di Luca Nivarra

Le due pronunzie con cui la Corte costituzionale ha fatto giustizia dell’abusiva manomissione del referendum del 12 e 13 giugno 2011 chiariscono, si spera in modo definitivo, tre punti fondamentali. Il primo è che i Comuni non sono, e non possono essere, obbligati a cedere ai privati la gestione dei servizi pubblici locali. Il secondo è che, in forza del dettato comunitario, alle forme di gestione “privatistica” si affianca, con pari legittimità, lo strumento pubblicistico dell’azienda speciale.

Il terzo è che la disciplina abrogata (l’art.23 bis del “decreto Ronchi”) aveva ad oggetto tutti i servizi pubblici locali, sicché emerge oggi con solare evidenza l’imbroglio congegnato prima dal governo Berlusconi e poi avallato dal governo dei “tecnici” che, con l’art. 4 l.138/2011, aveva reintrodotto quella disciplina, salvando però il servizio idrico come se, appunto, il corpo elettorale fosse stato chiamato a pronunziarsi soltanto su questo aspetto.

Il rilievo giuridico e politico delle due sentenze è enorme. Esse, sostanzialmente, riportano le lancette indietro di un anno e ridanno vigore alla battaglia condotta da chi riteneva imprescindibile il pieno rispetto dell’esito del referendum e, invece, si è trovato, a distanza di poco meno di due mesi, con una norma che quell’esito vanificava, con in più la beffa di un furfantesco omaggio alla volontà popolare. Questo anno, peraltro, non è passato invano. Il capitale, forte dell’esplicito sostegno della “troika” e delle sue diramazioni indigene, ha ulteriormente rafforzato la sua presenza nel settore delle utility, incontrando in amministrazioni locali subalterne o francamente complici una debolissima resistenza o un attivo sostegno (si pensi, solo per fare un esempio, alla vicenda Alemanno-Acea).

Pochissimi gli elementi di segno contrario: a parte Napoli, e la Puglia, uno scenario decisamente dinamico è stato quello siciliano dove il Forum dei movimenti per l’acqua e un congruo numero di sindaci (di ogni colore politico) avevano presentato, due anni fa circa, un disegno di legge di iniziativa popolare avente ad oggetto una regolazione organica del settore idrico. Questo testo, più volte rivisto e migliorato anche sotto il profilo tecnico, era approdato, all’inizio dell’anno, all’esame della commissione Ambiente dell’Ars, uscendone con alcune modifiche significative ma intatto in alcuni punti fondamentali, a cominciare dalla riaffermazione del carattere pubblicistico della gestione.

Il Forum, dando prova di realismo e senso di equilibrio, aveva manifestato un prudente apprezzamento dei risultati ai quali la Commissione era pervenuta, e si era mobilitato per un rapido passaggio in aula e un’approvazione altrettanto rapida. A questo punto, però, tutti i diffusi e trasversali interessi contrari alla ripubblicizzazione si sono mobilitati impugnando l’arma finale del capitalismo in tempo di crisi: l’assenza di copertura finanziaria. Così, quel testo di legge è uscito dalla commissione Bilancio corredato di una serie di osservazioni strumentali, se non fantasiose: circostanza, questa, tanto più irritante perché, ad esempio, su uno dei punti più caldi – gli eventuali indennizzi da corrispondere ai gestori privati – era stata accolta, su indicazione di chi scrive, una soluzione in base alla quale, salvo i casi di macroscopica inosservanza dei piani di investimento, i contratti di servizio in essere (4 su 9 province) avrebbero potuto proseguire fino alla loro scadenza naturale. A nulla sono valsi gli incontri (e gli impegni da questi scaturiti) con i capigruppo e con il presidente dell’Ars: il disegno di legge, ulteriormente dimagrito in un estremo sforzo di pragmatismo, condivide oggi il tramonto della peggiore legislatura della storia, di suo non proprio esaltante, dell’Autonomia siciliana. Un tramonto reso ancora più cupo dalla feroce determinazione con cui il presidente della regione aggredisce i sindaci che ancora oggi, fedeli custodi dell’esito referendario, si rifiutano di consegnare le reti ai privati.

Come è noto, salvo imprevisti, la Sicilia andrà a votare per il rinnovo dell’Ars alla fine di ottobre. Le sentenze della Consulta, come ho già detto, ridanno slancio alla battaglia ingaggiata in occasione del referendum; mentre, dal canto suo, il modo in cui tutte le forze politiche presenti in parlamento hanno trattato il disegno di legge di iniziativa popolare (eccezion fatta per l’impegno, davvero commendevole, di alcuni singoli) deve rappresentare un monito all’elettorato, ignorato da una classe politica tutta protesa alla tutela degli interessi delle lobby di settore e compattamente tetragona a una interlocuzione genuina e trasparente con i movimenti. Un monito e un banco di prova anche per i candidati alla carica di governatore, dai quali ci si aspetta che le prerogative delle regioni in materia di servizi pubblici locali, consacrate dalle due pronunzie della Corte, vengano con tanto più vigore difese ed esercitate in ragione del regime di specialità di cui gode la Sicilia.

 

soggettopoliticonuovo.it

 

 

 

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