggiunge un fondo di rotazione presso la Cassa Depositi e Prestiti.

È una manovra di dimensioni rilevanti, che tiene dentro la proposta di reddito minimo, perchè pensiamo che la contrapposizione tra redditisti e lavoristi sia un errore, sia sbagliata. Se dovessi dire qual è l’elemento di prefigurazione di una società che rispecchi un progetto di alternativa compiuta, per me è indubbiamente la riduzione dell’orario di lavoro, ma provvedimenti come il reddito minimo garantito sono essenziali in questa fase per spezzare il rischio di povertà, gli elementi di dipendenza e di ricatto sulla vita delle persone e dentro lo stesso rapporto di lavoro.

Questo è più o meno l’impianto della proposta su cui costruiremo un processo di condivisione discutendo sia il merito stretto del testo della PDL che il percorso di articolazione territoriale e per i diversi settori.

Chiudo con una notazione. Credo che dovremmo riuscire a comunicare il fatto che effettivamente si fa un tentativo di strutturare un’ipotesi per uscire dalla crisi con un diverso modello di sviluppo, con un progetto di alternativa. Poichè Ferrero ha molto insistito sulle soggettività, sull’immaginario e sul fatto che la situazione in cui ci troviamo dipende anche dall’egemonia che altri hanno avuto, a partire dal rovesciamento dell’idea di libertà, io credo che per esempio il tema della riduzione dell’orario di lavoro vada affermato nuovamente come tema strategico.  Non solo come misura per creare occupazione ma anche come possibilità di riprenderso uno spazio di vita.  Un tempo per l’individuo perchè noi siamo contro l’individualismo egoistico ma siamo per la ricchezza dell’individuo e delle libertà individuali, un tempo per la relazione gratuita con gli altri, un tempo per la partecipazione e lo spazio pubblico.  Con tutti i limiti, con la campagna noi dovremmo provare a comunicare non soltanto una risposta alla crisi ma anche l’idea di una società più giusta e più desiderabile.

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