Ieri il governatore della Banca d'Italia Visco ha detto chiaro e tondo che la scarsa domanda di lavoro qualificato in Italia dipende da caratteri strutturali del nostro sistema produttivo. Dunque non erano i diritti e la rigidità del mercato del lavoro spianati col bulldozer delle riforme a costringere tanti laureati e giovani a lasciare il nostro paese con un'emigrazione pari a quella del dopoguerra.
In particolare ha puntato il dito contro gli assetti del sistema produttivo nazionale caratterizzato da una presenza sproporzionata rispetto agli altri paesi europei di piccole imprese specializzate in attività tradizionali, con scarso livello d’innovazione e a basso tasso di valore aggiunto, responsabili della piaga dei bassi salari e delle modeste opportunità di impiego.
Bisognerebbe però andare oltre e da un lato individuare le responsabilità politiche ed economiche della situazione in cui versa il paese e soprattutto indicare le scelte da fare per cambiare la struttura produttiva del paese.
Dovrebbe avere il coraggio di denunciare le scelte di politica economica e monetaria che hanno favorito la finanziarizzazione dell’economia e lo sciopero degli investimenti, la privatizzazione e poi la distruzione delle grandi aziende pubbliche, le esternalizzazioni e le delocalizzazioni, il crollo degli investimenti pubblici e privati insieme alla spesa pubblica, il crollo della spesa in istruzione, formazione e ricerca, la rinuncia assoluta dei governi degli ultimi trent'anni a qualsiasi politica industriale lasciando nelle mani dei mercati il destino economico e sociale del paese.
Se a tutto ciò aggiungiamo decenni di politiche mirate alla distruzione delle tutele e dei diritti dei lavoratori, all’introduzione delle norme che hanno generalizzato la precarietà e concesso alle imprese la libertà di farsi finti contratti a piacere, risulta chiaro il perché di quei salari da fame che permettono a
molte delle piccole imprese di sopravvivere senza innovare e produrre occupazione di qualità.
Il disastro dei 3 milioni di neet e dei giovani costretti ad emigrare perché troppo formati per le imprese italiane sta tutto qui.
Il punto caro Governatore della Banca d’Italia è che nel Recovery Plan di Draghi non c’è traccia di un cambiamento di rotta, non c’è l’idea di un profilo economico per il paese diverso da quello che ha descritto. Di conseguenza mancano quelle politiche industriali in grado di modificare la specializzazione produttiva nazionale mettendola al livello delle principali economie europee.
Limitarsi all’elargizione di soldi pubblici alle imprese a pioggia e ai salvataggi pur giusti delle imprese che non ce la fanno non funziona se non all’interno di un progetto di riconversione dell’economia guidato dal pubblico nella direzione di un modello economico e sociale alternativo all’esistente.
Ma soprattutto Visco non dice che è la Repubblica che è venuta meno ai suoi doveri costituzionali rinunciando a una politica per l'occupazione. L'Italia ha bisogno di un piano per il lavoro a partire dal rilancio del pubblico. Bisogna colmare il gap con gli altri paesi europei sono necessarie almeno 1 milione di assunzioni. E' lo Stato che ha bisogno di tanto lavoro qualificato per fornire risposte ai problemi dei cittadini. E' lo Stato che dovrebbe dare una risposta laddove non lo fanno l'impresa e il mercato.

Maurizio Acerbo, segretario nazionale
Antonello Patta, responsabile lavoro
Partito della Rifondazione Comunista - Sinistra Europea

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