di Giovanni Dozzini

Di solito, quando va bene, è la cronaca. Un giornale che ti racconta in cinque righe la storia di una morte, ti dice il nome, ti dice dove, ti dice come. Una morte, due, tre, quattro, in un solo giorno, chi cade da un’impalcatura, chi resta schiacciato sotto una pressa, chi prende fuoco. Sempre e comunque gente che una mattina come tutte le altre s’è svegliata per andare a lavorare, e che dal lavoro, quel giorno, non ne è uscita viva.

Così vanno le cose, ogni tanto: lavorando passi la maggior parte del tuo tempo, probabilmente fatichi, se sei fortunato ti diverti, certe volte ti pagano bene, il più delle volte ti pagano male. Poi, un giorno, lavorando muori.

Le chiamano morti bianche, e non ci potrebbe essere modo peggiore di chiamarle. Non c’è niente di candido, nella morte, soprattutto quando si tratta di una morte del genere. Perché nessuno dovrebbe morire facendo quello che fa per garantirsi una vita dignitosa, perché la morte in un posto di lavoro è ancora più sporca, più scura, più nera di qualsiasi altra morte. Perché nella maggior parte dei casi ci vorrebbe pochissimo, per non morire lavorando. Basterebbe che chi ti dà da lavorare, per esempio, non si mettesse a fare calcoli su quanto gli costa garantire la tua sicurezza. La sicurezza sul lavoro, ecco, dovrebbe essere uno di quei valori che qualcuno chiama non negoziabili. Come si può risparmiare sulla vita o anche solo sulla salute di donne e uomini che lavorando ti fanno più ricco? Roba da pazzi. O meglio, da criminali.

Infatti ci sono le leggi, per quelli così, ci sono le punizioni. Solo che ogni tanto spunta sempre qualcuno, tra coloro che le leggi le fanno, che tra una chiacchiera e l’altra riesce a smussare qualche spigolo, addolcire qualche pena, aggiungere qualche attenuante. Il guaio è che noi, di queste cose, ne sappiamo poco. Sul giornale, o in televisione, le morti sul lavoro ci vanno, ma per il tempo di un batter di ciglia. Ti dicono il nome, ti dicono dove, ti dicono come, certo. Poi basta. Il giorno dopo cambieranno il nome, cambieranno il dove, cambieranno il come. La cronaca, giusto la cronaca. Perché approfondire è noioso, complicato, rischioso. I mass-media, quelli grossi, preferiscono altri tipi di morti, preferiscono i morti ammazzati, preferiscono i coltelli, le pistole, gli strangolamenti. Di sera la televisione si riempie di racconti e ricostruzioni e testimonianze riguardanti vicende che non hanno nulla a che vedere con lo stato di salute e di virtù di una società. Fatti drammatici, per carità, ma puramente individuali vengono trasformati in spettacoli di massa, in esempi, in moniti. È che le nostre viscere sono sensibili, al sangue e alle contorsioni della psiche umana, e quello che alimentiamo così è un genere di paura che in fondo ci piace – e piace a loro, verrebbe da dire.

La faccenda degli infortuni sul lavoro, che invece è un fatto sociale, andrebbe affrontata con decisione e continuità, andrebbe indagata, analizzata, la gente dovrebbe saperne di più, capirne di più. Però no, non si può. A meno che non ci sia una strage, che a quel punto diventa uno spettacolo come un altro, non si può. Non conviene a chi specula sulla morbosità del popolo, non conviene a chi ci mette i soldi, nel giochino dell’informazione, perché chi paga la pubblicità spesso è lo stesso che si ritrova a fare i conti su come poter risparmiare sulle condizioni di sicurezza delle donne e degli uomini che lavorando lo fanno più ricco.

I nodi sono questi, quando si parla di infortuni sul lavoro: l’informazione, la cultura e le leggi. Per chi fa questo mestiere, il mestiere di raccontare agli altri ciò che accade giorno dopo giorno, si tratta di un tema che fa eccezione rispetto a tutto il resto. In tema di sicurezza sul lavoro occorre essere militanti. Avere il coraggio di andare sempre oltre la pura e nuda cronaca, di indicare le responsabilità e le colpe. Anche così – e qui siamo alla cultura – quelle donne e quegli uomini che vanno a lavorare prendendo alla leggera i rischi che magari per venti o trent’anni o solo per un giorno sono riusciti a schivare si faranno più consapevoli, e cominceranno a prestare più attenzione, e ad accettare meno compromessi. Anche così, dall’altra parte, i loro datori di lavoro si sentiranno meno tutelati. E, di conseguenza, quelli cui spetta occuparsi di regolare le nostre vite attraverso le leggi avranno meno scuse per risparmiare severità e rigore a chi continua a trattare il lavoro alla stregua di una qualsiasi voce contabile.

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